Dialogo Terzo – Prima Parte -

Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.


•Sofia•
 Non fia mestiero, Saulino, di farti intendere per il particolare tutti que' propositi che tenne la Fatica, o Diligenza, o Sollecitudine, o come la volete chiamare (perché ha più nomi che non potrei farti udire in una ora); ma non voglio passar con silenzio quello che successe subito che colei con le sue ministre e compagne andò a prendersi il loco là dove dicevamo essere il negocioso Perseo.


•Saulino•  Dite, che io vi ascolto.


•Sofia•
 Subito (perché il sprone dell'Ambizione sovente sa spingere ed incitar tutti eroici e divini ingegni, sin a questi dei compagni Ocio e Sogno) avenne che non ociosa e sonnacchiosamente, ma solleciti e senza dimora, non sì tosto la Fatica e Diligenza disparve, che essi vi furono visti presenti. Per il che disse Momo: - Liberaci, Giove, da fastidio, perché veggio aperto che ancora non mancaranno garbugli dopo l'espedizione di Perseo, come n'abbiamo avuti tanti dopo quella d'Ercole. - A cui rispose Giove: - L'Ocio non sarrebe Ocio, ed il Sonno non sarrebe Sonno, se troppo a lungo ne dovessero molestare per troppa diligenza o fatica che debbano prendere; perché quella è discostata da qua, come vedi; e questi son qua solo in virtù privativa che consiste nell'absenza de la lor opposita e nemica. - Tutto passarà bene, disse Momo, se non ne faranno tanto ociosi e lenti, che per questo giorno non possiamo definire di quello che si deve conchiudere circa il principale. - Cominciò, dunque, l'Ocio in questa maniera a farsi udire: - Cossì l'Ocio, o dei, è talvolta malo, come la Diligenza e Fatica è più de le volte mala: cossì l'Ocio il più de le volte è conveniente e buono, come le sue volte è buona la Fatica. Non credo dunque, se giustizia tra voi si trova, che vogliate negarmi equale onore, se non è debito che mi stimiate manco degno. Anzi per raggione mi confido di farvi capire (per causa di certi propositi che ho udito allegare in lode e favore della diligenza e negocio) che quando saremo posti nel bilancio della raggionevole comparazione, se l'Ozio non si trovarà equalmente buono, si convencerà di gran vantaggio megliore, di maniera che non solo non la mi stimarete equalmente virtude, ma, oltre, contrariamente vizio.

 

Chi è quello, o dei, che ha serbata la tanto lodata età de l'oro? chi l'ha instituta, chi l'ha mantenuta, altro che la legge de l'Ocio, la legge della natura? Chi l'ha tolta via? chi l'ha spinta quasi irrevocabilmente dal mondo, altro che l'ambiziosa Sollecitudine, la curiosa Fatica? Non è questa quella ch'ha perturbato gli secoli, ha messo in scisma il mondo e l'ha condotto ad una etade ferrigna e lutosa ed argillosa, avendo posti gli popoli in ruota ed in certa vertigine e precipizio, dopo che l'ha sullevati in superbia ed amor di novità, e libidine de l'onore e gloria d'un particolare? Quello che, in sustanza, non dissimile a tutti, e tal volta, in dignitade e merito, è infimo a que' medesimi, con malignitade è stato forse superiore a molti, e però viene ad essere in potestà di evertere le leggi de la natura, di far legge la sua libidine, a cui servano mille querele, mille orgogli, mille ingegni, mille sollecitudini, mille di ciascuno de gli altri compagni, con gli quali cossì boriosa è passata avanti la Fatica; senza gli altri che sotto le vesti di que' medesimi coperti ed occolti non son apertamente giti, come l'Astuzia, la Vanagloria, il Dispreggio d'altri, la Violenza, la Malizia, la Fizione e gli seguaci loro che non son passati per la presenza vostra; quai sono Oppressione, Usurpazione, Dolore, Tormento, Timore e Morte; li quali son gli executori e vendicatori mai del quieto Ocio, ma sempre della sollecita e curiosa Industria, Lavoro, Diligenza, Fatica; e cossì di tanti altri nomi, di quanti, per meno essere conosciuta, se intitula, e per quali più tosto si viene ad occoltare che a farsi sapere.

 

Tutti lodano la bella età de l'oro, ne la quale facevo gli animi quieti e tranquilli, absoluti da questa vostra virtuosa dea; a gli cui corpi bastava il condimento de la fame a far più suave e lodevol pasto le ghiande, li pomi, le castagne, le persiche e le radici, che la benigna natura administrava, quando con tal nutrimento meglio le nutriva, più le accarezzava e per più tempo le manteneva in vita, che non possano far giamai tanti altri artificiosi condimenti ch'ha ritrovati l'Industria ed il Studio, ministri di costei; li quali, ingannando il gusto ed allettandolo, amministrano come cosa dolce il veleno; e mentre son prodotte più cose che piaceno al gusto, che quelle che giovano al stomaco, vegnono a noiar alla sanità e vita, mentre sono intenti a compiacere alla gola. Tutti magnificano l'età de l'oro, e poi stimano e predicano per virtù quella manigolda che la estinse, quella ch'ha trovato il mio ed il tuo: quella ch'ha divisa e fatta propria a costui e colui non solo la terra (la quale è data a tutti gli animanti suoi), ma, ed oltre, il mare, e forse l'aria ancora. Quella, ch'ha messa la legge a gli altrui diletti, ed ha fatto che quel tanto che era bastante a tutti, vegna ad essere soverchio a questi e meno a quell'altri; onde questi, a suo mal grado, crapulano, quelli altri si muoiono di fame. Quella ch'ha varcati gli mari, per violare quelle leggi della natura, confondendo que' popoli che la benigna madre distinse, e per propagare i vizii d'una generazione in un'altra; perché non son cossì propagabili le virtudi, eccetto se vogliamo chiamar virtudi e bontadi quelle che per certo inganno e consuetudine son cossì nomate e credute, benché gli effetti e frutti sieno condannati da ogni senso e ogni natural raggione. Quai sono le aperte ribaldarie e stoltizie e malignitadi di leggi usurpative e proprietarie del mio e tuo; e del più giusto, che fu più forte possessore; e di quel più degno, che è stato più sollecito e più industrioso e primiero occupatore di que' doni e membri de la terra, che la natura e, per conseguenza, Dio indifferentemente donano a tutti.

 

Io forse sarò men faurita che costei? Io, che col mio dolce che esce dalla bocca della voce de la natura, ho insegnato di viver quieto, tranquillo e contento di questa vita presente e certa, e di prendere con grato affetto e mano il dolce che la natura porge, e non come ingrati ed irreconoscenti neghiamo ciò che essa ne dona e detta, perché il medesimo ne dona e comanda Dio, autor di quella a cui medesimamente verremo ad essere ingrati. Sarà, dico, più favorita costei, che, sì rubella e sorda a gli consegli, e ritrosa e schiva contra gli doni naturali, adatta li suoi pensieri e mani ad artificiose imprese e machinazioni, per quali è corrotto il mondo e pervertita la legge de la nostra madre? Non udite come a questi tempi, tardi accorgendosi il mondo di suoi mali, piange quel secolo, nel quale col mio governo mantenevo gaio e contento il geno umano, e con alte voci e lamenti abomina il secolo presente, in cui la Sollecitudine ed industriosa Fatica, conturbando, si dice moderar il tutto con il sprone dell'ambizioso Onore?

 

O bella età de l'oro

Non già perché di latte

Se 'n corse il fiume e stillò mèle il bosco;

Non perché i frutti loro

Diêr da l'aratro intatte

Le terre, e gli angui errar senz'ira e tòsco;

Non perché nuvol fosco

Non spiegò allor suo velo,

E 'n primavera eterna,

Ch'ora s'accende e verna,

Rise di luce e di sereno il cielo,

Né portò peregrino

O guerra o Mercurio e a l'altrui lidi il pino:

Ma sol perché quel vano

Nome senza soggetto,

Quel idolo d'errori, idol d'inganno,

Quel che dal volgo insano

Onor poscia fu detto

Che di nostra natura il feo tiranno,

Non meschiava il suo affanno

Fra le liete dolcezze

De l'amoroso gregge;

Né fu sua dura legge

Nota a quell'alme in libertade avezze,

Ma legge aurea e felice,

Che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.

 

 Questa, invidiosa alla quiete e beatitudine, o pur ombra di piacere che in questo nostro essere possiamo prenderci, avendo posta legge al coito, al cibo, al dormire, onde non solamente meno delettar ne possiamo, ma per il più sovente dolere e tormentarci; fa che sia furto quel che è dono di natura, e vuol che si spregge il bello, il dolce, il buono; e del male amaro e rio facciamo stima. Questa seduce il mondo a lasciar il certo e presente bene che quello tiene, ed occuparsi e mettersi in ogni strazio per l'ombra di futura gloria. Io di quel che con tanti specchi, quante son stelle in cielo, la verità dimostra, e quel che con tante voci e lingue, quanti son belli oggetti, la natura di fuore intona, vegno da tutti lati de l'interno edificio ad.esortarlo:

 

Lasciate l'ombre ed abbracciate il vero.

Non cangiate il presente col futuro.

Voi siete il veltro che nel rio trabocca,

Mentre l'ombra desia di quel ch'ha in bocca.

Aviso non fu mai di saggio o scaltro

Perder un ben per acquistarne un altro.

A che cercate sì lungi diviso

Se in voi stessi trovate il paradiso?

Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo

Non speri dopo morte l'altro bene.

Perché si sdegna il ciel dar il secondo

A chi il primero don caro non tene;

Cossì credendo alzarvi, gite al fondo;

Ed ai piacer togliendovi, a le pene

Vi condannate; e con inganno eterno,

Bramando il ciel, vi state ne l'inferno.

 

 Qua rispose Momo, dicendo che il conseglio non aveva tanto ocio, che potesse rispondere a una per ciascuna de le raggioni che l'Ocio, per non aver avuta penuria d'ocio, ha possute intessere ed ordinare. Ma che per il presente si servisse de l'esser suo, con andar ad aspettar per tre o quattro giorni; perché potrà essere che, per trovarsi gli dei in ocio, potessero determinar qualche cosa in suo favore; il che adesso è impossibile. Soggionse l'Ocio: -Siami lecito, o Momo, di apportar un altro paio di raggioni, in non più termini che in forma di un paio di sillogismi, più in materia efficaci che in forma. De quali il primo è questo: al primo padre de gli uomini, quando era buon omo, ed a la prima madre de le femine, quando era buona femina, Giove gli concese me per compagno; ma, quando devenne questa trista e quello tristo, ordinò Giove che se gli aventasse quella per compagna, a fin che facesse a costei sudar il ventre ed a colui doler la fronte.


•Saulino•  Dovea dire: sudar a colui la fronte, e doler a colei il ventre.


•Sofia•
 - Or considerate, dei, disse, la conclusione che pende da quel che io fui dechiarato compagno de l'Innocenza, e costei compagna del peccato. Atteso che, se il simile s'accompagna col simile, il degno col condegno, io vegno ad esser virtude e colei vizio, e per tanto io degno e lei indegna di tal sedia. Il secondo sillogismo è questo: Li dei son dei, perché son felicissimi; li felici son felici, perché son senza sollecitudine e fatica: fatica e sollecitudine non han color che non si muoveno ed alterano; questi son massime quei ch'han seco l'Ocio; dunque gli dei son dei, perché han seco l'Ocio. -


•Saulino•  Che disse Momo a questo?


•Sofia•
 Disse che, per aver studiato logica in Aristotele, non aveva imparato di rispondere a gli argumenti in quarta figura.


•Saulino•  E Giove che disse?


•Sofia•
 Che di tutto, che lei avea detto e lui udito, non si ricordava altro che l'ultima raggione circa l'essere stato compagno del buono uomo e femina; intorno alla quale gli occorreva, che gli cavali non pertanto son asini, perché si trovano in compagnia di quelli, né giamai la pecora è capra tra le capre. E soggionse che gli dei aveano donato a l'uomo l'intelletto e le mani, e l'aveano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura ed ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno, con quella libertade, senza la quale non arrebe detta similitudine, venesse ad serbarsi dio de la terra. Quella certo, quando verrà ad essere ociosa, sarà frustratoria e vana, come indarno è l'occhio che non vede, e mano che non apprende. E per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato ne l'azione per le mani, e contemplazione per l'intelletto; de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione. Ne l'età dunque de l'oro per l'Ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose, e forse erano più stupidi che molte di queste. Or essendo tra essi per l'emulazione d'atti divini ed adattazione di spirituosi affetti nate le difficultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl'ingegni, inventate le industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l'egestade, dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e maravigliose invenzioni. Onde sempre più e più per le sollecite ed urgenti occupazioni allontanandosi dall'esser bestiale, più altamente s'approssimano a l'esser divino. De le ingiustizie e malizie che crescono insieme con le industrie, non ti devi maravigliare; perché, se gli bovi e scimie avessero tanta virtù ed ingegno, quanto gli uomini, arrebono le medesime apprensioni, gli medesimi affetti e gli medesimi vizii. Cossì tra gli uomini quei ch'hanno del porco, de l'asino e del bue, son certo men tristi, e non sono infetti di tanti criminosi vizii; ma non per ciò sono più virtuosi, eccetto in quel modo con cui le bestie, per non esser partecipi di altretanti vizii, vegnono ad esser più virtuose de loro. Ma noi non lodiamo la virtù de la continenza nella scrofa, la quale si lascia chiavare da un sol porco ed una volta l'anno; ma in una donna la quale non solo è sollecitata una volta dalla natura per il bisogno de la generazione, ma ed ancora dal proprio discorso più volte per l'apprensione del piacere, e per esser ella ancor fine degli suoi atti. Oltre di ciò non troppo, ma molto poco lodiamo di continenza una femina o un maschio porcino, il quale per stupidità e durezza di complessione avien che di rado e con poco senso vegna sollecitato da la libidine, come quell'altro che per esser freddo e maleficiato, e quell'altro per esser decrepito; altrimente deve esser considerata la continenza, la quale è veramente continenza e veramente virtù in una complessione più gentile, più ben nodrita, più ingegnosa, più perspicace e maggiormente apprensiva. Però per la generalità de regioni a gran pena è virtù ne la Germania, assai è virtù ne la Francia, più è virtù ne l'Italia, di vantaggio è virtù nella Libia. Là onde, se più profondamente consideri, tanto manca che Socrate revelasse qualche suo difetto, che più tosto venne a lodarsi tanto maggiormente di continenza, quando approvò il giudicio del fisionomista circa la sua natural inclinazione al sporco amor di gargioni. Se dunque, Ocio, consideri quello che si deve considerar da questo, trovarai che non per tanto nella tua aurea etade gli uomini erano virtuosi, perché non erano cossì viziosi, come al presente; atteso che è differenza molta tra il non esser vizioso e l'esser virtuoso; e non cossì facilmente l'uno si tira da l'altro, considerando che non sono medesime virtudi dove non son medesimi studi, medesimi ingegni, inclinazioni e complessioni. Però, per comparazione da pazzi ed ingegni cavallini, aviene che gli barbari e salvatici si tegnon megliori che noi altri dei, per non esser notati di que' vizii medesimi; per ciò che le bestie, le quali son molto meno in tai vizii notabili che essi, saranno per questo molto più buone che loro. A voi dunque, Ocio e Sonno, con la vostra aurea etade converrà bene che non siate vizii qualche volta ed in qualche maniera; ma giamai ed in nessun modo che siate virtudi. Quando dunque tu, Sonno, non sarai Sonno, e tu, Ozio, sarai Negocio, allora sarete connumerati tra virtudi ed essaltati. - Qua il Sonno si fece un passetto avanti, e si fricò alquanto gli occhi per dire ancora lui qualche cosetta ed apportar qualche picciolo proposito avanti il Senato, per non parer d'esservi venuto in vano. Quando Momo il vedde cossì suavemente rimenarsi pian pianino, rapito dalla grazia e vaghezza de la dea Oscitazione, che, come aurora avanti il sole, precedeva avanti a lui, in punto di voler far ella il prologo; e non osando di scuoprir il suo amor in conspetto de gli dei, per non essergli lecito di accarezzar la fante, fece carezze al signore in questa foggia (dopo aver gittato un caldetto suspiro), parlando per lettera, per fargli più riverenza ed onore:

 

Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,

Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris

Fessa ministeriis mulces reparasque labori.

 

 Non sì tosto ebbe cominciata questa cantilena il dio de le riprensioni (il quale per la già detta caggione s'era dismenticato de l'ufficio suo), che il Sonno, invaghito per il proposito di tante lodi e demulcto dal tono di quella voce, invita a l'udienza il Sopore che gli alloggiava ne gli precordii. Il quale, dopo aver fatto cenno alle fumositadi che faceano residenza nel stomaco, gli montorno tutti insieme sul cervello, e cossì vennero ad aggravarli la testa, e con questo vennero a discioperarsi gli sensi. Or mentre il Ronfo sonavagli li scifoli e tromboni innante, andò trepidando trepidando a curvarsi e dar il capo in seno di madonna Giunone; e da quel chino avenne (perché questo dio va sempre in camicia e senza braghe) che, per essere la camicia troppo corta, mostrò le natiche, il coliseo e la punta del campanile a Momo e tutti gli altri dei ch'erano da quella parte. Or, con questa occasione, ecco venuto in campo il Riso, con presentar a gli occhi del Senato la prospettiva di tanti ossetti, che tutti eran denti; e facendosi udire con la dissonante musica di tanti cachinni, interruppe il filo de l'orazione a Momo. Il qual, non possendosi risentir contra costui, tutto il sdegno suo converse contra il Sonno che l'avea provocato, con non premiarlo al meno di buona attenzione, e di sopragionta con andar ad offrirgli con tanta sollennitade il purgatorio, con la pera e baculo di Giacobbe, come per maggior dispreggio del suo adulatorio ed amatorio dicendi genus. Là onde ben si accorgeva che gli dei non tanto ridevano per la condizion del Sonno, quanto per il strano caso intervenuto a lui, e perché il Sonno era giocatore ed egli era suggetto di questa comedia; e con ciò avendogli la Vergogna d'un velo sanguigno ricoperto il volto: - A chi tocca, disse, di levarci dinanzi questo ghiro? chi fa che sì a lungo questo ludibrioso specchio ne si presente a gli occhi? - In tanto la dea Poltronaria, commossa da la rabbiosa querela di Momo (dio de' non più volgari ch'abbia il cielo), se mise il suo marito in braccio; e presto, avendolo indi tolto, lo menò verso la cavità d'un monte vicino a gli Cimmerii; e con questi si partiro li suoi tre figli Morfeo, Icilone e Fantaso; che tutti tosto si ritrovorno là dove da la terra perpetue nebbie exalano, caggionando eterno crepuscolo a l'aria: dove vento non soffia, e la muta Quiete tiene un suo palaggio ancora vicino a la regia del Sonno; avanti il cui atrio è un giardino di tassi, faghi, cipressi, bussi e lauri; nel cui mezzo è una fontana, che deriva da un picciol rio, che dal rapido varco del fiume leteo, divertendo dal tenebroso inferno alla superficie de la terra, ivi viene a discuoprirsi al cielo aperto. Qua il dormiglioso dio rimesero nel suo letto, di cui d'ebano le tavole, di piume i strami ed il padiglion di seta di color pardiglio.

 

In questo mentre, presa avendo licenza il Riso, se partì dal conclave; ed essendo rimesse al suo sesto le bocche e ganasse de gli dei, che poco mancò che non venesse smascellato alcuno di essi, l'Ocio, il qual solo ivi era rimaso, vedendo il giudicio de' dei non troppo inchinato al suo favore, e desperando di profittar oltre in qualche maniera, se le sue quasi tutte e più principali raggioni non erano accettate, ma, tante quante fûro, di rovescio erano state ributtate a terra, dove per forza de la repulsa altre erano mal vive, altre erano crepate, altre aveano il collo rotto, altre in tutto erano andate in pezzi e fracasso: stimava ogni momento un anno, per pigliar occasione di tôrsi de là di mezzo, prima che forse gli potesse intravenire qualche vituperosa disgrazia simile a quella del suo compagno, per rispetto del quale dubitava che Momo non gli aggravasse le censure contra. Ma quello, scorgendo il spavento, che costui aveva di fatti non suoi: - Non dubitar, povera persona, gli disse; perché io, instituito dal fato advocato de poveri, non voglio mancar di far la causa tua. -E voltato a Giove, gli disse: - Per il tuo dire, o Padre, intorno alla causa de l'Ocio, comprendo che non sei a pieno informato de l'esser suo, della sua stanza e de gli suoi ministri e corte; la qual certamente se verrai a conoscere, facilmente mi persuado che, se non come Ocio lo vuoi incatedrare nelle stelle, almeno come Negocio lo farai alloggiare insieme con quell'altro, detto e stimato suo nemico; con il qual, senza farsi male l'un l'altro, potrà far perpetuo soggiorno. - Rispose Giove, che lui desiderava occasione di poter giustamente contentar l'Ocio, de le cui carezze non è mortale né dio che non soglia sovente delettarsi; però che volentieri l'ascoltarebbe, se gli facesse intendere qualche nervosa causa in suo favore. - Ti par, Giove, disse, che in casa de l'Ocio sia ocio, quanto a la vita attiva, là dove son tanti gentiluomini di compagnia e servitori che si alzano ben per tempo la mattina, per lavarsi tre e quatro volte con cinque o sette sorte d'acqua il volto e le mani, e che col ferro caldo e con l'impeciatura di felce spendeno due ore ad incresparsi e ricciarsi la chioma, imitando la alta e grande providenza, da cui non è capello di testa che non viene ad essere esaminato, acciò di quello secondo la sua raggione vegna disposto? Dove appresso con tanta diligenza si rassetta il giuppone, con tanta sagacità si ordinano le piegature del collaio, con tanta moderanza s'affibiano gli bottoni, con tanta gentilezza s'accomodano gli polsi, con tanta delicatura si purgano e si contemprano le unghie, con tanta giustizia, moderanza ed equità s'accopulano le braghe col giubbone, con tanta circonspezione si disponeno que' nodi de le stringhe; con tanta sedulità si menano e rimenano le cave palme, per far andar a sesto la calzetta; con tanta simmetria vanno a proporzionarsi gli termini e confini dove l'orificii de cannoni de le braghe s'uniscono a le calzette in circa la piegatura de le ginocchia, con tanta pazienza si comportano gli artissimi legami o garrettiere, perché non diffluiscano le calzette a far le pieghe e confondere la proporzione di quelle con le gambe; dove col polso della difficultade dispensa e decerne il giudicio, che, non essendo leggiadro e convenevole che la scarpa s'accommode al piede, vegna il piede largo, distorto, nodoso e rozzo, al suo marcio dispetto, ad accomodarsi con la scarpa stretta, dritta, tersa e gentile? Dove con tanta leggiadria si muoveno gli passi, si discorre, per farsi contemplare, la cittade, si visitano ed intertegnono le dame, si balla, si fa de capriole, di correnti, di branli, di tresche; e quando altro non è che fare, per essersi stancato ne le dette operazioni, ad evitar l'inconveniente di commettere errori, si siede a giocare di giuochi da tavola, ritrandosi da gli altri più forti e faticosi: ed in tal maniera s'evitano tutti li peccati, se quelli non son più che sette mortali e capitali, perché, come disse un Genoese giocatore: - Che Superbia vuoi tu ch'abbia un uomo il quale, avendo perduti cento scudi con un conte, si mette a giocar per vencere quattro reali ad un famiglio? Che Avarizia può aver colui a cui mille scudi non durano otto giorni? Che Lussuria ed Amor cupidinesco può trovarsi in quello il quale ha messa tutta l'attenzion del spirto al giocare? Come potrai arguire d'Ira colui, che per tema ch'il compagno non si parta dal giuoco comporta mille ingiurie, e con gentilezza e pazienza risponde ad un orgoglioso che gli è avanti? Per qual modo può esser goloso chi mette ogni dispendio e applica ogni sollecitudine a l'esercizio suo? Che Invidia può essere in costui per quel ch'altri possieda, se getta via e par che spreggie il suo? Che Accidia può essere in quello che cominciando da mezo giorno, e tal volta da la mattina, insino a meza notte, mai cessa di giuocare? E vi par che faccia in questo mentre star in ocio gli servitori, e quelli che gli denno assistere, e quelli che gli denno administrare? al tempio, al Mercurio ato, a la cantina, a la cocina, a la stalla, al letto, al bordello? E per farvi vedere, o Giove, e voi altri dei, che in casa de l'Ozio non mancano de persone dotte e literate, occupate a studii, oltre quelle occupate a' negocii, de' quali abbiamo detto: pare a voi, che in casa de l'Ocio si stia in ocio quanto a la vita contemplativa, dove non mancano grammatici che disputano di chi è stato prima, il nome o il verbo? Perché l'adiettivo accade che si pona avanti ed appresso al sustantivo? Onde ne la dizione alcuna copula, quale, verbigrazia, et, si pone innanzi ed alcun'altra, quale per essempio, que, si pone a dietro? Come lo e e d con la giunta de temone e scissione del d per il mezzo, viene a far comodamente il ritratto di quel nume di Lampsaco, che per invidia commise l'asinicidio? Chi l'autore a cui legitimamente deve referirsi il libro della Priapea, il Maron mantuano, o pur il sulmonese Nasone? Lascio tanti altri bei propositi simili, e più gentili che questi.

 

Dove non mancano dialettici che inquireno se Crisaorio, che fu discepolo di Porfirio, avea bocca d'oro per natura, o per riputazione, o solamente per nomenclatura; se la Periermenia deve passar avanti, o venir appresso, o pur, ad libitum, mettersi innanzi ed a dietro de le Categorie; se l'individuo vago deve esser messo in numero e posto in mezzo, come un sesto predicabile, o pur essere come scudiero de la specie e caudatario del geno; se, dopo esser periti in forma sillogistica, doviamo per la prima applicarne al studio della Posteriore, dove si complisce l'arte giudicativa, o ver subito dar su la Topica, per cui si mette la perfezion de l'arte inventiva; se bisogna pratticar le captiuncule ad usum vel ad fugam vel in abusum: se gli modi, che formano le modali, son quattro, o quaranta, o quattrocento; non voglio dire mille altre belle questioni.

 

Dove son gli fisici che dubitano se de le cose naturali può essere scienza; se lo suggetto è ente mobile o corpo mobile, o ente naturale o corpo naturale; se la materia ave altro atto che entitativo; dove consiste la linea de la coincidenza del fisico e matematico; se la creazione e produzione de niente è o non; se la materia può essere senza la forma; se più forme sustanziali possono essere insieme; ed altri innumerabili simili quesiti circa cose manifestissime, se non con disutile investigazioni son messe in questione. Dove gli metafisici si rompeno la testa circa il principio dell'individuazione; circa il suggetto ente, in quanto ente; circa il provar che gli numeri aritmetrici e magnitudini geometriche non son sustanza de le cose; circa le idee, se è vero ch'abbiano l'essere subsistenziale da per esse; circa l'essere medesimo o diverso subiettivamente ed obbiettivamente; circa l'essere ed essenzia; circa gli accidenti medesimi in numero in uno o più suggetti; circa l'equivocazione, univocazione ed analogia de lo ente; circa la coniunzione de le intelligenze a li orbi stelliferi, se la è per modo di anima o pur per modo di movente; se la virtù infinita possa essere in grandezza finita; circa la unità o pluralità de primi motori; circa la scala del progresso finito o infinito in cause subordinate; e circa tante e tante cose simili, che fanno freneticar tante cuculle, fanno lambiccar il succhio de la nuca a tanti protosofossi.

 

Qua disse Giove: - O Momo, mi par che l'Ocio t'abbia guadagnato o subornato, che cossì ociosamente spendi il tempo ed il proposito. Conchiudi, perché è ben definito appresso di noi di quel che doviamo far di costui. - Lascio dunque, soggionse Momo, de referir tanti altri negociosi innumerabili che sono occupati in casa di questo dio: come è dir tanti vani versificatori ch'al dispetto del mondo si vogliono passar per poeti, tanti scrittori di fabole, tanti nuovi rapportatori d'istorie vecchie, mille volte da mille altri a mille doppia megliormente referite. Lascio gli algebristi, quadratori di circoli, figuristi, metodici, riformatori de dialettiche, instauratori d'ortografie, contemplatori de la vita e de la morte, veri postiglioni del paradiso, novi condottier di vita eterna novamente corretta e ristampata con molte utilissime addizioni, buoni nuncii di meglior pane, di meglior carne e vino, che non possa esser il greco di Somma, malvagia di Candia e asprinio di Nola. Lascio le belle speculazioni circa il fato e l'elezione, circa l'ubiquibilità d'un corpo, circa la eccellenza di giusticia che si ritrova ne le sanguisughe. - Qua disse Minerva: - Se non chiudi la bocca a questo ciancione, o padre, spenderemo in vani discorsi il tempo, e per il giorno d'oggi non sarà possibile di espedire il nostro principal negocio. - Però disse il padre Giove a Momo: - Non ho tempo di raggionar circa le tue ironie. Ma, per venire alla tua ispedicione, Ocio, ti dico, che quello che è lodevole e studioso Ocio, deve sedere e siede nella medesima catedra con la Sollecitudine, per ciò che la fatica deve maneggiarsi per l'ocio, e l'ocio deve contemperarsi per la fatica. Per beneficio di quello questa fia più raggionevole, più ispedita e pronta, perché difficilmente dalla fatica si procede a la fatica. E sì come le azioni senza premeditazione e considerazione non son buone, cossì senza l'ocio premeditante non vagliono. Parimente non può essere suave e grato il progresso da l'ocio a l'ocio, percioché questo giamai è dolce se non quando esce dal seno della fatica. Or fia dunque giamai, che tu Ocio, possi esser grato veramente, se non quando succedi a degne occupazioni. L'ocio vile ed inerte voglio che ad un animo generoso sia la maggior fatica che aver egli possa, se non se gli rapresenta dopo lodabile esercizio e lavoro. Voglio che ti aventi come signore alla Senettute, ed a colei farai spesso ritorcer gli occhi a dietro; e se la non ha lasciati degni vestigii, la renderai molesta, triste, suspetta del prossimo giudicio dell'impendente staggione che l'amena a l'inexorabile tribunal di Radamanto, e cossì vegna a sentir gli orrori della morte prima che la vegna.


•Saulino•  Ben disse a questo proposito il Tansillo:

 

Credete a chi può farven giuramento,

Che stato tristo non ha il mondo ch'aggia

Pena che vada a par del pentimento;

Poi ch'il passato non è chi riaggia.

E benché ogni pentir porti tormento,

Quel che più ne combatte e più ne oltraggia

E piaghe stampa che curar non lece,

È quand'uom poteo molto, e nulla fece.

 
•Sofia•
 - Non meno, disse Giove; anzi più voglio che sia triste il successo dell'inutili negocii, de li quali alcuni ha recitati Momo che si trovano nella stanza de l'Ocio; e voglio che s'impiomba l'ira de' dei contra que' negociosi ocii ch'hanno messo il mondo in maggior molestie e travagli che mai avesse possuto mettere negocio alcuno. Que', dico, che vogliono convertere tutta la nobiltà e perfezione della vita umana in sole ociose credenze e fantasie, mentre talmente lodano le sollecitudini ed opre di giustizia, che per quelle dicano l'uomo non rendersi (benché si manifeste) megliore; e talmente vituperano gli vizii e desidie, che per quelli dicano gli uomini non farsi meno grati a que' dei a' quali erano grati, con tutto che ciò, e peggio, esser dovea. Tu, Ocio inerte, disutile e pernicioso, non aspettar che della tua stanza si dispona in cielo e per gli celesti dei; ma nell'inferno per gli ministri del rigoroso ed implacabile Plutone.

 

Or non voglio riferire quanto ociosamente si portava l'Ocio nel caminarsene via, e con quante spuntonate incitato a pena si sapea muovere, se non che constretto dalla dea Necessitade, che gli dié de' calci, se rimosse da là, lamentandosi del conseglio, che non gli avea voluto concedere alcuni giorni di tempo e di termine, per partirsi dalla loro conversazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spaccio della Bestia Trionfante

Epistola Esplicatoria Dialogo Primo parte 1 Dialogo Primo parte 2 Dialogo Primo parte 3

Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2Dialogo Secondo Parte 3

▪ Dialogo Terzo Parte 1 ▪ Dialogo Terzo Parte 2Dialogo Terzo Parte 3

Indice Giordano Bruno



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