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Parte seconda: Significato e significante, il linguaggio nell'Esoterismo
L’immagine e il Simbolo
Arrivati a questo punto sappiamo che le leggi della logica sono incapaci di rendere conto della complessità della Realtà, che la cosiddetta “scientificità” è un’insieme di leggi entrate nella nostra mente per quella sorta di ipnosi di massa che è l’istruzione, che le stesse basi su cui fondiamo i nostri giudizi sono mitologiche [1] , come si può fare ad orientarsi? La risposta sta’ nell’immagine. Cos’è l’immagine? Non mi arrischierò in una definizione esaustiva di un campo tanto discusso e vario, ma mi limiterò ad indicare alcune caratteristiche dell’immagine rilevanti per quanto concerne questa analisi. Innanzitutto l’immagine è qualcosa di necessariamente limitato. In secondo luogo è qualcosa che si oppone ad uno sfondo. Per ultimo possiamo dire che l’immagine è un contenitore di sensazioni. Per meglio esprimere questo concetto dobbiamo pensare alle emozioni come alle frequenze della radio, ovvero un insieme di onde di frequenza più alta o bassa che convogliano dei contenuti. Le immagini sono come i pulsanti della radio che ci permettono di sintonizzarci su un preciso stato di coscienza. Ma le immagini sono anche come delle strade che portano verso emozioni e stati di coscienza precisi ed è proprio questa la funzione che svolgono nelle grandi costruzioni di immagini che riempiono ogni campo della nostra esistenza. È questa la funzione dell’immagine o dei sistemi di immagini: guidare l’individuo in un viaggio verso uno stato di coscienza ricercato. Elemire Zolla, in una rivista rilasciata all’enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, datata 27/03/1996 sullo sciamanesimo ribadisce l’importanza della fantasia: “La fantasia europea è una parte della psiche corrotta, diminuita, disprezzata, mentre nello sciamanesimo la fantasia è la guida alla quale ci si affida per conoscere i grandi misteri dell’esistenza.”. E prosegue parlando dell’ampiezza dell’uso di pratiche immaginative: “È fondamentale comprendere che lo sciamanesimo non è limitato al mondo rappresentato da Eliade nel suo grande trattato. Lo sciamanesimo è presente anche nei Vangeli: allorché il Cristo guarisce gli indemoniati, partecipa a un’azione di tipo sciamanico. Mi sembra, dunque, molto strano che dei popoli che credono di basarsi sui Vangeli, non abbiano dimestichezza con la vita sciamanica, la quale non dimostra altro che questa facoltà di risanamento, di esorcismo. Anche la Grecia, che è il punto dal quale si fa partire la cultura occidentale, era un paese sciamanico: i grandi eroi orfici della Grecia, infatti, non erano altro che sciamani; anche l’intellezione della tragedia greca è impossibile se non ci si immedesima con esperienze di tipo sciamanico. Si prenda, per esempio, il caso di Cassandra: responsabile di non aver voluto un figlio da Apollo, aveva avuto l’esperienza tipica della sciamana, ossia sposare un dio, tuttavia non aveva ceduto interamente a lui. Pertanto ritengo che senza tener presente le esperienze sciamaniche non sia possibile comprendere interamente chi fosse Cassandra.”. Infine alla domanda sul perché la radice vitale dello sciamanesimo, ovvero la capacità dell’immaginazione di mettere in scena immagini archetipiche sia andata persa alla soglia dell’epoca moderna Zolla risponde: “Potrei rispondere che sono state le fiamme che hanno avvolto Giordano Bruno, che fu il massimo teorico della fantasia come metodo per allenare la memoria. Non è un caso che oggi i suoi libri sulla memoria non si comprendano a pieno, risultano molto difficili. Dunque è possibile considerare Giordano Bruno come l’ultimo a essersi occupato di questa utilizzazione della fantasia, di questo irrobustimento della fantasia finalizzato all’accrescimento della memoria per ottenere una conoscenza più profonda. Pertanto è all’inizio del Seicento che comincia a cedere la fantasia europea. È possibile considerare il Tasso come l’ultimo grande poeta epico dell’Europa, poiché con esso si vede morire tutto l’insieme dei prodotti della fantasia che un tempo rallegravano la vita. La nostra attuale fantasia non ha nulla in comune con quella di un qualunque seguace del vudù di Haiti: la nostra fantasia non riesce nemmeno più ad affrescare una chiesa. Di contro la fantasia sciamanica riesce ad ordinare il cosmo evocando un archetipo fondamentale, quale l’ascesa di una montagna, l’entrata in una caverna e la scoperta, in fondo alla caverna della Grande Dama, che concede la vita. Questo è uno degli schemi più antichi, più diffusi, che è possibile trovare in tutti i popoli. Laddove si trasforma la scena, non cambia nulla del sostrato. Un’altra storia prototipica è rappresentata dallo sciamano che si immerge nel mare fino alle massime profondità e, in un anfratto della costa, entra in una caverna dove incontra la divinità, principio della vita e fondamento dell’esistenza. In altre storie, invece della salita e della discesa, vi è la grande traversata del deserto e l’arrivo nell’oasi dove domina la Grande Dea dell’Atlantide. Quindi tutte le possibilità sono aperte, ma in realtà è unica la storia: l’attraversamento di un percorso accidentato, la perdita di tutte le vesti e, infine, l’arrivo nudi alla meta e la lotta per avere l’accesso alla fonte della verità e della vita.”. In occidente la vera fioritura delle tecniche psicagogiche legate all’immagine (quella che sopra Zolla ha definito “fantasia sciamanica”) si ebbe nel rinascimento. Quando l’ars memoriae, una delle cinque parti di cui era composta la retorica, si fuse con il clima mistico proveniente dall’arrivo in occidente dei dialoghi platonici e dei testi della grande tradizione ellenistica come il Corpus Hermeticus e la teoria del “linguaggio universale” che si realizza già agli inizi del trecento con Raimondo Lullo nell’arte combinatoria per prendere poi tutte le caratteristiche di questo crogiolo di correnti di pensiero nella fantasiosa interpretazione dei geroglifici egizi effettuata dall’abate Athanasius Kirker. Di questa particolare fioritura parla Gabriele la Porta nel suo articolo Ars memoriae: il cuore della magia rinascimentale di cui riporterò un ampio estratto: “Nel secolo XVI intervengono mutamenti radicali in una delle tecniche retoriche più esercitate, la cosiddetta Arte della Memoria. Questa forma di apprendimento veniva definita Arte per le sue implicite potenzialità creative, inerenti ad infinite possibilità combinatorie di immagini preparate appositamente per essere mnemonizzate. In effetti l’uomo contemporaneo è abituato a ricordare dividendo per specie e per generi, per analisi, per similitudini concettuali, grammaticali, sintattiche. È così avvezzo ad operare con questo tipo di strumento mentale, da non porre mai l’attenzione all’antichità ed ai suoi strumenti di memoria, diversi, complessi, apprendibili con difficoltà, ma dai risultati strabilianti. Essi costituivano appunto l’Ars Memoria. La memorizzazione moderna discende da Pietro Ramo e si è affermata nel mondo occidentale solo dal XVII secolo in poi. L’altra non è databile, presente da sempre nel mondo antico. Basata sulla convinzione della maggiore potenza della memoria visiva rispetto a quella concettuale, consisteva nel potenziare la facoltà immaginativa di coloro i quali iniziavano ad apprenderla. Lo studente doveva cominciare ad imprimersi nella memoria alcune immagini familiari (ad esempio la propria stanza da letto) per passare poi a quelle di luoghi meno noti, esterni, come piazze, oppure facciate di cattedrali (spesso costruite per servire da immagini memorizzabili, come sostiene F. Yates in Arte della Memoria). Una volta fatta propria questa facoltà, lo studente immaginava scene non reali, ma inventate, purché ricche di particolari avvincenti, facilmente imprimibili. Ad ogni immagine, perfettamente memorizzata, veniva poi associato un concetto (oppure anche una parola) da ricordare. In questo modo, allorché si doveva rammentare un discorso,oppure un tema od altro, si tornava con la mente alla figura memorizzata, riandando visivamente mente ai suoi particolari. Richiamando il ricordo del particolare, riaffiorava anche il concetto (o la parola) che ad esso era stato accostato. Dovendo fissare molti concetti, si ricorreva ad una serie ordinata di immagini, tale da poter essere rivisitata in avanti o indietro con facilità. Si poteva, ad esempio, scegliere l'interno di una chiesa perfettamente nota in ogni suo particolare e quindi, scorrendone con la mente le pareti in modo ordinato, associare a ciascuno di tali particolari (una statua, un altare, un, capitello) uno dei concetti da memorizzare. E evidente che una maggiore quantità di figure a disposizione rendeva più dilatabile la possibilità del retore di ricordare. Lullo, Scaligero, Della Porta, e soprattutto Giordano Bruno, avevano creato infinite possibilità combinatorie di immagini, rendendo parimenti vasta la potenzialità concettuale. Il De umbris idearum [2] e il Cantus Circaeus, opere scritte da Bruno a Parigi ne11582, sono gli scritti del filosofo che più degli altri attestano questa infinita possibilità di combinazione tra le immagini, in una enciclopedia fantasmagorica di rappresentazioni mentali, dilatabili o restringibili a volontà dello studioso. "L’Ars Memoriae - afferma Paolo Rossi - non si pone più come una semplice forma retorica, né l’ars combinatoria come una tecnica logica... appaiono strettamente collegate ai temi di una metafisica eseplaristica e neoplatonica, ai motivi della cabala e della tradizione ermetica, agli ideali della magia e dell’astrologia... Inserite nel discorso, pieno di toni iniziatici, di una magia rinnovata, queste tecniche cambiavano in realtà funzione e significato, perdevano il contatto con il terreno delle scienze mondane, ella dialettica, della retorica, della medicina: apparivano miracolosi strumenti, cui era opportuno affidarsi per il raggiungimento del sapere totale o della pansofia”. [3] La mnemotecnica Rinascimentale, dunque, si poneva quale fine non più il dilatarsi della mente, bensì tentava di strutturare se stessa come mezzo di ricreazione del mondo, quale organo affiancatore della magia o addirittura ad essa assimilabile. La differenza con il cristianesimo di un Marsilio Ficino, oppure di un Pico della Mirandola è sostanziale. Ancora Rossi è esemplificativo: "Il caso di Bruno è, da questo punto di vista, esemplare: mentre si configurava come un rifiuto della logica tradizionale e sostituiva le immagini ai termini, la topica all'analitica, l’Arte Bruniana finiva per muoversi su un terreno ben diverso da quello delle indagini dialettiche, rifiutava ogni identificazione con una tecnica linguistica o retorica, si poneva come uno strumento capace di consentire prodigiose avventure e costruzioni totali. Connettendosi agli ideali ed alle aspirazioni della magia, l’Ars lnveniendi e l' Ars Memorativa apparivano le vie da seguire per penetrare i segreti della natura e decifrare la scrittura dell'universo". Emerge l'opinione del Lullo e del Della Porta, del Giulio Camillo Delminio e soprattutto del Bruno, di considerare l' Arte della Memoria come applicazione dell'arte magica (a questo proposito è utile ricordare che Wolfang Hiland nella sua Magia Naturalis presenta l' Ars Memorativa come applicazione dell'arte magica ad una specifica forma dell’operare umano). La via Bruniana è perciò una magia senza le limitazioni restrittive di quella della Accademia Platonica di Lorenzo il Magnifico. In realtà la sua forma operativa di Arte della Memoria è l'essenza della scientia scientiarum, della tecnica dei re maghi. Come nel platonismo, anche nell’esoterismo si trova un carattere ambivalente dell’immagine. Da una parte, infatti, come abbiamo già accennato, essa serve come strada per giungere alla meta esoterica, l’ascesa, ed è evidente come di questa funzione se ne faccia un uso massiccio anche in campi che nulla hanno a che fare con l’esoterismo. Dall’altra essa è proprio l’ostacolo principale in questo cammino, questo perché immagini diverse da quelle selezionate richiamano automaticamente l’individuo verso altre emozioni ed altri stati di coscienza. Ad esempio all’interno di una tragedia ci si trova condotti in uno stato emotivamente ricettivo e concentrato nelle cupe vicende; se per caso all’interno della scena avvenisse qualcosa di comico, tutto l’effetto sarebbe totalmente rovinato perché non si sarebbe più sintonizzati sulla tragicità ma si verrebbe sviati in un altro “luogo di coscienza”. In seconda battuta la limitatezza stessa dell’immagine è d’impedimento per il raggiungimento della meta esoterica, in quanto quest’ultima è un luogo di coscienza in cui le limitazioni non hanno senso e non possono esistere. Per il raggiungimento di uno stato di coscienza e la sua stabilità, infatti, bisogna servirsi delle scale offerteci dalle immagini o dai sistemi di immagini e poi toglierle da sotto per non essere imprigionati dalla loro limitatezza intrinseca e dai mille richiami che contengono. Di entrambe queste caratteristiche sono ben coscienti i buddisti. Infatti conoscono bene la pochezza della mente umana e la facilità con la quale si perde dietro ai richiami delle immagini. Per esempio, ascoltato un discorso convincente, mettiamo sulla dottrina buddista, ne usciamo convinti e vogliosi di praticare la via di mezzo. Così, ci impegniamo per un paio di giorni nelle pratiche rituali con il massimo impegno. Ma già il secondo giorno ci accorgiamo di non trovarci più in quello stato emotivo di entusiasmo del giorno prima, quando avevamo ascoltato il discorso e ci era sembrato giustissimo, verissimo e che con il massimo entusiasmo avremmo trovato in esso la soluzione di tutti i problemi, la soluzione totale. Passano altri due giorni ed anche il contenuto del discorso incomincia a sfaldarsi nella memoria e più che altro incominciano ad apparire delle fessure in quella che sembrava la superficie liscissima e splendente di un diamante, ed ecco apparire i primi dubbi. In capo ad un paio di settimane ricordiamo a grandi linee la dottrina e vi concordiamo perfettamente, ma ci sfugge il contenuto del discorso a cui abbiamo assistito. Ricordiamo benissimo lo stato d’animo, l’entusiasmo che esso ci aveva provocato, ma le nozioni che ci ricordiamo non lo provocano più. In altre parole ricordiamo il luogo di coscienza in cui eravamo giunti ma non siamo più in grado di giungerci perché non ricordiamo le immagini specifiche che lo hanno causato. Può darsi che in capo ad un paio di mesi abbandoniamo la pratica perché le immagini che abbiamo intorno ci gettano in mille altri luoghi di coscienza ed emozioni (collera, invidia ecc.) senza che le immagini del vecchio discorso possano farci niente, anche se intellettualmente siamo rimasti fedeli a quei principi, tuttavia le immagini precise sono svanite e con esse anche la strada per dove ci piacerebbe essere. Questo lungo esempio spiega bene il ruolo delle immagini e ci aiuta a comprendere la ritualità buddista. La regola buddista infatti tende alla semplicità ed all’esiguità dei principi per un fatto puramente mnemonico. Se riduciamo i principi del discorso di sopra a quattro o cinque, sarà facile che si riesca a rimanere nel luogo di coscienza iniziale molto più a lungo perché si ricorda il sistema di immagini principali. In secondo luogo i testi sacri vengono letti mille e mille volte, e i testi sono costruiti in maniera terribilmente ripetitiva. Questo, perché, proprio come visto nell’esempio di sopra, la memoria è molto più fragile di quanto si pensi e l’immagine diventa sfocata molto in fretta. Quindi c’è bisogno di una continua immissione di immagini omogenee per mantenersi in cammino verso un preciso stato di coscienza. Fino a qui abbiamo parlato di immagini usando la definizione provvisoria di “insieme finito di stimoli”. Tale significato ci serviva per spiegare alcune prassi dell’esoterismo, come quella della ripetizione dell’immagine e del suo uso “esterno”. Tuttavia per comprendere davvero il ruolo dell’immagine nelle pratiche su menzionate bisogna staccarsi da questa prospettiva. Una diversa definizione e un chiarimento davvero magistrale della natura dell’immagine e del suo ruolo lo possiamo ritrovare nell’articolo di Maurizio Nicosia Lo svanimento dell’immagine. Dapprima l’autore traccia una netta separazione tra due diversi tipi di solitudine: da una parte quella della tradizione, privilegio di una ristretta élite, origine di felicità e della rinascita e della maturazione della facoltà intellettuale nella sua versione più pura: è la Beata Solitudo. Dall’altra la solitudine moderna, piaga sociale, malattia provocata dal nichilismo, in cui la mancanza dei due pilastri della tradizione, ovvero il Sacro e la Natura provoca una vuotezza interiore, una mancanza di risorse vissuta come una condanna dall’uomo massificato. “Alla radice di questa scissione e della “marea nichilista” che l’ha causata sta’ proprio lo svanimento dell’immagine: “Le due colonne cosmiche del mondo antico, il Sacro e la Natura, sono state sommerse dalla marea nichilista. Perciò la solitudine dell’uomo è oggi universale, e perpetua. La causa non risiede nella svalutazione dei valori supremi, fondamento del sacro. In ciò è semmai il primo effetto dell’onda montante, che prima di sommergere il fondamento dei valori s’è infiltrata nel sottosuolo, erodendo, aprendo fenditure e crepe nel terreno comune alle due colonne. La prima profonda fenditura si è aperta col contenzioso sulle immagini: qui forse s’annida l’origine del nichilismo. D’altronde ogni titanica guerra per il potere si accende sempre con una battaglia d’immagini e sulle immagini. La fenditura è oggi solco lungo e profondo quanto la faglia californiana di S. Andrea, il divario così ampio che l’uomo d’oggi non ha nemmeno la minima consapevolezza dello svanimento dell’immagine. Vive nella pigra, indiscussa convinzione che la sua sia la “società delle immagini”. In effetti questa società mostra un amore sviscerato per la sua lustra superficie. Vi si specchia ossessivamente e con malcelata soddisfazione al pari di Narciso, nella superba convinzione d’essere la “più bella del reame”. Ma nell’assillante circuito di massa dei mezzi di comunicazione non vi sono immagini; e se filtrano, sono rade e smarrite: fantasmi senza vigore. Il contenzioso sulle immagini, uno dei punti nodali dell’aspra disputa tra protestanti e cattolici, s’è concluso col pressoché globale svanimento delle immagini. Il contenzioso che infiamma l’Europa del Cinquecento si deve all’ennesimo affioramento della duplice e conflittuale anima del cristianesimo, l’ebraica e la greca; iconoclasta la prima, ‘iconurgica’, cioè forgiatrice d’immagini l’altra. Con una radicale differenza rispetto all’età bizantina: non vi sono Greci a modellare immagini ma gli eredi di Roma, più avvezzi a plasmare la storia e il destino dei popoli. Il fervore iconoclasta dei protestanti è subito annunciato dalla gelida nudità delle loro chiese, ma la questione è tutt’altro che circoscritta ai luoghi di culto. L’iconoclastia è anzitutto un habitus mentale fondato sull’imperio della logica e perciò assolutamente intollerante per l’ambiguo mondo delle immagini, così affine all’irrazionale e incontrollabile dimensione fantastica. L’arte contemporanea, così dommaticamente iconoclasta, rappresenta il naturale estuario di questo furore logico. E la tradizionale custode d’immagini, la pittura, dirottata dapprima su aneddoti e scene di costume, viene poi confinata nella sfera estetica; oggi, infine, è costretta alla macchia. Né va diversamente nell’Europa cattolica. Le macchinose scenografie della Controriforma non servono a mostrare le immagini, ma a occultarle dietro la coltre della storia. La pletora barocca di santi dagli occhi riversi all’insù si bea d’immagini negate al fedele. L’arte cattolica si prefigge di persuadere gli spettatori evitando con ferreo rigore ogni possibile deriva dell’immaginazione. Eloquenti le reiterate invettive contro la Pietà di Michelangelo o l’Assunta di Tiziano, per le fattezze giovanili di Maria avulse dalla realtà storica: i critici cattolici intravidero nel viso aggraziato di Maria l’inquietante volto senza tempo dell’immagine. E la signoria delle chiese si esercita nel tempo. I teologi bizantini che fissarono all’undici marzo la celebrazione della vittoria sull’iconoclastia non potevano prevedere un drammatico rovesciamento delle parti. L’immagine svolge nella loro teologia l’officio cardinale di sposare l’umano al divino, è un foro che stilla preziose gocce d’eterno nel mondo sensibile. Dinanzi alle opere protestanti e cattoliche i Greci cristiani avrebbero indicato con sgomento le dolorose stimmate del tempo. L’immagine invece è senza tempo, ne sospende il corso. Non soggiace alla caduta dei gravi, sfugge all’erosione che il tempo arreca alle cose. I cavalli passano, e anche le moto. I centauri restano. Nel linguaggio per noi desueto di Bisanzio nell’immagine si realizza la confluenza dei due mondi, l’umano e il divino (T. Studita, Ep. Ad Naucratium, II, 67). In questa concezione è nitida l’eco di Plotino, che in un noto passo riconobbe l’essenziale funzione d’arco dell’immagine, di mediatrice fra il Pensiero e l’impronta della Natura, primo e ultima nell’asse del cosmo (Enn., IV 4, 13). Chissà che l’erede di Platone non rimanesse folgorato, nelle sue scorribande orientali, dalla vertiginosa saggezza che lampeggia in una Upanishad: “Tutto questo universo è una triade: nome, forma, atto”. Con sintesi inaudita l’Upanishad indica in concetto rappresentazione e oggetto, per declinare in lingua moderna, le modalità dell’essere e della conoscenza, superando di slancio il secolare dualismo tra spirito e materia tipico dell’Occidente. Ma Plotino, in un brano purtroppo assai poco frequentato, s’era anche premurato di sottolineare con nettezza che immagine e percezione appartengono a realtà diverse; che in altre parole la rappresentazione abbraccia un duplice e antitetico orizzonte, come lo sguardo di Giano: “nell’immagine termina la percezione e quando questa non c’è più, rimane l’immagine visiva” (Enn., IV 3, 29). L’immagine, suggerisce Plotino, distilla la percezione, la sgrava dalla ganga del tempo, la sublima, l’approssima all’eternità del Nous. L’immagine si ritrae dal tempo, la percezione vi affonda. Persino nel traguardare lo stesso oggetto immagine e percezione rivelano la loro fiera alterità: un cubo mostra solo tre delle sue sei facce e anche girandogli intorno è impossibile averne una veduta globale. Nella percezione l’oggetto c’impone di moltiplicare i possibili punti di vista e il sapere si forma lentamente, per sedimentazione: nella percezione l’apprendistato è perpetuo. Se invece immagino il cubo con le sue sei facce e i suoi otto spigoli, “sono al centro della mia idea, la afferro tutt’un tratto”. Il sapere è immediato nell’immagine, essa “si dà integralmente, per quel che è, fin dalla sua apparizione”. Il divario diviene radicale se l’immagine allenta o scioglie i legami con le cose per manifestare un tritone o un triangolo o altro ancora. Per secoli nutrimento e diletto dell’uomo, l’immaginazione è stata, per i pochi a godere della “beata solitudine”, viatico regio della conoscenza, della trascendenza del tempo e della morte: l’immaginazione si educava a coltivare e comprendere le immagini del mito, si corroborava sviluppando i solidi platonici, soffermandosi in particolar modo sul dodecaedro; quindi, se ne aveva la forza, si librava nell’etere, verso la luce. Istruzioni circostanziate si trovano per esempio in un’Enneade di Plotino che passa oggi per un trattato d’estetica. Questo l’esordio: “poiché chi è giunto a contemplare il cosmo intelligibile e a comprendere la bellezza dell’Intelletto vero, può anche intuire il padre dell’Intelletto ch’è al di là dell’Intelletto, tentiamo di vedere come si possa contemplare la bellezza dell’Intelletto e del cosmo intelligibile” (Enn., V 8. Il corsivo è mio, N.d.A.). Per agevolare nell’arduo compito, Plotino offre come primo esempio due blocchi di pietra, “il primo allo stato grezzo”, il secondo “già sottomesso dall’arte alla bellezza della forma”; ma non si tratta d’un cubo, bensì d’una Musa. L’immagine è senza tempo e senza corpo: libera dal bozzolo, si libra nell’aria. Coloro che sanno ascendere sulle ali dell’immaginazione, “ebbri e sazî di nettare, non sono più dei semplici spettatori”, conclude Plotino: “non c’è più il veggente da un lato e la cosa vista dall’altro, l’uno fuori dell’altra” (Enn., V 8, 10). Invece “quelli che non vedono il Tutto credono soltanto alla loro impressione esteriore”: restano in balìa dei percetti, dell’insolubile dualità di soggetto e oggetto. Ma il cinquecentesco contenzioso sulle immagini che fu in realtà contro le immagini, s’è concluso col trionfo globale dei percetti sbandierati dai mass-media. È malgrado tutto una vittoria di Pirro: il percetto è nient’altro che il pallore fantasmatico della cosa e al pari dell’oggetto che rappresenta non può non subire la stessa sorte, non può sfuggire alle fauci di Saturno. L’incontrollabile e infinita proliferazione d’oggetti e delle loro multiformi, tecnologiche rappresentazioni, disvela totalmente l’ansia dell’uomo moderno, profonda quanto ingenua, di sottrarre le cose al morso del tempo. Il dominio planetario dei percetti ha sbarrato la soglia che lasciava filtrare nel mondo dei sensi bagliori d’eternità. Ha consegnato il mondo alla tirannia del tempo: non più immagine del Tutto, il mondo è ridotto a mera cosa, una bomba a orologeria vagante nello spazio. Nel deserto interiore dell’uomo moderno non alberga più alcuna immagine, non vi sono epifanie d’eternità. Si avverte soltanto il ticchettìo sordo e assillante del tempo. Ma l’uomo ha bisogno dell’immagine. Il mondo gli propone oggi di dirottarlo sugli oggetti: le merci. La sottrazione dell’immagine e la sua restituzione in cosa sono essenziali per plasmare con profitto il comportamento individuale e sociale. Ma dietro il bisogno d’immagine si cela l’atavica brama d’eternità che l’oggetto non può appagare e semmai infiamma, orientandola continuamente verso altri oggetti. L’investimento immaginario dell’uomo moderno procede così per spostamenti continui in un esasperante circuito chiuso in cui la crescita d’oggetti e di desiderio è esponenziale. Il fiume d’oggetti gonfia a dismisura e straripa, la fame d’immagine anche. E il deserto cresce”. Vorremmo concludere sottolineando la differenza specifica che c’è tra pensiero ed esperienza. Il concetto è riproducibile a volontà. Io posso pensare al funzionamento di un motore ed averlo in mente delineato alla perfezione senza averlo sott’occhio. L’esperienza invece o c’è o non c’è, si possono solo creare le condizioni affinché si manifesti. Posso pensare al cielo con tutta la forza che ho, ma se non apro la finestra non vedrò altro che il muro e le imposte chiuse. Questa differenza specifica tra concetto ed esperienza si ripercuote su scrittori essoterici, scrittori esoterici e relativi linguaggi. Heidegger, nonostante il linguaggio tortuoso e tormentato è uno scrittore meramente essoterico, che mira al raggiungimento di un concetto. Infatti, una volta compreso il contenuto del suo discorso esso permane ed è riproducibile a volontà. Si tratta quindi di linguaggio comune. Zolla, invece, mira al raggiungimento di un’esperienza, infatti le sue verità sono continuamente raggiunte e perse, sembra quasi di saltare per raggiungere l’assoluto e di sfiorarlo per poi tornare al suolo e dover riprendere lo slancio. Questa è anche la differenza tra linguaggio comune e linguaggio esoterico: il primo considera i concetti come suo fine, il secondo guarda ai concetti come strumenti per raggiungere un’esperienza. Per inciso la stessa differenza intercorre tra il concetto di Dio (quello propugnato dalle religioni) che richiede la fede ovvero richiede che si creda nella sua esistenza e operatività e l’esperienza di Dio che è il fine del cammino esoterico-iniziatico che non richiede fede, perché c’è e basta.
[1] Nel senso che la realtà pietrificata che ci sembra tanto solida nei fatti è tracciata a partire da alcuni punti chiave definiti da alcune convenzioni che la società imprime agli individui in forma mitica. Ad esempio il fatto che la terra sia piatta era un mito che creava una visione del mondo tanto quanto il nostro mito della terra rotonda crea la nostra. Discutere sulla maggiore o minore verità di queste nozioni mitiche non ha senso, dal momento che si tratta sempre di esperienze indirette e quindi costruite dall’intelletto. Agli antichi la loro realtà popolata da dei negli alberi, nei campi e nelle case, in cui ogni luogo era teatro di un mito, sembrava tanto reale e “solida” quanto la nostra in cui in ogni luogo esistono punti da cui tirare misure per quantificare la realtà, distanza, peso, grandezza. Ma si tratta sempre di costruzioni derivate, quindi mitiche. [2] Nel De umbris idearum Bruno illustra il progetto per quella che oggi definiremmo una "esperienza alternativa" della memoria: una specie di percorso obbligato che, tra immagini e suoni, dovrebbe proporre a chi lo percorre il contatto con parti diverse del proprio Profondo, risvegliando alcuni arche tipi in esso sepolti e quindi, in ultima analisi, uno stato alterato di coscienza. Questo progetto, che è rimasto sulla carta per quattro secoli, è stato ripreso e realizzato a Roma qualche anno fa, in occasione del 400" anniversario della stesura del testo di Bruno, dalla scuola di incisione del Convento Occupato, che si è proposta di seguire il più possibile fedelmente le istruzioni contenute nel De umbris idearum. Entrare nel labirinto delle immagini - così come è stato ricostruito dal Convento Occupato -costituisce realmente un'esperienza di stacco dalla realtà circostante; seguendo una specie di percorso obbligato, ci si ritrova avvolti dalle immagini archetipali espresse nei quadri e dalla musica di sottofondo che accompagna il viaggio: e se ci si abbandona all'esperienza ci si ritrova realmente a sentire strane risonanze interiori via via che si procede nel labirinto. Alla fine, del tutto imprevisto, un enorme specchio distortore cilindrico nel quale, già preparati da tutto il percorso precedente, si perde veramente per qualche momento qualsiasi modello di riconoscimento: le immagini illusorie e deformi che lo specchio rimanda indietro, proveniendo da tutti i lati, non consentono al mentale alcuna fuga; e si percepisce il fatto di essere realmente lì e in quel momento. Quindi, l'uscita e il ritorno brutale alla realtà quotidiana che si precipita a rivestire ognuno con i suoi schemi comportamentali, le maschere della personalità, i modelli, le gabbie, i codici di espressione e valutazione. [3] Pansofia: "Formazione completa e integrale verso la quale deve tendere ogni uomo, mirando a realizzare il più alto grado di umanità”. |