Dialogo Terzo – Seconda Parte -

Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.

 
•Sofia•  Or ecco, come s'offre da essere ispedita la terza parte del cielo, disse l'altitonante: la parte detta australe, detta meridionale, dove prima, o Nettuno, ne si presenta quel tuo grande animalaccio. - Il Ceto, disse Momo, se non è quello che servì per galea, per cocchio o tabernaculo al profeta di Ninive, e questo a lui per pasto, medicina e vomitorio, se non è il trofeo del trionfo di Perseo, se non è il protoparente di Ianni de l'Orco, se non è la bestiazza di Cola Catanzano, quando descese a gli inferi: io, benché sia uno de' gran secretarii della republica celestiale, non so qual mal'ora egli si sia. Vada, se cossì piace a Giove, in Salonicca; e veda se può servir per qualche bella favola a la smarrita gente e popolo della dea Perdizione. E perché, quando questo animale si scuopre sopra l'alto bogliente e tempestoso mare, annunzia la futura tranquillità di quello, se non in quel medesimo giorno, in uno di quei che vegnono appresso: però mi par che, nel suo grado, debba esser stato buon tipo della tranquillità del spirito. - È bene, disse Giove, che questa soprana virtù, detta Tranquillità de l'animo, appaia in cielo, se la è quella che salda gli uomini contra la mondana instabilità, le rende constanti contra l'ingiurie della fortuna, le mantiene rimossi dalla cura de le administrazioni, le conserva poco studiosi de novitadi, le fa poco molesti a nemici, poco gravi ad amici ed in punto suggetti a vana gloria; non perplessi per la varietà di casi, non irresoluti a gli rancontri de la morte. - Appresso dimandò Nettuno: - Che farrete, o dei, del mio favorito, del mio bel mignone, di quell'Orione dico, che fa, per spavento (come dicono gli etimologisti), orinare il cielo?

 

- Qua, rispose Momo: - Lasciate proponere a me, o dei. Ne è cascato, come è proverbio in Napoli, il maccarone dentro il formaggio. Questo, perché sa far de maraviglie, e, come Nettuno sa, può caminar sopra l'onde del mare senza infossarsi, senza bagnarsi gli piedi; e con questo consequentemente potrà far molte altre belle gentilezze; mandiamolo tra gli uomini; e facciamo che gli done ad intendere tutto quello che ne pare e piace, facendogli credere che il bianco è nero, che l'intelletto umano, dove li par meglio vedere, è una cecità; e ciò che secondo la raggione pare eccellente, buono ed ottimo, è vile, scelerato ed estremamente malo; che la natura è una puttana bagassa, che la legge naturale è una ribaldaria; che la natura e divinità non possono concorrere in uno medesimo buono fine, e che la giustizia de l'una non è subordinata alla giustizia de l'altra, ma son cose contrarie, come le tenebre e la luce; che la divinità tutta è madre di Greci, ed è come nemica matrigna de l'altre generazioni; onde nessuno può esser grato a' dei altrimente che grechizando, idest facendosi Greco: perché il più gran scelerato e poltrone ch'abbia la Grecia, per essere appartenente alla generazione de gli dei, è incomparabilmente megliore che il più giusto e magnanimo ch'abbia possuto uscir da Roma in tempo che fu republica, e da qualsivoglia altra generazione, quantunque meglior in costumi, scienze, fortezza, giudicio, bellezza ed autorità. Perché questi son doni naturali e spreggiati da gli dei, e lasciati a quelli che non son capaci de più grandi privilegii: cioè di que' sopranaturali che dona la divinità, come questo di saltar sopra l'acqui, di far ballare i granchi, di far fare capriole a' zoppi, far vedere le talpe senza occhiali ed altre belle galanterie innumerabili. Persuaderà con questo che la filosofia, ogni contemplazione ed ogni magia che possa fargli simili a noi, non sono altro che pazzie; che ogni atto eroico non è altro che vegliaccaria; e che la ignoranza è la più bella scienza del mondo, perché s'acquista senza fatica e non rende l'animo affetto di melancolia. Con questo forse potrà richiamare e ristorar il culto ed onore ch'abbiamo perduto, ed oltre avanzarlo, facendo che gli nostri mascalzoni siano stimati dei per esserno o Greci o ingrecati. Ma con timore, o dei, io vi dono questo conseglio; perché qualche mosca mi susurra ne l'orecchio: atteso che potrebbe essere che costui al fine trovandosi la caccia in mano, non la tegna per lui, dicendo e facendoli oltre credere, che il gran Giove non è Giove, ma che Orione è Giove; e che li dei tutti non sono altro che chimere e fantasie. Per tanto mi par pure convenevole che non permettiamo, che per fas et nefas, come dicono, voglia far tante destrezze e demostranze, per quante possa farsi nostro superiore in riputazione.

 

Qua rispose la savia Minerva: - Non so, o Momo, con che senso tu dici queste paroli, doni questi consegli, metti in campo queste cautele. Penso ch'il parlar tuo è ironico; perché non ti stimo tanto pazzo che possi pensar che gli dei mendicano con queste povertadi la riputazione appresso gli uomini; e, quanto a questi impostori, che la falsa riputazion loro, la quale è fondata sopra l'ignoranza e bestialità de chiunque le riputa e stima, sia lor onore più presto che confirmazione della loro indignità e sommo vituperio. Importa a l'occhio della divinità e presidente verità, che uno sia buono e degno, benché nessuno de mortali lo conosca; ma che un altro falsamente venesse sino ad essere stimato dio da tutti mortali, per ciò non si aggiongerà dignità a lui, perché solamente vien fatto dal fato instrumento ed indice per cui si vegga la tanto maggiore indignità e pazzia di que' tutti, che lo stimano, quanto colui è più vile, ignobile ed abietto. Se dunque si prenda non solamente Orione il quale è Greco ed uomo di qualche preggio; ma uno della più indegna e fracida generazion del mondo, di più bassa e sporca natura e spirito, che sia adorato per Giove: certo mai verrà esso onorato in Giove, né Giove spreggiato in lui: atteso che egli mascherato ed incognito ottiene quella piazza o solio, ma più tosto altri verranno vilipesi e vituperati in lui. Mai dunque potrà un forfante essere capace di onore per questo, che serve per scimia e beffa di ciechi mortali con il ministero de genii nemici..

 

Or sapete, disse Giove, quel che definisco di costui, per evitar ogni possibile futuro scandalo? Voglio che vada via a basso; e comando che perda tutta la virtù di far de bagattelle, imposture, destrezze, gentilezze ed altre maraviglie che non serveno di nulla; perché con quello non voglio che possa venire a destruggere quel tanto di eccellenza e dignità che si trova e consiste nelle cose necessarie alla republica del mondo; il qual veggio quanto sia facile ad essere ingannato, e per conseguenza inclinato alle pazzie e prono ad ogni corrozione ed indignità. Però non voglio che la nostra riputazione consista nella discrezione di costui o altro simile; perché, se pazzo è un re, il quale a un suo capitano e generoso duca dona tanta potestà ed autorità per quanta quello se gli possa far superiore (il che può essere senza pregiudicio del regno, il quale potrà cossì bene, e forse meglio, esser governato da questo che da quello); quanto più sarà insensato e degno di correttore e tutore, se ponesse o lasciasse nella medesima autorità un uomo abietto, vile ed ignorante, per cui vegna ad essere invilito, strapazzato, confuso e messo sotto sopra il tutto; essendo per costui posta la ignoranza in consuetudine di scienza, la nobilità in dispreggio e la villania in riputazione!

 

- Vada presto, disse Minerva; ed in quel spacio succeda la Industria, l'Esercizio bellico ed Arte militare; per cui si mantegna la patria pace ed autoritade; si appugneno, vincano e riducano a vita civile ed umana conversazione gli barbari; si annulleno gli culti, religioni, sacrificii e leggi inumane, porcine, salvatiche e bestiali; perché ad effettuar questo tal volta per la moltitudine de' vili ignoranti e scelerati, la quale prevale a' nobili sapienti e veramente buoni, che son pochi, non basta la mia sapienza senza la punta de la mia lancia, per quanto cotali ribaldarie son radicate, germogliate e moltiplicate al mondo. - A cui rispose Giove: - Basta, basta, figlia mia, la sapienza contra queste ultime cose, che da per sé invecchiano, cascano, son vorate e digerite dal tempo, come cose di fragilissimo fondamento. - Ma in questo mentre, disse Pallade, bisogna resistere e ripugnare, a fin che con la violenza non ne destruggano prima che le riformiamo.

 

- Venemo, disse Giove, al fiume Eridano; il quale non so come trattarlo; e che è in terra e che è in cielo, mentre le altre cose, de le quali siamo in proposito, facendosi in cielo, lasciâro la terra. Ma questo e che è qua, e che è là; e che è dentro, e che è fuori; e che è alto, e che è basso; e che ha del celeste, e che ha del terrestre; e che è là, ne l'Italia, e che è qua, nella region australe; or non mi par cosa a cui bisogna donare, ma a cui convegna che sia tolto qualche luogo. - Anzi, disse Momo, o Padre, mi par cosa degna (poi che ha questa proprietade l'Eridano fiume di posser medesimo esser suppositale- e personalmente in più parti) che lo facciamo essere ovunque sarà imaginato, nominato, chiamato e riverito: il che tutto si può far con pochissima spesa, senza interesse alcuno, e forse non senza buon guadagno. Ma sia di tal sorte, che chi mangiarà de suoi pesci imaginati, nominati, chiamati e riveriti, sia come, verbigrazia, non mangiasse; chi similmente beverà de le sue acqui, sia pur come colui che non ha da bere; chi parimente l'arà dentro del cervello, sia pur come colui che l'ha vacante e vodo; chi di medesima maniera arà la compagnia de le sue Nereidi e Ninfe, non sia men solo che colui che è anco fuor di se stesso. - Bene! disse Giove; qua non è pregiudizio alcuno, atteso che per costui non averrà che gli altri rimagnano senza cibo, senza da bere, senza che gli reste qualche cosa in cervello e senza compagni, per essere quel lor mangiare, bere, averlo in cervello e tenere in compagnia, in imaginazione, in nome, in voto, in riverenza; però sia, come Momo propone, e veggio che gli altri confirmano. Sia dunque l'Eridano in cielo, ma non altrimente che per credito ed imaginazione. Là onde non impedisca, che in quel medesimo luogo veramente vi possa essere qualch'altra cosa di cui in un altro di questi prossimi giorni definiremo; perché bisogna pensare sopra di questa sedia, come sopra quella de l'Orsa maggiore.

 

Provediamo ora a la Lepre, la qual voglio che sia stata tipo del timore per la Contemplazion de la morte; ed anco, per quanto si può, de la Speranza e Confidenza, la quale è contraria al Timore: perché in certo modo l'una e l'altra son virtudi, o almeno materia di quelle, se son figlie della Considerazione e serveno a la Prudenza. Ma il vano Timore, Codardiggia e Desperazione vadano insieme con la Lepre a basso a caggionare il vero inferno ed Orco de le pene a gli animi stupidi ed ignoranti. Ivi non sia luogo tanto occolto in cui non entre questa falsa Suspettazione ed il cieco Spavento de la morte, aprendosi la porta d'ogni rimossa stanza mediante gli falsi pensieri che la stolta Fede ed orba Credulitade parturisce, nutrisce ed allieva; ma non già (se non con vane forze) s'accoste dove l'inespugnabil muro della filosofica contemplazion vera circonda, dove la quiete de la vita sta fortificata e posta in alto, dove è aperta la verità, dove è chiara la necessitade de l'eternità d'ogni sustanza; dove non si dee temer d'altro che d'esser spogliato dall'umana perfezione e giustizia, che consiste nella conformità de la natura superiore e non errante. - Qua disse Momo: - Intendo, o Giove, che chi mangia la lepre, si fa bello; facciamo dunque che chiunque mangiarà di questo animal celeste, o maschio o femina ch'egli sia, da brutto dovegna formoso, da disgraziato grazioso, da cosa feda e dispiacevole piacevole e gentile; e fia beato il ventre e stomaco che ne cape, e digerisce, e si converte in essa. -Sì; ma non voglio, disse Diana, che de la mia lepre si perda la semenza. - Oh, io ti dirò, disse Momo, un modo con cui tutto il mondo ne potrà e mangiare e bevere senza che la sia mangiata e bevuta, senza che sia dente che la tocche, mano che la palpe, occhio che la vegga e forse ancora luogo che la capisca.

 

- Di questo, disse Giove, ne raggionarete poi. Ora venendo a questo Cagnazzo che gli corre appresso, mentre per tante centinaia d'anni l'apprende in spirito, e per tema di perdere la materia d'andar più cacciando, mai viene quell'ora che la prenda in veritade, e tanto tempo gli va latrando a dietro, fingendosi le risposte. - Di questo mi son lamentato sempre, o padre, disse Momo, che hai mal dispensato, facendo che quel can mastino che fu messo a perseguitar la tebana volpe, l'hai fatto montare al cielo, come fusse un levriero alla coda d'una lepre, facendo rimaner là giù la volpe trasmutata in sasso. - Quod scripsi, scripsi, disse Giove. - E questo, disse Momo, è il male: che Giove ha la sua volontà per giustizia, ed il suo fatto per fatal decreto, per far conoscere ch'egli ave absoluta autoritade, e per non donar a credere ch'egli confesse di posser fare, o aver fatto errore, come soglion fare altri dei, che, per aver qualche ramo de discrezione, tal volta si penteno, si ritrattano e corregono. - Ed ora, disse Giove, che pensi che sia quel che facciamo adesso, tu, che da un particolare vuoi inferir la sentenza generale? -Si escusò Momo che lui inferiva in generale in ispecie, cioè in cose simili; non in genere, cioè in tutte le cose.


•Saulino•  La chiosa fu buona, perché non è il simile dove è altrimente.


•Sofia•
 Ma soggionse: - Però, padre santo, poi che hai tanta potestà che puoi fare di terra cielo, di pietre pane e di pane qualch'altra cosa, finalmente puoi fare sin a quel che non è, né può esser fatto; fa' che l'arte di cacciatori, idest la Venazione, come è una maestrale insania, una regia pazzia ed uno imperial furore, vegna ad essere una virtù, una religione, una santità; e che grande sia onore a uno per esser carnefice, ammazzando, scorticando, squartando e sbudellando una bestia salvaggia. Di ciò benché convenerebbe a Diana di priegarti, tutta via io la dimando, per esser talvolta cosa onesta che, in caso d'impetrar beneficio e dignitade, più tosto s'interpona un altro, che quel medesimo, a chi spetta, vegna per se medesimo a presentarsi, introdursi e proporsi: atteso che con suo maggior scorno gli verrebe negato, e con minor suo decoro gli sarrebe conceduto quel che cerca. - Rispose Giove: -Benché, come l'esser beccaio debba essere stimata un'arte ed esercizio più vile che non è l'esser boia (come è messo in consuetudine in certe parti d'Alemagna), perché questa si maneggia pure in contrattar membri umani, e talvolta administrando alla giustizia; e quello ne gli membri d'una povera bestia, sempre amministrando alla disordinata gola, a cui non basta il cibo ordinato dalla natura, più conveniente alla complessione e vita dell'uomo (lascio l'altre più degne raggione da canto); cossì l'esser cacciatore è uno esercizio ed arte non meno ignobile e vile che l'esser beccaio; come non ha minor raggion di bestia la salvatica fiera che il domestico e campestre animale. Tutta volta mi pare e piace, per non incusare, ed a fine che non vegna incusata di vituperio la mia figlia Diana, ordino che l'essere carnefice d'uomini sia cosa infame; l'esser beccaio, idest manigoldo d'animali domestici, sia cosa vile; ma l'esser boia di bestie salvatiche sia onore, riputazion buona e gloria. -Ordine, disse Momo, conveniente non a Giove quando è stazionario o diretto, ma quando è retrogrado. Mi maravigliavo io, quando vedevo questi sacerdoti de Diana, dopo aver ucciso un daino, una capriola, un cervio, un porco cinghiale o qualch'altro di questa specie, inginocchiarsi in terra, snudarsi il capo, alzar verso gli astri le palme; e poi con la scimitarra propria troncargli la testa, appresso cavargli il cuore prima che toccar gli altri membri; e cossì successivamente con un culto divino adoprando il picciolo coltello, procedere di mano in mano a gli altri ceremoni; onde appaia con quanta religione e pie circonstanze sa far la bestia lui solo che non admette compagno a questo affare, ma lascia gli altri con certa riverenza e finta maraviglia star in circa a remirare. E mentre lui è tra gli altri l'unico manigoldo, si stima essere a punto quel sommo sacerdote a cui solo era lecito di portare il Semammeforasso, e ponere il piè entro in Santasantoro. Ma il male è che sovente accade che, mentre questi Atteoni vanno perseguitando gli cervi del deserto, vegnono dalla lor Diana ad esser convertiti in cervio domestico, con quel rito magico soffiandogli al viso, e gittandogli l'acqua de la fonte a dosso, e dicendo tre volte:

 

Si videbas feram,

Tu currebas cum ea,

Me, quae iam tecum eram,

Spectes in Galilea;

 

ove, incantandolo per volgare, in questa altra maniera:

 

Lasciaste la tua stanza

E la bestia seguitaste;

Con tanta diligenza

A dietro gli corresti,

Che medesimo in sustanza

Compagno te gli festi. Amen.

 

 Cossì dunque, conchiuse Giove, io voglio che la venazione sia una virtù; atteso a quel che disse Iside in proposito de le bestie; ed oltre, perché con tanto diligente vigilanza, con sì religioso culto s'incerviano, incinghialano, inferiscono ed imbestialano. Sia, dico, virtù tanto eroica che quando un prencipe perseguita una dama, una lepre, un cervio o altra fiera, faccia conto che le nemiche legioni gli corrano avanti; quando arà preso qualche cosa, sia a punto in quel pensiero, come avesse alle mani cattivo quel prencipe o tiranno di cui più teme: onde non senza raggione vegna a far que' bei ceremoni, rendere quelle calde grazie e porgere al cielo quelle belle e sacrosante bagattelle. - Ben provisto per il luogo del cane cacciatore, disse Momo; il quale sarà bene d'inviarlo in Corsica o in Inghilterra. Ed in suo luogo succeda la Predicazione della verità, il Tirannicidio, il Zelo de la patria e di cose domestiche, la Vigilanza, la Custodia e Cura della republica. Or che farremo, disse, de la Cagnolina? - Allora s'alzò la blanda Venere e la dimandò in grazia a gli dei, perché qualche volta per passatempo suo e de le sue damigelle, con quel vezzoso rimenamento de la persona, con que' baciotti e con quel gentil applauso di coda, a tempo de le lor vacanze, gli scherze in seno. - Bene, disse Giove; ma vedi, figlia, che voglio che seco si parta l'Assentazione, l'Adulazione tanto amate, quanto perpetuamente odiati Zelo e Dispreggio; perché in quel loco voglio che sia la Domestichezza, Comità, Placabilità, Gratitudine, semplice Ossequio ed amorevole Servitude. - Fate, rispose la bella dea, del resto quel che vi piace; perché senza queste cagnoline non si può vivere felicemente in corte, come in quelle medesime non si può virtuosamente perseverare senza coteste virtudi che tu racconti.

 

E non sì tosto ebbe chiusa la bocca la dea di Pafo, che Minerva l'aperse dicendo: - Or, a che fine destinate la mia bella manifattura, quel palaggio vagabondo, quella stanza mobile, quella bottega e quella fiera errante, quella vera balena che gli traghiuttiti corpi vivi e sani le va a vomire ne gli estremi lidi de le opposte, contrarie e diverse margini del mare? - Vada, risposero molti dei, con l'abominevole Avarizia, con la vile e precipitosa Mercurio atura, col desperato Piratismo, Predazione, Inganno, Usura ed altre scelerate serve, ministre e circonstanti di costoro. Ed ivi risieda la Liberalità, la Munificenza, la Nobiltà di spirito, la Comunicazione, Officio ed altri degni ministri e servi loro. - Bisogna, disse Minerva, che sia conceduta ed appropriata a qualcuno. - Fa' di quella ciò che a te piace, disse Giove. - Or dunque, disse lei, serva a qualche sollecito Portughese, o curioso ed avaro Britanno, acciò con essa vada a discuoprir altre terre ed altre regioni verso l'India occidentale, dove il capo aguzzo Genovese non ha discuoperto, e non ha messo i piedi il tenace e stiptico Spagnolo; e cossì successivamente serva per l'avenire al più curioso, sollecito e diligente investigator de nuovi continenti e terre.

 

Finito avendo il suo proposito Minerva, cominciò a farsi udir in questo tenore il triste, restio e maninconioso Saturno: - Mi pare, o dei, che tra gli riservati per rimaner in cielo, con gli Asinelli, Capricorno e Vergine, sia questa Idra, questo antico e gran serpente che dignissimamente ottiene la patria celeste, come quello, che ne revendicò da le onte de l'audace e curioso Prometeo, non tanto amico di nostra gloria, quanto troppo affezionato a gli uomini, quali volea che per privilegio e prorogativa de l'immortalitade ne fussero a fatto simili ed uguali. Questo fu quel sagace ed accorto animale, prudente, versuto, callido, astuto e fino più che tutti gli altri che la terra produca; che, quando Prometeo ebbe subornato il mio figlio, vostro fratello e padre Giove, a donargli quelle otre o barilli pieni di vita eterna, accadde che, avendone cargato un asino, mettendoli sopra quella bestia per condurli alla region de gli uomini l'asino (perché per qualche tratto di camino andava avanti al suo agasone) cotto dal sole, bruggiato dal caldo, arefatto da la fatica, sentendosi gli pulmoni disseccati da la sete, venne invitato da costui al fonte; dove (per esser quello alquanto cavo e basso, di maniera che l'acqua per doi o tre palmi era lontana da l'equalità de la terra) bisognò che l'asino si curvasse e si piegasse tanto, per toccar la liquida superficie con le labbia, che vennero a cascargli dal dorso gli barilli, si ruppero gli otricelli, si versò la vita eterna, e tutta venne a disperdersi per terra e quel pantano che facea corona con l'erbe al fonte. Costui se ne raccolse destramente qualche particella per lui: Prometeo rimase confuso, gli uomini sotto la triste condizione della mortalità, e l'asino, perpetuo ludibrio e nemico di questi, condannato dall'umana generazione, consenziente Giove, ad eterne fatiche e stenti, a pessimo cibo, che trovar si possa, ed a soldo di spesse e grosse bastonate. Cossì, o dei, per caggion di costui aviene che gli uomini facciano qualche caso de fatti nostri: perché vedete che ora, quantunque siano mortali, conoscano la loro imbecillità ed aspettan pure di passare per le nostre mani, e ne dispreggiano, si beffano de fatti nostri, e ne reputano come scimie e gattimammoni; che farrebono se fussero similmente, come noi siamo, immortali? - Assai bene definisce Saturno, -disse Giove. - Stiasi dunque, risposero gli dei tutti. - Ma partasi, soggionse Giove, la Invidia, la Maldicenza, la Insidia, Buggia, Convizio, Contenzione e Discordia; e le virtudi contrarie rimagnano con la serpentina Sagacità e Cautela. Ma quel Corvo non posso patire che sia là; però Apolline tolga quel suo divino, quel buon servitore, quel sollecito ambasciatore e diligente novelliero e posta, che tanto bene effettuò il comandamento de gli dei, quando aspettavano di tôrsi la sete per la sedulità del costui serviggio. - Se vuol regnare, disse Apolline, vada in Inghilterra dove ne trovarà le mille leggioni. Se vuol dimorar solitario, stenda il suo volo al Montecorvino appresso Salerno. Se vuole andar, dove son molti fichi, vada in Figonia, cioè, dove la riva bagna il Ligustico mare, da Nizza in sino a Genova. Se è tirato da la gola de cadaveri, vadasi rimenando per la Campania, o pur per il camino, che è tra Roma e Napoli, dove son messi in quarti tanti ladroni che, da passo in passo, di carne fresca gli vengono apparecchiati più spessi e suntuosi banchetti che possa ritrovar in altra parte del mondo. - Soggionse Giove: -Vadano ancora a basso la Turpitudine, la Derisione, il Dispreggio, la Loquacità, l'Impostura; ed in quella sedia succeda la Magia, la Profezia ed ogni Divinazione e Prognosticazione, da gli effetti giudicata buona ed utile.


•Saulino•  Vorrei intendere il tuo parere, o SOFIA, circa la metafora del corvo; la qual primamente fu trovata e figurata in Egitto, e poi in forma d'istoria è presa da gli Ebrei, con gli quali questa scienza trasmigrò da Babilonia; ed in forma di favola è tolta da quei che poetôrno in Grecia. Atteso che gli Ebrei dicono d'un corvo inviato da l'arca per uomo, che si chiamava Noè, per veder se le acqui erano secche, a tempo che gli uomini aveano tanto bevuto che crepôrno; e questo animale, rapito da la gola de cadaveri, rimase, e non tornò mai dalla sua legazione e serviggio. Il che pare tutto contrario a quello che raccontano gli Egipzii e Greci, che il corvo sia stato inviato dal cielo da un dio, chiamato Apolline da questi, per vedere se trovava de l'acqua, a tempo che gli dei si morevano quasi di sete; e questo animale, rapito dalla gola de gli fichi, dimorò molti giorni, e tornò tardi al fine, senza riportar l'acqua, e,.credo, avendo perso il vase.


•Sofia•
 Non voglio al presente stendermi a dechiararti la dotta metafora; ma questo sol ti voglio dire: che il dir di Egizii e de Ebrei tutto va a rispondere a medesima metafora; perché dire che il corvo si parta da l'arca, che è diece cubiti sullevata sopra il più alto monte de la terra e che si parta dal cielo, mi par che sia quasi tutt'uno. E che gli uomini, che si trovano in tal luogo e regione, siano chiamati dei, non mi par troppo alieno; perché, per esser celesti, con poca fatica possono esser dei. E che da questi sia detto Noè quell'uomo principale e da quegli altri Apolline, facilmente s'accorda; perché la denominazione differente concorre in un medesimo officio di regenerare: atteso che sol et homo generant hominem. E che sia stato a tempo che gli uomini aveano troppo da bere, e che sia stato quando gli dei si morevano di sete, certo è tutto medesimo ed uno: perché, quando le cataratte del cielo s'apersero e si ruppero le cisterne del firmamento, è cosa necessaria che si dovenesse a tale che gli terreni avessero troppo da bere e gli celesti si morissero di sete. Che il corvo sia rimaso allettato ed invaghito per gli fichi, e che quello stesso sia stato attratto dalla gola de corpi morti, certamente viene tutto ad uno, se considerarai la interpretazione di quello Giosefo, che sapea dechiarar gli sogni. Perché al fornaio di Putifaro (che diceva aver avuto in visione, che portava in testa un canestro de fichi, di cui venevano a mangiar gli ucelli) prenosticò che lui dovea essere appiccato, e de le sue carni doveano mangiar i corvi e gli avoltori. Che il corvo fusse tornato, ma tardi e senza profitto alcuno, è tutto medesimo, non solamente con il dire che non tornò mai, ma anco con il dire che mai fusse andato né mandato; perché non va, non fa, non torna chi va, fa e torna in vano. E sogliamo dir ad un che viene tardi ed in vano, ancor che riporte qualche cosa: Andaste, fratel mio, e non tornaste;

A Lucca me ti parse de vedere.

 Ecco dunque, Saulino, come le metafore egiziane senza contradizione alcuna possono essere ad altri istorie, ad altri favole, ad altri figurati sentimenti.


•Saulino•  Questa tua concordanza di testi, se al tutto non mi contenta, è vicina a contentarmi. Ma per ora seguitate l'istoria principale.


•Sofia•
 - Or che si farà de la Tazza? dimandò Mercurio. De la giarra che si farà? - Facciamo, disse Momo, che sia donata, iure successionis, vita durante, al più gran bevitore che produca l'alta e bassa Alemagna, dove la Gola è esaltata, magnificata, celebrata e glorificata tra le virtudi eroiche; e la Ebrietade è numerata tra gli attributi divini: dove col treink e retreink, bibe et rebibe, ructa reructa, cespita recespita, vomi revomi usque ad egurgitationem utriusque iuris, idest del brodo, butargo, menestra, cervello, anima e salzicchia, videbitur porcus porcorum in gloria Ciacchi. Vadasene con quello l'Ebrietade, la qual non la vedete là in abito todesco con un paio di bragoni tanto grandi, che paiono le bigoncie del mendicante abbate di santo Antonio, e con quel braghettone che da mezzo de l'uno e l'altro si discuopre: di sorte che par che voglia arietare il paradiso? Guardate come la va, orsa, urtando ora con questo ora con quel fianco, mo' di proda mo' di poppa, in qualche cosa, che non è scoglio, sasso, cespuglio, o fosso a cui non vada a pagar il fio. Scorgete con ella gli compagni fidelissimi Replezione, Indigestione, Fumositade, Dormitazione, Trepidazione, alias Cespitazione, Balbuzie, Blesura, Pallore, Delirio, Rutto, Nausea, Vomito, Sporcaria ed altri seguaci, ministri e circonstanti. E perché la non può più caminare, vedete come rimonta sul suo carro trionfale, dove sono legati molti buoni, savii e santi personaggi de quali li più celebri e famosi sono Noemo, Lotto, Chiaccone, Vitanzano, Zucavigna e Sileno. L'alfiero Zampaglion porta la banda fatta di scarlato; dove con il color di proprie penne appare di doi sturni il natural ritratto; e gionti a doi gioghi, con bella leggiadria tirano il temone quattro superbi e gloriosi porci, un bianco, un rosso, un vario, un negro; de quali il primo si chiama Grungarganfestrofiel, il secondo Sorbillgramfton, il terzo Glutius, il quarto Strafocazio.

 

Ma di questo altre volte ti dirò a bastanza. Veggiamo che fu, dopo ch'ebbe ordinato Giove che vi succedesse l'Abstinenza e Temperanza con gli lor ordini e ministri, che udirai: perché adesso è tempo, che vengamo a raggionar del centauro Chirone, il qual venendo ordinatamente a proposito, fu detto dal vecchio Saturno a Giove: - Perché, o figlio e signor mio, vedi ch'il sole è per tramontare, ispediamo presto questi altri quattro, s'el ti piace. - E Momo disse: - Or, che vogliamo far di quest'uomo insertato a bestia, o di questa bestia inceppata ad uomo, in cui una persona è fatta di due nature, e due sustanze concorreno in una ipostatica unione? Qua due cose vegnono in unione a far una terza entità; e di questo non è dubio alcuno. Ma in questo consiste la difficultà; cioè, se cotal terza entità produce cosa megliore che l'una e l'altra, o d'una de le due parti, overamente più vile. Voglio dire, se, essendo a l'essere umano aggionto l'essere cavallino, viene prodotto un divo degno de la sedia celeste, o pur una bestia degna di esser messa in un armento e stalla? In fine (sia stato detto quanto si voglia da Iside, Giove ed altri dell'eccellenza de l'esser bestia, e che a l'uomo, per esser divino, gli conviene aver de la bestia, e quando appetisce mostrarsi altamente divo, faccia conto di farsi vedere in tal misura bestia), mai potrò credere che, dove non è un uomo intiero e perfetto, né una perfetta ed intiera bestia, ma un pezzo di bestia con un pezzo d'uomo, possa esser meglio che come dove è un pezzo di braga con un pezzo di giubbone, onde mai provegna veste meglior che giubbone o braga, né meno cossì, come questa o quella, buona. - Momo, Momo, rispose Giove, il misterio di questa cosa è occolto e grande, e tu non puoi capirlo; però, come cosa alta e grande, ti fia mestiero di solamente crederlo. - So bene, disse Momo, che questa è una cosa, che non può esser capita da me, né da chiunque ha qualche picciolo granello d'intelletto; ma che io, che son un dio, o altro che si trova tanto sentimento quanto esser potrebe un acino di miglio, debba crederlo, vorrei che da te prima con qualche bella maniera mi vegna donato a credere. -Momo, disse Giove, non devi voler sapere più di quel che bisogna sapere, e credemi, che questo non bisogna sapere. -Ecco dunque, disse Momo, quel che è necessario intendere, e ch'io al mio dispetto voglio sapere; e per farti piacere, o Giove, voglio credere che una manica ed un calzone vagliono più ch'un par di maniche ed un par di calzoni, e di gran vantaggio ancora; che un uomo non è uomo, che una bestia non è bestia; che la metà d'un uomo non sia mezo uomo, e che la metà d'una bestia non sia meza bestia; che un mezo uomo e meza bestia non sia uomo imperfetto e bestia imperfetta, ma bene un divo, e pura mente colendo. - Qua li dei sollecitarono Giove, che s'espedisse presto e determinasse del Centauro secondo il suo volere. Però Giove, avendo comandato silenzio a Momo, determinò in questo modo: - Abbia detto io medesimo contra Chirone qualsivoglia proposito, al presente io mi ritratto; e dico che, per esser Chirone centauro uomo giustissimo, che un tempo abitò nel monte Pelia, dove insegnò ad Esculapio de medicina, ad Ercole d'astrologia e ad Achille de citara, sanando infermi, mostrando come si montava verso le stelle, e come gli nervi sonori s'attaccavano al legno e si maneggiavano, non mi par indegno del cielo. Appresso ne lo giudico degnissimo, perché in questo tempio celeste, appresso questo altare a cui assiste, non è altro sacerdote che lui; il qual vedete con quella offrenda bestia in mano, e con un libatorio fiasco appeso a la cintura. E perché l'altare, il fano, l'oratorio è necessariissimo, e questo sarrebe vano senza l'administrante, però qua viva, qua rimagna e qua persevere eterno, se non dispone altrimente il fato. - Qua suggionse Momo: - Degna e prudentemente hai deciso, o Giove, che questo sia il sacerdote nel celeste altare e tempio; perché, quando bene arà spesa quella bestia che tiene in mano, è impossibile che li possa mancar mai la bestia: perché lui medesimo, ed uno, può servir per sacrificio e sacrificatore, idest per sacerdote e per bestia. - Or bene dunque, disse Giove, da questo luogo si parta la Bestialità, l'Ignoranza, la Favola disutile e perniziosa; e dove è il Centauro, rimagna la Semplicità giusta, la Favola morale. Da ove è l'Altare, si parta la Superstizione, l'Infidelità, l'Impietà e vi soggiorne la non vana Religione, la non stolta Fede e la vera e sincera Pietade. - Qua propose Apolline: - Che sarà di quella Tiara? a che è destinata quella Corona? che vogliamo far di essa? - Questa, questa, rispose Giove, è quella corona, la quale, non senza alta disposizion del fato, non senza instinto de divino spirito e non senza merito grandissimo, aspetta l'invittissimo Enrico terzo, Re della magnanima, potente e bellicosa Francia; che dopo questa e quella di Polonia, si promette, come nel principio del suo regno ha testificato, ordinando quella sua tanto celebrata impresa, a cui, facendo corpo le due basse corone con un'altra più eminente e bella, s'aggiongesse per anima il motto: Tertia coelo manet. Questo Re cristianissimo, santo, religioso e puro può securamente dire: Tertia coelo manet, perché sa molto bene che è scritto Beati li pacifici, beati li quieti, beati li mondi di cuore, perché de loro è il regno de' cieli. Ama la pace, conserva quanto si può in tranquillitade e devozione il suo popolo diletto; non gli piaceno gli rumori, strepiti e fragori d'instrumenti marziali che administrano al cieco acquisto d'instabili tirannie e prencipati de la terra; ma tutte le giustizie e santitadi che mostrano il diritto camino al regno eterno. Non sperino gli arditi, tempestosi e turbulenti spiriti di quei che sono a lui suggetti, che, mentre egli vivrà (a cui la tranquillità de l'animo non administra bellico furore), voglia porgerli aggiuto per cui non vanamente vadano a perturbar la pace de l'altrui paesi, con pretesto d'aggionger gli altri scettri ed altre corone; perché Tertia coelo manet. In vano contra sua voglia andaranno le rubelle Franche copie a sollecitar gli fini e lidi altrui; perché non sarà proposta d'instabili consegli, non sarà speranza de volubili fortune, comodità di esterne administrazioni e suffragii che vagliano con specie d'investirlo de manti ed ornarlo di corone, toglierli (altrimente che per forza di necessità) la benedetta cura della tranquillità di spirito, più tosto leberal del proprio che avido de l'altrui. Tentino, dunque, altri sopra il vacante regno Lusitano; sieno altri solleciti sopra il Belgico dominio. Perché vi beccarete la testa e vi lambiccarete il cervello, altri ed altri prencipati? perché suspettarete e temerete voi altri prencipi e regi che non vegna a domar le vostre forze, ed involarvi le proprie corone? Tertia coelo manet. Rimagna dunque (conchiuse Giove) la Corona, aspettando colui che sarà degno del suo magnifico possesso; e qua oltre abbia il suo solio la Vittoria, Remunerazione, Premio, Perfezione, Onore e Gloria; le quali, se non son virtudi, son fine di quelle.


•Saulino•  Or che dissero li dei?


•Sofia•
 Non fu grande o picciolo, maggiore o minore, maschio o femina, o d'una e d'un'altra sorte, che si trovasse nel conseglio, che con ogni voce e gesto non abbia sommamente approvato il sapientissimo e giustissimo decreto Gioviale. Là onde, fatto tutto allegro e gioioso, il summitonante s'alzò in piedi e stese la destra verso il Pesce australe, di cui solo restava a definire, e disse: -Presto tolgasi da là quel pesce, e non vi rimagna altro che il suo ritratto; ed esso in sustanza sia preso dal nostro cuoco, ed or ora, fresco fresco, sia messo per compimento di nostra cena parte in craticchia, parte in guazzetto, parte in agresto, parte acconcio come altrimente li pare e piace, accomodato con salza romana. E facciasi tutto presto, perché per il troppo negociare io mi muoio di fame, ed il simile credo de voi altri anco: oltre che mi par convenevole che questo purgatorio non sia senza qualche nostro profitto ancora. - Bene, bene, assai bene! risposero tutti gli dei; ed ivi si trove la Salute, la Securità, l'Utilità, il Gaudio, il Riposo e somma Voluttade, che son parturite dal premio de virtudi, e remunerazion de studi e fatiche.-.

 E con questo festivamente usciro dal conclave, avendo purgato il spacio oltre il signifero, che contiene trecento e sedeci stelle segnalate.


•Saulino•  Or ed io me ne vo alla mia cena.


•Sofia•
 Ed io mi ritiro alle notturne contemplazioni.

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spaccio della Bestia Trionfante

Epistola Esplicatoria Dialogo Primo parte 1 Dialogo Primo parte 2 Dialogo Primo parte 3

Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2 ▪ Dialogo Secondo Parte 3 ▪

Dialogo Terzo Parte 1Dialogo Terzo Parte 2 ▪ Dialogo Terzo Parte 3 ▪

Indice Giordano Bruno



Musica: "Licet eger cum egrotis" (Carmina Burana  secolo XIII)