Dialogo Secondo – Seconda Parte -

Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.

 


•Sofia•  Or seguitiamo il proposito, quale per l'advenimento di Mercurio ieri ne venne interrotto.


•Saulino•  È ben tempo dopo che, donata la raggione de la collocazione e situazione de' buoni numi in loco dove erano quelle bestie, si vegga quali altri sieno ordinati di succedere al luogo de l'altre; e se vi piace, non vi sia grave di farmi sempre intendere la raggione e causa. Eravamo ieri su aver narrato, come il padre Giove ha donata ispedizione ad Ercole; però consequentemente per la prima è da vedere, che cosa abbia fatto succedere in suo luogo.


•Sofia•
 Io, o Saulino, ho inteso in verità accaduto in cielo altro che quel tanto, che in fantasia, in sogno, in ombra, in spirito di profezia vedde Crantore circa il dibatto de la Ricchezza, Voluptà, Sanità e Fortezza. Perché, quando Giove ebbe escluso Ercole da là, subito si mese avanti la Ricchezza, e disse: - A me, o padre, conviene questo loco. - A cui rispose Giove: - Per qual caggione? - E lei: - Anzi mi maraviglio, disse, che sin tanto abbi differito di collocarmi, e prima che ti ricordassi di me, hai non solo collocate altre dee ed altri numi che mi denno cedere, ma oltre hai sostenuto che bisognasse che io da per me medesima venesse ad opponermi e presentarmi contra il pregiudizio mio e torto che mi fate. - E Giove rispose: -Dite pur la vostra causa, Ricchezza; perché io non stimo d'averti fatto torto col non darti una de le stanze già proviste; ma ancora credo di non fartene con negarti la presente che è da provedere: e forse ti potrai accorgere di peggio che non ti pensi. - E che peggio mi può e deve accadere per vostro giudizio, di quel che m'è accaduto? -disse la Ricchezza. - Dimmi, con qual raggione m'hai preposta la Veritate, la Prudenza, la Sofia, la Legge, il Giudicio, se io son quella, per cui la Veritate si stima, la Prudenza si dispone, la Sofia è preggiata, la Legge regna, il Giudicio dispone, e senza me la Verità è vile, la Prudenza è sciagurata, la Sofia è negletta, la Legge è muta, il Giudicio è zoppo; perché io a la prima dono campo, alla seconda do nervo, alla terza lume, a la quarta autoritade, al quinto forza; a tutte insieme giocundità bellezza ed ornamento, e le libero da fastidii e miserie? - Rispose Momo: - O Ricchezza, tu non dici il vero più che il falso; perché tu oltre sei quella per cui zoppica il Giudizio, la Legge sta in silenzio, la Sofia è calpestrata, la Prudenza è incarcerata e la Verità è depressa, quando ti fai compagna di buggiardi e ignoranti, quando favorisci col braccio de la sorte la pazzia, quando accendi e cattivi gli animi ai piaceri, quando amministri alla violenza, quando resisti a la giustizia. Ed appresso, a chi ti possiede non meno apporti fastidio che giocondità, difformità che bellezza, bruttezza che ornamento; e non sei quella, che dài fine a' fastidii e miserie, ma che le muti e cangi in altra specie. Sì che in opinione sei buona, ma in verità sei più malvaggia; in apparenza sei cara, ma in esistenza sei vile; per fantasia sei utile, ma in effetto sei perniciosissima; atteso che per tuo magistero, quando investisci di te qualche perverso (come per ordinario sempre ti veggio in casa di scelerati, raro vicina ad uomini da bene), là a basso hai fatta la Veritade esclusa fuor de le cittadi a gli deserti, hai rotte le gambe a la Prudenza, hai fatta vergognar la Sofia, hai chiusa la bocca a la Legge, non hai fatto aver ardire al Giudicio, tutti hai resi vilissimi. -Ed in questo, o Momo, rispose la Ricchezza, puoi conoscere la mia potestate ed eccellenza: che io, aprendo e serrando il pugno, e per comunicarmi o qua o là, fo che questi cinque numi vagliano, possano e facciano, o ver sieno spreggiati, banditi e ributtati; e per dirla, posso cacciarle al cielo o ne l'inferno. - Qua rispose Giove: - Non vogliamo in cielo e in queste sedie altro che buoni numi. Da qua si togliano que' che son rei, e quei che o sono più rei che buoni, e quei che indifferentemente son buoni e rei; tra gli quali io penso che sei tu, che sei buona con gli buoni, e pessima con gli scelerati.

 

 - Sai, o Giove, disse la Ricchezza, che io per me son buona, e non sono per me indifferente o neutra, o d'una ed altra maniera, come dici, se non in quanto di me altri bene si vogliano servire o male. - Qua rispose Momo: - Tu dunque, Ricchezza, sei una Dea maneggiabile, servibile, contrattabile, e che non ti governi da te stessa, e che non sei veramente quella che reggi e disponi de altri, ma di cui altri disponeno, e che sei retta da altri; onde sei buona quando altri ti maneggiano bene, sei mala quando sei mal guidata; sei, dico, buona in mano della Giustizia, della Sofia, della Prudenza, della Religione, della Legge, della Liberalità ed altri numi; sei ria se gli contrarii di questi ti maneggiano: come sono la violenza, l'avarizia, l'ignoranza ed altri. Come, dunque, da per te non sei né buona né ria, cossì credo essere bene, se Giove il consente, che per te non abbi né vergogna né onore; e per consequenza non sii degna d'aver propria stanza, né ad alto tra gli dei e numi celesti, né a basso tra gli inferi, ma che eternamente vadi da loco in loco, da regione in regione.

 

Arrisero tutti gli dei al dir di Momo, e Giove sentenziò cossì: - Sì che, Ricchezza, quando sei di Giustizia, abitarai nella stanza della Giustizia; quando sei di Verità, sarai dove è l'eccellenza di quella; quando sei di Sapienza e Sofia, sederai nel solio suo; quando di voluttuarii piaceri, tròvati là dove sono; quando d'oro ed argento, allora ti caccia ne le borse e casce; quando di vino, oglio e frumento, va fìccate ne le cantine e magazini; quando di pecore, capre e buovi, va a pascolar con essi e posa ne gli greggi ed armenti.

 

Cossì Giove l'impose quello che deve fare quando si trova con gli pazzi, e come si deve comportare quando è in casa di sapienti; in che modo per l'avenire perseverar debba a far come per il passato (forse perché non si può far altro), di farsi in certo modo facilmente trovare ed in certo modo difficilmente. Ma quella raggione e modo non la fece intendere a molti; se non che Momo alzò la voce e gli ne dié un'altra, se non fu quella medesima via, cioè: - Nessuno ti possa trovare senza che prima si sia pentito d'aver avuto buona mente e sano cervello. - Credo che volesse dire, che bisogna perdere la considerazione ed il giudicio di prudenza, non pensando mai all'incertezza ed infidelità de tempi, non avendo riguardo alla dubia ed instabile promessa del mare, non credere a cielo, non guardare a giustizia o a ingiustizia, ad onore o vergogna, a bonaccia o tempesta, ma tutto si commetta a la fortuna: - E che ti guardi di farti mai domestica di quei che con troppo giudicio ti cercano; e color meno ti veggano che con più tendicoli, lacci e reti di providenza ti perseguitano; ma per l'ordinario va' dove son gli più insensati, pazzi, stracurati e stolti; ed in conclusione, quando sei in terra, guàrdati da' più savii come dal fuoco: e cossì sempre accòstati e fatti familiare a gente semibestiali, e tieni sempre la medesima regola che tiene la fortuna.


•Saulino•  È ordinario, o Sofia, che gli più savii non son gli più ricchi; o perché si contentano di poco, e quel poco stimano assai, se è sufficiente a la vita; o per altre cause, che forse, mentre sono attenti a imprese più degne, non troppo vanno vagando qua e là per incontrarsi a uno di questi numi, che son le ricchezze o la fortuna. Ma séguita il tuo raggionamento.


•Sofia•
 Non sì tosto la Povertà vedde la Ricchezza, sua nemica, esclusa, che con una più che povera grazia si fece innante; e disse che per quella raggione, che facea la Ricchezza indegna di quel loco, lei ne dovea essere stimata degnissima, per esser contraria a colei. A cui rispose Momo: - Povertà, Povertà, tu non sareste al tutto Povertà, se non fussi ancora povera d'argumenti, sillogismi e buone consequenze. Non per questo, o misera, che siete contrarie, séguita che tu debbi essere investita di quello che lei è dispogliata o priva, e tu debbi essere quel tanto che lei non è: come, verbigrazia (poi che bisogna donartelo ad intendere con essempio), tu devi essere Giove e Momo, perché lei non è Giove né Momo: ed in conclusione ciò che si niega di quella, debba essere affirmato di te; perché quelli che son più ricchi de dialettica che tu non sei, sanno che li contrarii non son medesimi con positivi e privativi, contradittorii, varii, differenti, altri, divisi, distinti e diversi. Sanno ancora che per raggione di contrarietà séguita, che non possiate essere insieme in un loco; ma non che, dove non è quella e non può esser quella, sii tu, o possi esser tu. - Qua risero tutti li dei, quando veddero Momo voler insegnar logica a la Povertà; ed è rimasto questo proverbio in cielo: Momo è maestro de la Povertà, o ver: Momo insegna dialettica a la Povertà. E questo lo dicono, quando vogliono delleggiar qualche fatto scontrafatto. - Che dunque ti par che si debba far di me, o Momo? - disse la Povertà. - Determina presto, perché io non sono sì ricca di paroli e concetti che possa disputar con Momo, né sì copiosa d'ingegno che possa molto imparar da lui.

 

Allora Momo dimandò a Giove per quella volta licenza, se voleva che determinasse. A cui Giove: - Ancora mi burli, o Momo? che hai tanta licenza, che sei più licenzioso (volsi dir licenziato) tu solo che tutti gli altri. Dona pur sicuro la sentenza a costei; perché, se la sarà buona, l'approvaremo. - Allora Momo disse: - Mi par congruo e condigno ch'ancor questa se la vada spasseggiando per quelle piazze, nelle quali si vede andar circumforando la Ricchezza, e corra e discorra, vada e vegna per le medesime campagne; perché (come vogliono gli canoni del raziocinio) per raggione di cotai contrarii questa non deve entrare se non là onde quella fugge, e non succedere se non là d'onde quella si parte; e quella non deve succedere ed entrare se non là d'onde questa si parte e fugge; e sempre l'una sia a le spalli de l'altra, e l'una doni la spinta a l'altra, non toccandosi mai da faccia a faccia, ma dove l'una ha il petto, l'altra abbia il tergo, come se giocassero (come facciamo noi tal volta) al giuoco de la rota del scarpone.


•Saulino•  Che disse sopra di questo Giove con gli altri?


•Sofia•
 Tutti confirmaro e ratificaro la sentenza.


•Saulino•  La Povertà che disse?


•Sofia•
 Disse: - Non mi par cosa degna, o dei (se pur il mio parer ha luogo, e non sono a fatto priva di giudicio), che la condizion mia debba essere al tutto simile a quella de la Ricchezza. - A cui rispose Momo: - Da l'antecedente, che versate nel medesimo teatro e rapresentate la medesima tragedia o comedia, non devi tirar questa consequenza, che vengate ad essere di medesima condizione, quia contraria versantur circa idem. - Vedo, o Momo, disse la Povertà, che tu ti burli di me; che anco tu, che fai professione de dir il vero e parlar ingenuamente, mi dispreggi; e questo non mi par che sia il tuo dovero, perché la Povertà è più degnamente difesa tal volta, anzi il più de le volte, che la Ricchezza. - Che vuoi che ti faccia, rispose Momo, se tu sei povera a fatto a fatto? La Povertà non è degna de difensione, se è povera di giudizio, di raggione, di meriti e di sillogismi, come sei tu, che m'hai ridutto a parlar ancor per le regole analittiche delli Priori e Posteriori d'Aristotele. -


•Saulino•  Che cosa me dici, Sofia? Dunque li dei prendeno qualche volta Aristotele in mano? studiano verbigrazia ne gli filosofi?


•Sofia•
 Non ti dirò di vantaggio di quel ch'è su la Pippa, la Nanna, l'Antonia, il Burchiello, l'Ancroia, ed un altro libro, che non si sa, ma è in questione s'è di Ovidio o Virgilio, ed io non me ne ricordo il nome, ed altri simili.


•Saulino•  E pur adesso trattano cose tanto gravi e seriose?


•Sofia•
 E ti par che quelle non son seriose? non son gravi? Saulino, se tu fussi più filosofo, dico più accorto, credereste che non è lezione, non è libro che non sia essaminato da dei, e che, se non è a fatto senza sale, non sia maneggiato da dei; e che, se non è tutto balordesco, non sia approvato e messo con le catene nella biblioteca commune; perché pigliano piacere nella moltiforme representazione di tutte cose e frutti moltiformi de tutti ingegni, perché loro si compiaceno in tutte le cose che sono, e tutte le representazioni che si fanno, non meno che essi hanno cura che sieno, e donano ordine e permissione che si facciano. E pensa ch'il giudicio de gli dei è altro che il nostro commune, e non tutto quello che è peccato a noi e secondo noi, è peccato a essi e secondo essi. Que' libri certo cossì, come le teologie, non denno esser communi a gli uomini ignoranti, che medesimi sono scelerati; perché ne ricevono mala instituzione.


•Saulino•  Or non son libri fatti da uomini di mala fama, disonesti e dissoluti, e forse a mal fine?


•Sofia•
 È vero; ma non sono senza la sua instituzione e frutti della cognizione de chi scrive, come scrive, perché ed onde scrive, di che parla, come ne parla, come s'inganna lui, come gli altri s'ingannano di lui, come si declina e come s'inclina a uno affetto virtuoso e vizioso, come si muove il riso, il fastidio, il piacere, la nausea; ed in tutto è sapienza e providenza, ed in ogni cosa è ogni cosa, e massime è l'uno dove è l'altro contrario, e questo massime si cava da quello.


•Saulino•  Or torniamo al proposito donde ne ha divertiti il nome d'Aristotele e la fama de la Pippa. Come fu licenziata la Povertà da Giove, dopo che era sì schernita da Momo?


•Sofia•
 Io non voglio referir tutti gli ridicoli propositi che passâro tra quello e colei, la quale non meno momezzava di Momo che di essa seppe momezzar colui. Dechiarò Giove, che questa abbia di privileggii e prorogative che non ha quella in queste cose qua a basso.


•Saulino•  Dite le cose che sono.


•Sofia•
 - Voglio, disse il padre, in prima, che tu, Povertà, sii oculata, e sappi ritornar facilmente là d'onde tal volta ti partiste, e discacciar con maggior possa la Ricchezza; che per il contrario tu vegni scacciata da quella la qual voglio che sia perpetuamente cieca. Appresso voglio che tu, Povertà, sii alata, destra ed ispedita per le piume che son fatte d'aquila o avoltore; ma ne li piedi voglio che sii come un vecchio bove che tira il grave aratro, che profonda ne le vene de la terra: e la Ricchezza, per il contrario, abbia l'ali tarde e gravi, accomodandosi quelle d'un'oca o cigno; ma gli piedi sieno di velocissimo corsiero o cervio, a fine che, quando lei fugge da qualche parte adoprando gli piedi, tu con il batter de l'ali vi ti facci presente; ed onde tu con opra de le ali tue disloggi, quella possa succedere con l'uso di suoi piedi: di maniera che con quella medesima prestezza che da lei sarai fuggita o perseguitata, tu vegni a perseguitarla e fuggirla.


•Saulino•  Perché non le fa o ambe due bene in piuma, o ambe due bene in piedi, se niente meno se potrebbono accordare di perseguitarsi e fuggirsi, o tardi o presto?


•Sofia•
 Perché, andando la Ricchezza sempre carca, viene per la soma a impacciar alcunamente l'ali, e la Povertà, andando sempre discalza, facilmente per ruvidi camini viene ad essere offesa negli piedi: però questa in vano arrebe le piante, e quella le piume veloci.


•Saulino•  Questa risoluzione mi contenta. Or séguita.


•Sofia•
 Oltre vuole, che la Povertà massimamente séguite la Ricchezza, e sia fuggita da quella quando si versa nelli palaggi terreni, ed in quelle stanze nelle quali ha il suo imperio la Fortuna; ma allor che ella s'appiglia a cose alte e rimosse dalla rabbia del tempo e di quell'altra cieca, non voglio che abbi tanto ardire o forza d'assalir per farla fuggire e tôrgli il loco. Perché non voglio che facilmente si parta da là dove con tanta difficultade e dignitade bisogna pervenire; e cossì, per a l'incontro, abbi tu quella fermezza nelle cose inferiori che lei può avere nelle superiori. - Anzi, soggionse Giove, voglio che in certo modo in voi vegna ad essere una certa concordia d'una non leggiera sorte, ma di grandissima importanza; a fin che non pensi, che con esser bandita dal cielo vegni più relegata ne l'inferno, che, per il contrario, con esser tolta da l'inferno, vegni collocata in cielo: di maniera che la condizion de la Ricchezza, la quale ho detta, vegna incomparabilmente meglior che la tua. Però voglio, che tanto si manche che l'una discacce l'altra dal loco del suo maggior domìno, che più tosto l'una si mantegna e fomente per l'altra, di maniera che tra voi sia strettissima amicizia e familiaritade.


•Saulino•  Fatemi presto intendere come sia questo.


•Sofia•
 Disse Giove, soggiongendo a quel ch'avea detto: -Tu, Povertà, quando sarai di cose inferiori, potrai esser gionta, alligata e stretta alla Ricchezza di cose superiori, quanto mai la tua contraria Ricchezza di cose inferiori esser possa; perché con questa nessuno, che è savio e vuole sapere, stimarà giamai posser aggiongersi a cose grandi, atteso che alla filosofia donano impedimento le ricchezze, e la Povertade porge camino sicuro ed ispedito: essendo che non può essere la contemplazione, ove è circonstante la turba di molti servi, dove è importuna la moltitudine di debitori e creditori, computi di Mercurio anti, raggioni di villici, la pastura di tante pancie mal avezze, l'insidie di tanti ladroni, occhii de avidi tiranni ed exazioni de infidi ministri: di maniera che nessuno può gustar che cosa sia tranquillità di spirito, se non è povero o simile al povero. Appresso voglio che sia grande colui che ne la povertà è ricco, perché si contenta; e sia vile e servo colui che ne le ricchezze è povero, perché non è sazio. Tu sarai sicura e tranquilla; lei turbida, sollecita, suspetta ed inquieta; tu sarai più grande e magnifica, dispreggiandola, che esser mai possa lei, riputandosi e stimandosi; a te, per isbramarti, voglio che baste la sola opinione; ma per far lei satolla, non voglio che sia sufficiente tutta la possessione de le cose. Voglio che tu sii più grande con togliere dalle cupiditadi, che non possa esser quella con aggiongere alle possessioni. A te voglio che siano aperti gli amici, a quella occolti gli nemici. Tu con la legge della natura voglio che sie ricca, quella con tutti studii ed industrie civili poverissima; perché non colui che ha poco, ma quello che molto desidera, è veramente povero. A te (se strengerai il sacco della cupidità) il necessario sarà assai, e poco sarà bastante; ed a lei niente baste, benché ogni cosa con le spalancate braccia apprenda. Tu, chiudendo il desiderio tuo, potrai contendere de la felicità con Giove; quella, amplificando le fimbrie de la concupiscenza, più e più si sommerga al baratro de le miserie. - Conchiuso ch'ebbe Giove l'espedizione di costei, contentissima chiese licenza di far il suo camino; e la Ricchezza fece segno di volersi un'altra volta accostar, per sollicitar il conseglio con qualche nuova proposta; ma non gli fu lecito di giongere più paroli.

 

- Via, via! li disse Momo. Non odi quanti ti chiamano, ti cridano, ti priegano, ti sacrificano, ti piangono, e con sì gran voti e stridi, che ormai hanno tutti noi altri assorditi, ti appellano? E tu ti vai tanto trattenendo e strafuggendo per queste parti? Va via presto, a la mal'ora, se non ti piace andar a la buona. - Non t'impacciar di questo, o Momo, li disse il padre Giove, lascia che si parta e vada, quando gli pare e piace. - Ella mi par in vero, disse Momo, cosa degna di compassione ed una specie d'ingiustizia a riguardo de chi non vi provede, e puote, che questa meno vada a chi più la chiama e richiama, ed a chi più la merita, meno s'accosta. - Voglio, disse Giove, quel che vuole il fato.


•Saulino•  Fanne altrimente, dovea dire Momo.


•Sofia•
 - Io voglio, ch'al rispetto de le cose là basso questa sia sorda: e che giamai, per esser chiamata, risponda o vegna; ma, guidata più da la sorte e la fortuna, vada a la cieca ed a tastoni ad comunicarsi a colui, che verrà a rancontrarsegli tra la moltitudine. - Quindi averrà, disse Saturno, che si comunicarà più presto ad uno de gran poltroni e forfanti, il numero de quali è come l'arena che ad alcuno che sia mediocremente uomo da bene: e più tosto ad uno di questi mediocri che sono assai, che ad uno de più principali che son pochissimi; e forse mai, anzi certamente mai a colui che è più meritevole che gli altri, ed unico individuo.


•Saulino•  Che disse Giove a questo?


•Sofia•
 - Cossì bisogna che sia; è donata dal fato questa condizione a la Povertà, che la sia chiamata con desiderio da rarissimi e pochissimi, ma che ella si comuniche e si presente a gli assaissimi e moltitudine più grande; la Ricchezza, per il contrario, chiamata, desiderata, invocata, adorata ed aspettata da quasi tutti, vada a far copia di sé a rarissimi, e quei che manco la coltivano ed aspettano. Questa sia sorda a fatto, che da quantunque grande strepito e fragore non si smuova e sia dura e salda che a pena tirata da rampini ed argani si approssime a chi la procaccia; e quella auritissima, prestissima, prontissima, che ad ogni minimo sibilo, cenno, da quantunque lontana parte chiamata, subito sia presente: oltre che per l'ordinario la si trova a la casa ed a te spalli de chi non solo non la chiama, ma ed oltre con ogni diligenza da lei s'asconde.

 

- Mentre la Ricchezza e la Povertà cedevano al luogo: - Olà, disse Momo, che ombra è quella familiare a que' dua contrarii, e che è con la Ricchezza e che è con la Povertà? Io soglio vedere d'un medesimo corpo ombre diverse; ma de diversi corpi medesima ombra, non giamai, che io abbia notato, eccetto ch'adesso. - A cui rispose Apollo: - Dove non è lume, tutto è un'ombra; ancor che sieno diverse ombre, se son senza lume, si confondeno e sono una: come quando son molti lumi senza che qualche densità di corpo opaco se gli oppona o interpona, tutti concorreno a far un splendore. -Qua non mi par che debbia esser cossì: disse Momo; perché, dove è la Ricchezza, ed è a fatto esclusa la Povertà, e dove è la Povertà, suppositalmente distinta da la Ricchezza, non come doi lumi concorrenti in un soggetto illuminabile, si vede quella essere un'ombra che è con l'una e con l'altra. -Guardala bene, o Momo, disse Mercurio, e vedrai che non è un'ombra. - Non dissi che è ombra, rispose Momo, ma che è gionta a quelli doi numi, come una medesima ombra a doi corpi. Oh adesso considero; la mi par la Avarizia, che è una ombra: è le tenebre che sono della Ricchezza, ed è le tenebre che sono de la Povertà. - Cossì è, disse Mercurio: è ella figlia e compagna della Povertà, nemicissima de la sua madre, e che quanto può la fugge; inamorata ed invaghita de la Ricchezza, alla quale, quantunque sia giunta, sempre sente il rigor de la madre che la tormenta: e benché li sia appresso, li è lungi, e benché li sia lungi, li è appresso, perché, se si gli discosta, secondo la verità gli è intrinseca, e gionta secondo l'esistimazione. E non vedi che essendo gionta e compagna de la Ricchezza, fa che la Ricchezza non sia Ricchezza, e lunghi essendo da la Povertà, fa che la Povertà non sia Povertà? Queste tenebre, questa oscurità, questa ombra è quella che fa la Povertà esser mala e la Ricchezza non esser bene; e non si trova senza malignar l'una de le due, o ambe due insieme; rarissime volte né l'una né l'altra: e questo è quando sono da ogni lato circondate dalla luce della raggione ed intelletto.

- Qua dimandò Momo a Mercurio, che li facesse intendere come quella faceva la Ricchezza non essere ricchezze. A cui rispose, che il ricco avaro è poverissimo; perché l'avarizia non è dove sono ricchezze, se non vi è anco la Povertà; la quale non men veramente se vi trova per virtù de l'affetto, che ritrovar si possa per virtù d'effetto; di sorte che questa ombra, al suo marcio dispetto, mai si può discostare da la madre più che da se stessa.

 Mentre questo dicevano, Momo, il quale non è senza buonissima vista (benché non sempre vegga a la prima), con avere messo più d'attenzione: - O Mercurio, disse, quello ch'io ti dicevo essere come un'ombra, adesso scorgo che son tante bestie insieme insieme; perché la veggio canina, porcina, arietina, scimica, orsina, aquilina, corvina, falconina, leonina, asinina, e quante nine e nine bestie giamai fûro; e tante bestie è pur un corpo. La mi par certo il pantamorfo de gli animali bruti. - Dite meglio, rispose Mercurio, che è una bestia moltiforme; la pare una, ed è una; ma non è uniforme, come è proprio de vizii de aver molte forme, percioché sono informi e non hanno propria faccia, al contrario de le virtudi.

Qualmente vedi essere la sua nemica liberalitade, la quale è semplice ed una; la giustizia è una e semplice; come ancora vedi la sanità essere una, e gli morbi innumerabili. - Mentre Mercurio diceva questo, Momo gl'interruppe il raggionamento, e gli disse: - Io veggio, che la ha tre teste in sua mal'ora; pensavo, o Mercurio, che la vista mi fusse turbata, quando di questa bestia sopra un busto scorgevo uno ed uno ed un altro capo; ma, poi che ho voltato l'occhio per tutto, e visto che non è altro che mi paia similmente, conchiudo che non è altrimente che come io veggio. - Tu vedi molto bene, rispose Mercurio. Di quelle tre teste l'una è la illiberalità, l'altra è il brutto guadagno, l'altra è la tenacità. - Dimandò Momo, se quelle parlavano; e Mercurio rispose che sì, e che la prima dice: Meglio esser più ricco che esser stimato più liberale e grato; la seconda: Non ti morir di fame per esser gentiluomo; la terza dice: Se non mi è onore, mi è utile. - E pur non hanno più che due braccia? disse Momo.

 

- Bastano le due mani, rispose Mercurio, de le quali la destra è aperta aperta, larga larga, per prendere; l'altra è chiusa chiusa, stretta stretta, per tenere, e porgere come per distillazione e per lambicco, senza raggione di tempo e loco, come ancor senza raggione di misura. - Accostatevi alquanto più a me, tu, Ricchezza e Povertà, disse Momo, a fin che io possa meglior vedere la grazia di questa vostra bella pedissequa. - Il che essendo fatto, disse Momo: - È un volto, son più volti; è una testa, son più teste; è femina, è femina; ha la testa molto picciola, benché la faccia sia più che mediocre; è vecchia, è vile, è sordida, ha 'l viso rimesso, è di color nero; la veggio rugosa, ed ha capelli retti ed adri, occhi attentivi, bocca aperta ed anelante, e naso ed artigli adunchi; (maraviglia) essendo un animal pusillo, ha il ventre tanto capace e voraginoso, imbecille, Mercurio enario e servile, ch'il volto drizzato a le stelle incurva. Zappa, s'infossa; e per trovar qualche cosa, s'immerge al profondo de la terra, e dando le spalli a la luce, a gli antri tende ed a le grotte, dove giamai giunse differenza del giorno e de la notte; ingrata, a la cui perversa speranza giamai fia molto, assai o bastante quel che si dona, e che quanto più cape tanto si fa più cupa: come la fiamma che più vorace si fa quanto è più grande. Manda, manda, scaccia, scaccia presto, o Giove, da questi tenimenti la Povertà e la Ricchezza insieme, e non permettere che s'accostino alle stanze de dei, se non vegnono senza questa vile ed abominevol fiera! - Rispose Giove: - Le vi verranno addosso ed appresso, come voi vi disporrete a riceverle. Per il presente se ne vadano con la già fatta risoluzione, e venemo noi presto al fatto nostro di determinare il nume possessor di questo campo.

 

Ed ecco, mentre il padre degli dei si volta in circa, da per se medesima impudentemente e con una non insolita arroganza si fece innante la Fortuna, e disse: - Non è bene, o Dei consulari, e tu, o gran sentenziator Giove, che, dove parlano e possono essere tanto udite la Povertà e Ricchezza, io sia veduta come pusillanime tacere per viltade, e non mostrarmi, e con ogni raggione risentirmi. Io, che son tanto degna e tanto potente, che metto avanti la Ricchezza, la guido e spingo dove mi pare e piace, d'onde voglio la scaccio e dove voglio la conduco, con oprar la successione e vicissitudine de quella con la Povertade; ed ognun sa che la felicitade di beni esterni non si può riferir più alla Ricchezza, come a suo principio, che a me; sicome la beltà della musica ed eccellenza de l'armonia da qualcuno non si deve più principalmente referire alla lira ed instrumento, che a l'arte ed a l'artefice che le maneggia. Io son quella dea divina ed eccellente, tanto desiderata, tanto cercata, tanto tenuta cara, per cui per il più de le volte è ringraziato Giove, dalla cui mano aperta procede la ricchezza, e dalle cui palme chiuse tutto il mondo plora, e si metteno sozzopra le citadi, regni ed imperii. Chi mai offre voti alla Ricchezza o alla Povertà? chi le ringrazia mai? Ognuno che vuole e brama quelle, chiama me, invoca me, sacrifica a me; chiunque viene contento per quelle, ringracia me, rende Mercurio é alla Fortuna, per la Fortuna pone al foco gli aromati, per la Fortuna fumano gli altari. E che sono una causa, la quale quanto son più incerta tanto sono più veneranda e formidanda, e tanto son desiderabile ed appetibile quanto mi faccio meno compagna e familiare; perché ordinariamente nelle cose meno aperte, più occolte e maggiormente secrete si trova più dignità e maestade. Io che col mio splendore infosco la virtude, denigro la veritade, domo e dispreggio la maggior e meglior parte di queste dee e dei che veggio apparecchiati e messi come in ordine per prendersi piazza in cielo; ed io che ancor qua, in presenza di tale e tanto senato, sola metto terrore a tutti; perché (benché non ho la vista che mi serva) ho pur orecchie, per le quali comprendo, ad una gran parte de loro, battere e percuotersi gli denti per il timore che concepeno dalla mia formidabile presenza; quantunque con tutto ciò non perdano l'ardire e presunzione di mettersi avanti, a farsi nominare, dove prima non è stato disposto della mia dignitade; che ho sovente, e più che sovente, imperio sopra la Raggione, Veritade, Sofia, Giustizia ed altri numi; li quali, se non vogliono mentire di quello che è a tutto l'universo evidentissimo, potranno dire se possono apportar computo del numero de le volte che le ho buttate giù da le catedre, sedie e tribunali loro, ed a mia posta le ho reprimute, legate, rinchiuse ed incarcerate. Ed anco per mia Mercurio é poi ed altre volte hanno potuto uscire, liberarsi, ristabilirse e riconfirmarse, mai senza timore delle mie disgrazie. -Momo disse: - Comunemente, o cieca madonna, tutti gli altri dei aspettano la retribuzion di queste sedie per l'opre buone ch'han fatte, facciono e posson fare: e per tali il senato s'è proposto di premiar quelli; e tu, mentre fai la causa tua, ne ameni la lista e processo di que' tuoi delitti per gli quali non solo dereste esser bandita dal cielo, ma e da la terra ancora. - Rispose la Fortuna, che lei non era men buona che altri boni; e che la fusse tale, non era male; perché, quanto il fato dispone, tutto è bene; e se la natura sua fusse tale, come de la vipera, che è naturalmente velenosa, in questo non sarrebe sua colpa, ma o de la natura, o d'altro, che l'ha talmente instituita. Oltre che nessuna cosa è absolutamente mala; perché la vipera non è mortale e tossicosa a la vipera; né il drago, il leone, l'orso a l'orso, al leone, al drago; ma ogni cosa è mala a rispetto di qualch'altro; come voi, dei virtuosi, siete mali ad riguardo de viziosi, quei del giorno e de la luce son mali a quei de la notte ed oscuritade: e voi tra voi siete buoni, e lor tra loro son buoni; come aviene anco ne le sette del mondo nemiche, dove gli contrarii tra essi se chiamano figli de dei e giusti; e non meno questi di quelli, che quelli di questi, li più principali e più onorati chiamano peggiori e più riprovati. Io, dunque, Fortuna, quantunque a rispetto d'alcuni sia reproba, a rispetto d'altri son divinamente buona; ed è sentenza passata della maggior parte del mondo, che la fortuna de gli omini pende dal cielo; onde non è stella minima né grande, che appaia nel firmamento, da cui non si dica ch'io dispenso. - Qua rispose Mercurio, dicendo che troppo equivocamente era preso il suo nome: perché tal volta per la Fortuna non è altro che uno incerto evento de le cose; la quale incertezza a l'occhio de la providenza è nulla, benché sia massima a l'occhio de mortali. - La Fortuna non udiva questo, ma seguitava, ed a quel ch'avea detto, aggiunse che gli più egregii ed eccellenti filosofi del mondo, quali son stati Empedocle ed Epicuro, attribuiscono più a lei che a Giove istesso, anzi che a tutto il concilio de dei insieme. -Cossì tutti gli altri, diceva, e me intendeno Dea, e me intendeno celeste Dea, come credo che non vi sia novo a l'orecchie questo verso, il quale non è putto abecedario che non sappia recitare: Te facimus, Fortuna, deam, caeloque locamus.

 

E voglio ch'intendiate, o Dei, con quanta verità da alcuni son detta pazza, stolta, inconsiderata, mentre son essi sì pazzi, sì stolti, sì inconsiderati che non sanno apportar raggione de l'esser mio; ed onde trovo di que' che son stimati più dotti che gli altri, quali in effetto dimostrano e conchiudeno il contrario, per quanto son costretti dal vero; talmente mi dicono irrazionale e senza discorso, che non per questo m'intendeno brutale e sciocca, atteso che con tal negazione non vogliono detraermi, ma attribuirmi di vantaggio; come ed io tal volta voglio negar cose piccole per concedere le maggiori. Non son, dunque, da essi compresa come chi sia ed opre sotto la raggione e con la raggione; ma sopra ogni raggione, sopra ogni discorso ed ogni ingegno. Lascio che pur in effetto s'accorgeno e confessano, ch'io ottegno ed esercito il governo e regno massime sopra gli razionali, intelligenti e divini: e non è savio che dica me effettuar col mio braccio sopra cose prive di raggione ed intelletto, quai sono le pietre, le bestie, gli fanciulli, gli forsennati ed altri che non hanno apprensione di causa finale e non possono oprare per il fine. - Te dirò, disse Minerva, o Fortuna, per qual caggione ti dicono senza discorso e raggione. A chi manca qualche senso, manca qualche scienza, e massime quella che è secondo quel senso. Considera di te, tu ora essendo priva del lume de gli occhi, li quali son la massima causa della scienza. - Rispose la Fortuna, che Minerva o s'ingannava lei, o voleva ingannar la Fortuna; e si confidava di farlo, perché la vedea cieca: -Ma, quantunque io sia priva d'occhio, non son però priva.d'orecchio ed intelletto, - gli disse.


•Saulino•  E credi che sia vero questo, o Sofia?


•Sofia•
 Ascolta, e vedrai come sa distinguere, e come non gli sono occolte le filosofie e, tra l'altre cose, la Metafisica d'Aristotele. - Io, diceva, so che si trova chi dica la vista essere massimamente desiderata per il sapere; ma giamai conobbi sì stolto che dica la vista fare massimamente conoscere. E quando alcuno disse, quella essere massimamente desiderata, non voleva per tanto, che quella fusse massimamente necessaria, se non per la cognizione di certe cose: quai sono colori, figure, simmetrie corporali, bellezze, vaghezze ed altre visibili che più tosto sogliono perturbar la fantasia ed alienar l'intelletto; ma non che fusse necessaria assolutamente per le tutte o megliori specie di cognizione, perché sapea molto bene che molti, per dovenir sapienti, s'hanno cavati gli occhi; e di quei che o per sorte o per natura son stati ciechi, molti son visti più mirabili, come ti potrei mostrar assai Democriti, molti Tiresii, molti Omeri e molti come il Cieco d'Adria. Appresso credo che sai distinguere, se sei Minerva, che, quando un certo filosofo Stagirita disse che la vista è massimamente desiderata per il sapere, non comparava la vista con altre specie di mezzi per conoscere, come con l'udito, con la cogitazione, con l'intelletto; ma facea comparazione tra questo fine de la vista, che è il sapere, e altro fine, che la medesima si possa proponere. Però, se non ti rincresce d'andar sin ai campi Elisii a raggionar con lui (se pur non ha indi fatta partenza per altra vita, e bevuto de l'onde di Lete), vedrai che lui farà questa chiosa: Noi desideramo la vista massime per questo fine di sapere; e non quell'altra: Noi desideramo tra gli altri sensi massime la vista per sapere.


•Saulino•  È maraviglia, o Sofia, che la Fortuna sappia discorrere meglio, e meglio intender gli testi che Minerva, la quale è soprastante a queste intelligenze.


•Sofia•
 Non ti maravigliare; perché, quando profondamente considerarai, e quando pratticarai e conversarai ben bene, trovarai che li graduati dei de le scienze e de l'eloquenze e de gli giudizii non sono più giudiziosi, più savi e più eloquenti de gli altri. Or, per seguitare il proposito della causa sua, che faceva la Fortuna nel senato, disse, parlando a tutti: - Niente, niente, o dei, mi toglie la cecità, niente che vaglia, niente che faccia alla perfezione de l'esser mio; per ciò che, s'io non fusse cieca, non sarei Fortuna, e tanto manca che per questa cecità possiate disminuire o attenuar la gloria di miei meriti, che da questa medesima prendo argumento della grandezza ed eccellenza di quelli: atteso che da quella verrò a convencere ch'io sono meno astratta da gli atti della considerazione, e non posso esser ingiusta nelle distribuzioni. - Disse Mercurio a Minerva: - Non arrai fatto poco, quando arrai dimostrato questo. - E soggionse la Fortuna: - Alla mia giustizia conviene essere tale; alla vera giustizia non conviene, non quadra, anzi ripugna ed oltraggia l'opra de gli occhi. Gli occhi son fatti per distinguere e conoscere le differenze (non voglio per ora mostrar quanto sovente per la vista sono ingannati quei che giudicano); io sono una giustizia che non ho da distinguere, non ho da far differenze; ma come tutti sono principalmente, realmente e finalmente uno ente, una cosa medesima (perché lo ente, uno e vero son medesimo), cossì ho da ponere tutti in certa equalità, stimar tutti parimente, aver ogni cosa per uno, e non esser più pronta a riguardare, a chiamar uno che un altro, e non più disposta a donar ad uno che ad un altro, ed essere più inclinata al prossimo che al lontano. Non veggio mitre, toghe, corone, arti, ingegni; non scorgo meriti e demeriti; perché, se pur quelli si trovano, non son cosa da natura altra ed altra in questo ed in quello, ma certissimamente per circostanze ed occasione, o accidente che s'offre, si rancontra e scorre in questo o in quello; e però, quando dono, non vedo a chi dono; quando toglio, non vedo a chi toglio: acciò che in questo modo io vegna a trattar tutti equalmente e senza differenza alcuna. E con questo certamente io vegno ad intendere e fare tutte le cose equali e giuste, e giusta- ed equalmente dispenso a tutti. Tutti metto dentro d'un'urna, e nel ventre capacissimo di quella tutti confondo, inbroglio ed exagito; e poi, zara a chi tocca; e chi l'ha buona, ben per lui, e chi l'ha mala, mal per lui! In questo modo, dentro l'urna de la Fortuna non è differente il più grande dal più picciolo; anzi là tutti sono equalmente grandi ed equalmente piccioli, perché in essi s'intende differenza da altri che da me: cioè prima che entrino ne l'urna, e dopo che esceno da l'urna. Mentre son dentro, tutti vegnono dalla medesima mano, nel medesimo vase, con medesima scossa isvoltati. Però, quando poi si prendeno le sorti, non è raggionevole che colui, a chi tocca mala riuscita, si lamente o di chi tiene l'urna, o de l'urna, o de la scossa, o di chi mette la mano a l'urna; ma deve, con la meglior e maggior pazienza ch'ei puote, comportar quel ch'ha disposto e come ha disposto, o è disposto il Fato: atteso che, quanto al rimanente, lui è stato equalmente scritto, la sua schedula era uguale a quella de tutti gli altri, è stato parimente annumerato, messo dentro, scrollato. Io dunque, che tratto tutto il mondo equalmente, e tutto ho per una massa, di cui nessuna parte stimo più degna ed indegna de l'altra, per esser vase d'opprobrio; io che getto tutti nella medesima urna della mutazione e moto, sono equale a tutti, tutti equalmente remiro, o non remiro alcuno particulare più che l'altro, vegno ad esser giustissima ancor ch'a tutti voi il contrario appaia. Or che a la mano, che s'intrude a l'urna, prende e cava le sorti, per chi tocca il male, e per chi tocca il bene, occorra gran numero d'indegni e raro occorrano meritevoli: questo procede dalla inequalità, iniquità ed ingiustizia di voi altri, che non fate tutti equali, e che avete gli occhi delle comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inequalità, ogni iniquitade; perché la dea Bontade non equalmente si dona a tutti; la Sapienza non si communica a tutti con medesima misura; la Temperanza si trova in pochi; a rarissimi si mostra la Veritade. Cossì voi altri numi buoni siete scarsi, siete parzialissimi, facendo le distantissime differenze, le smisuratissime inequalitadi e le confusissime sproporzioni nelle cose particolari. Non sono, non son io iniqua, che senza differenza guardo tutti, ed a cui tutti sono come d'un colore, come d'un merito, come d'una sorte. Per voi aviene, che, quando la mia mano cava le sorti, occorrano più frequentemente, non solo al male, ma ancora al bene, non solo a gl'infortunii, ma ancora a le fortune, più per l'ordinario gli scelerati che gli buoni, più gl'insipidi che gli sapienti, più gli falsi che gli veraci. Perché questo? perché? Viene la Prudenza e getta ne l'urna non più che doi o tre nomi; viene la Sofia e non ve ne mette più che quattro o cinque; viene la Verità e non ve ne lascia più che uno, e meno, se meno si potesse: e poi di cento millenarii che son versati ne l'urna, volete che alla sortilega mano più presto occorra uno di questi otto o nove, che di otto o novecento mila. Or fate voi il contrario! Fa', dico, tu, Virtù, che gli virtuosi sieno più che gli viziosi; fa' tu, Sapienza, che il numero de savii sia più grande che quello de stolti; fa' tu, Verità, che vegni aperta e manifesta a la più gran parte: e certo certo a gli ordinarii premii e casi incontraranno più de le vostre genti che de gli loro oppositi. Fate che sieno tutti giusti, veraci, savii e buoni; e certo certo non sarà mai grado o dignità ch'io dispense, che possa toccare a buggiardi, a iniqui, a pazzi. Non son, dunque, più ingiusta io che tratto e muovo tutti equalmente, che voi altri che non fate tutti equali. Tal che, quando aviene che un poltrone o forfante monta ad esser principe o ricco, non è per mia colpa, ma per iniquità di voi altri che, per esser scarsi del lume e splendor vostro, non lo sforfantaste o spoltronaste prima, o non lo spoltronate e sforfantate al presente, o almeno appresso lo vegnate a purgar della forfantesca poltronaria, a fine che un tale non presieda. Non è errore che sia fatto un prencipe, ma che sia fatto prencipe un forfante. Or essendo due cose, cioè principato e forfantaria, il vizio certamente non consiste nel principato che dono io, ma ne la forfanteria, che lasciate esser voi. Io perché muovo l'urna e caccio le sorti, non riguardo più a lui che ad un altro; e però non l'ho determinato prima ad esser principe o ricco (benché bisogna che determinatamente alla mano uno occorra tra tutti gli altri); ma voi, che fate le distinzioni, con gli occhi mirando e communicandovi a chi più ed a chi meno, a chi troppo ed a chi niente, siete venuti a lasciar costui determinatamente forfante e poltrone. Se dunque, la iniquità consiste non in fare un prencipe, e non in arricchirlo, ma in determinare un suggetto di forfantaria e poltronaria, non verrò io ad essere iniqua, ma voi. Ecco dunque, come il Fato m'ha fatto equissima, e non mi può aver fatta iniqua, perché mi fa essere senz'occhi, a fin che per questo vegna a posser equalmente graduar tutti. - Qua soggionse Momo dicendo: -Non ti diciam iniqua per gli occhi, ma per la mano. - A cui quella rispose: - Né meno per la mano, o Momo; perché non son più io causa del male, che le prendo come vegnono, che quelli che non vegnono come le prendo: voglio dire, che non vegnono cossì senza differenza come senza differenza le piglio. Non son io causa del male, se le prendo come occorreno; ma essi che mi se presentano quali sono, ed altri che non le fanno essere altrimente. Non son perversa io, che cieca indifferentemente stendo la mano a quel che si presenta chiaro o oscuro, ma chi tali le fa, e chi tali le lascia, e me l'invia. - Momo suggionse: - Ma, quando tutti venessero indifferenti, uguali e simili, non mancareste per tanto ad essere pur iniqua: perché, essendo tutti equalmente degni di prencipato, tu non verrai a farli tutti prencipe, ma un solo tra quelli. - Rispose sorridendo la Fortuna: -Parliamo, o Momo, de chi è ingiusto, e non parliamo de chi sarrebe ingiusto. E certo, con questo tuo modo di proponere o rispondere, tu mi pari assai a sufficienza convitto, poiché da quel che è in fatto, sei proceduto a quel che sarrebe; e da quel che non puoi dire ch'io sono iniqua, vai a dire ch'io sarrei iniqua. Rimane dunque, secondo la tua concessione, ch'io son giusta, ma sarrei ingiusta; e che voi siete ingiusti, ma sarreste giusti. Anzi, a quel ch'è detto aggiongo, che non solamente non sono, ma né pure sarrei men giusta allora, quando voi m'offressi tutti uguali; perché, quanto a quello che è impossibile, non s'attende giustizia né ingiustizia. Or non è possibile che un principato sia donato a tutti; non è possibile che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch'a tutti sia ugualmente offerta. Da questo possibile séguita il necessario, cioè che de tutti bisogna che riesca uno; ed in questo non consiste l'ingiustizia ed il male; perché non è possibile che sia più ch'uno; ma l'errore consiste in quel che séguita, cioè che quell'uno è vile, che quell'uno è forfante, che quell'uno non è virtuoso; e di questo male non è causa la Fortuna che dona l'esser prencipe ed esser facultoso; ma la dea Virtù che non gli dona, né gli donò esser virtuoso. - Molto eccellentemente ha fatte le sue raggioni la Fortuna, disse il padre Giove, e per ogni modo mi par degna d'aver sedia in cielo; ma ch'abbia una sedia propria, non mi par convenevole, essendo che non n'ha meno che sono le stelle; perché la Fortuna è in tutte quelle non meno che ne la terra, atteso che quelle non manco son mondi che la terra. Oltre, secondo la generale esistimazion de gli uomini, da tutte si dice pendere la Fortuna: e certo, se avessero più copia d'intelletto, direbono qualche cosa di vantaggio. Però (dica Momo quel che gli piace), essendo che le tue raggioni, o Dea, mi paiono pur troppo efficaci, conchiudo che, se non offriranno in contrario de la tua causa altre allegazioni, che vagliano più di queste sin ora apportate, io non voglio ardire di definirti stanza, come già volesse astrengerti o relegarti a quella; ma ti dono, anzi ti lascio in quella potestà che mostri avere in tutto il cielo: poi che per te stessa tu hai tanta autorità, che puoi aprirti que' luoghi che son chiusi a Giove istesso insieme con tutti gli altri dei. E non voglio dir più circa quello per il che ti siamo tutti insieme ubligati assai assai. Tu, disserrando tutte le porte, ed aprendoti tutt'i camini e disponendoti tutte le stanze, fai tue tutte le cose aliene; e però non manca che le sedie che son degli altri, non siano pur tue; per ciò che quanto è sotto il fato della mutazione, tutto tutto passa per l'urna, per la rivoluzione e per la mano de l'eccellenza tua.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spaccio della Bestia Trionfante

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Dialogo Terzo Parte 1Dialogo Terzo Parte 2Dialogo Terzo Parte 3

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