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Dialogo Primo – Seconda Parte - Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.
Ora, perché non è consuetudine, né pur molto lecito a gli altri dei di disputar con Momo, Giove, avendolo con un mezzo ed alquanto dispettoso riso remirato, senza punto rispondergli, monta su l'alta catedra, siede, remira in cerchio la corona de l'assistente gran Senato. Da quel sguardo convien ch'a tutti venesse a palpitar il core e per scossa di maraviglia e per punta di timore e per émpito di riverenza e di rispetto, che suscita ne' petti mortali ed immortali la maestade quando si presenta; appresso, avendo alquanto bassate le palpebre, e poco dopo allunate le pupille in alto, e sgombrato un focoso suspiro dal petto, proruppe in questa sentenza:
Orazione di Giove. - Non aspettate, o Dei, che, secondo la mia consuetudine, v'abbia ad intonar ne l'orecchio con uno artificioso proemio, con un terso filo di narrazione e con un delettevole agglomeramento epilogale. Non sperate ornata tessitura di paroli, ripolita infilacciata di sentenze, ricco apparato di eleganti propositi, suntuosa pompa di elaborati discorsi e, secondo l'instituto di oratori, concetti posti tre volte a la lima prima ch'una volta a la lingua: non hoc. Non hoc ista sibi tempus spectacula poscit. Credetemi, dei, perché credete il vero, già dodici volte ha ripiene l'inargentate corna la casta Lucina, ch'io son stato in la determinazione di far questa congregazione oggi, in questa ora e con tai termini che vedete. Ed in questo mentre son stato più occupato sul considerar quello che devo a nostro mal grado tacere, che mi sia stato lecito di premeditar sopra quello che debbo dire.
Odo che vi maravigliate, perché a questo tempo, rivocandovi da vostro spasso, v'abbia fatto citar alla congregazione e dopo pranso a subitanio concilio. Vi sento mormorare, che in giorno festivo vi vien tocco il core di cose seriose, e non è di voi chi a la voce de la tromba e proposito de l'editto non sia turbato. Ma io, benché la raggione di queste azioni e circostanze pende dal mio volere che l'ha possute instituire, e la mia voluntà e decreto sia l'istessa raggione de la giustizia, tutta volta non voglio mancar, prima che proceda ad altro, di liberarvi da questa confusione e maraviglia. Tardi, dico, gravi e pesati denno essere gli proponimenti; maturo, secreto e cauto deve essere il conseglio: ma l'essecuzione bisogna che sia alata, veloce e presta. Però non credete, che intra il desinare qualche strano umore m'abbia talmente assalito che, dopo pranso, mi tegna legato e vinto, onde non a posta di raggione, ma per impeto di nettareo fumo proceda a l'azione; ma dal medesimo giorno de l'anno passato cominciai a consultar entro di me quel tanto che dovevo esseguire in questo giorno ed ora. Dopo pranso, dunque, perché le nove triste non è costume d'apportarle a stomaco diggiuno; all'improviso, perché so molto bene che non cossì come alla festa solete convenir volentieri al conseglio, il quale è intensissimamente da molti di voi fuggito: mentre chi lo teme per non farsi di nemici, chi per incertezza di chi vince e di chi perde, chi per timore ch'il suo conseglio non sia tra dispreggiati, chi per dispetto per quel che il suo parere tal volta non è stato approvato, chi per mostrarsi neutrale nelle cause pregiudiciose o de l'una o de l'altra parte, chi per non aver occasione d'aggravarsi la conscienza: chi per una, chi per un'altra causa.
Or vi ricordo, o fratelli e figli, che a quelli, ai quali il fato ha dato di posser gustare l'ambrosia e bevere il nettare e goder il grado della maestade, è ingionto ancora di comportar tutte gravezze che quella apporta seco. Il diadema, la mitra, la corona, senza aggravarla, non onorano la testa; il manto regale ed il scettro non adornano senza impacciar il corpo. Volete sapere perché io a ciò abbia impiegato il giorno di festa, e specialmente tale quale è la presente? Pare a voi, dunque, pare a voi che sia degno giorno di festa questo? E credete voi che questo non deve essere il più tragico giorno di tutto l'anno? Chi di voi, dopo ch'arrà ben pensato, non giudicarà cosa vituperosissima di celebrar la commemorazion de la vittoria contra gli giganti a tempo che da gli sorgi de la terra siamo dispreggiati e vilipesi? Oh che avesse piaciuto a l'omnipotente irrefragabil fato, che allora fussemo stati discacciati dal cielo, quando la nostra rotta per la dignità e virtù di nemici non era vituperosa tanto; perché oggi siamo nel cielo peggio che se non vi fussemo, peggio che se ne fussemo stati discacciati, atteso che quel timor di noi, che ne rendea tanto gloriosi, è spento; la gran riputazione de la maestà, providenza e giustizia nostra è cassa; e quel che è peggio, non abbiamo facultà e forza di riparar al nostro male, di vendicar le nostre onte; perché la giustizia con la quale il fato governa gli governatori del mondo, ne ha a fatto tolta quella autorità e potestà la quale abbiamo tanto male adoperata, discoperti e nudati avanti gli occhi di mortali e fattigli manifesti i nostri vituperii; e fa che il cielo medesimo con cossì chiara evidenza, come chiare ed evidenti son le stelle, renda testimonianza de misfatti nostri. Perché vi si vedeno aperto gli frutti, le reliquie, gli riporti, le voci, le scritture, le istorie di nostri adulterii, incesti, fornicazioni, ire, sdegni, rapine ed altre iniquitadi e delitti; e che per premio di errori abbiamo fatto maggiori errori, inalzando al cielo i trionfi de vizii e sedie de sceleragini, lasciando bandite, sepolte e neglette ne l'inferno le virtudi e la giustizia.
E per cominciare da cose minori, come da peccati veniali: perché solo il Deltaton, dico quel triangolo, ha ottenute quattro stelle appresso il capo di Medusa, sotto le natiche di Andromeda e sopra le corna del Montone? per far vedere la parzialità, che si trova tra gli dei. Che fa il Delfino, gionto al Capricorno da la parte settentrionale, impadronito di quindeci stelle? vi è, a fine che si possa contemplar la assumpzione di colui, che è stato buon sanzale, per non dir ruffiano, tra Nettuno ed Amfitrite. Perché le sette figlie d'Atlante soprasiedeno appresso il collo del bianco Toro? per essersi, con lesa maestà di noi altri dei, vantato il padre di aver sostenuti noi ed il cielo ruinante; o pur per aver in che mostrar la sua leggerezza i numi, che vi l'han condotte. Perché Giunone ha ornato il Granchio di nove stelle, senza le quattro altre circonstanti che non fanno imagine? solo per un capriccio, perché forficò il tallone ad Alcide a tempo che combatteva con quel gigantone. Chi mi saprà dar altra caggione che il semplice ed irrazional decreto de' superi, perché il Serpentauro, detto da noi Greci Ofiulco, ottiene con la sua colobrina il campo di trentasei stelle? Qual grave ed opportuna caggione fa al Sagittario usurparsi trenta ed una stella? perché fu figlio di Euschemia, la quale fu nutriccia o baila de le Muse. Perché non più tosto a la madre? perché lui oltre seppe ballare e far i giuochi de le bagattelle. Aquario perché ha quaranta cinque stelle appresso il Capricorno? forse, perché salvò la figlia di Venere Facete nel stagno? Perché non altri, a gli quali noi dei siamo tanto ubligati, che sono sepolti in terra, ma più tosto costui, ch'ha fatto un serviggio indegno di tanta ricompensa, è stato conceduto quel spacio? perché cossì ha piaciuto a Venere.
Gli Pesci, benché meritino qualche Mercurio ede per aver dal fiume Eufrate cacciato quell'ovo, che, covato da la colomba, ischiuse la misericordia de la dea di Pafo, tutta volta paionvi soggetti d'ottenir l'ornamento di trentaquattro stelle, senza altre quattro circostanti, ed abitare fuor de l'acqui nella region più nobile del cielo? Che fa Orione, tutto armato a scrimir solo, con le spalancate braccia, impiastrato di trent'otto stelle, ne la latitudine australe verso il Tauro? vi sta per semplice capriccio di Nettuno, a cui non ha bastato di privilegiarlo su l'acqui, dove ha il suo legitimo imperio; ma oltre, fuor del suo patrimonio, si vuol con sì poco proposito prevalere. La Lepre, il Cane e la Cagnolina sapete ch'hanno quarantatré stelle ne la parte meridionale, non per altro, che per due o tre frascarie non minori che quella, che vi fa essere appresso la Idra, la Tassa ed il Corvo, che ottegnono quarant'ed una stella, per memoria di quel, che mandâro una volta gli dei il Corvo a prender l'acqua da bere; il qual per il camino vedde un fico, ch'avea le fiche o gli fichi (perché l'uno e l'altro geno è approvato da grammatici, dite come vi piace): per gola quell'ucello aspettò che fussero maturi, de quali al fine essendosi pasciuto, si ricordò de l'acqua; andò per empir la lancella, veddevi il dragone, abbe paura, e ritornò con la giarra vota agli dei. Li quali, per far chiaro quanto hanno ben impiegato l'ingegno ed il pensiero, hanno descritta in cielo questa istoria di sì gentile ed accomodato servitore. Vedete quanto bene abbiamo speso il tempo, l'inchiostro e la carta. La Corona austrina, che sotto l'arco e piedi di Sagittario si vede ornata di tredeci topacii lucenti, chi l'ha predestinata ad essere eternamente senza testa? Che bel vedere volete voi che sia di quel pesce Nozio, sotto gli piedi d'Aquario e Capricorno, distinto in dodici lumi, con sei altri che gli sono in circa? De l'Altare, o turribulo o fano o sacrario, come vogliam dire, io non parlo; perché giamai li convenne cossì bene d'essere in cielo, se non ora, che quasi non ha dove essere in terra; ora vi sta bene, come una reliquia, o pur come una tavola della sommersa nave de la religion e colto di noi. Del Capricorno non dico nulla, perché mi par dignissimo d'ottenere il cielo, per averne fatto tanto beneficio, insegnandoci la ricetta, con cui potessimo vencere il Pitone; perché bisognava, che gli dei si trasformassero in bestie, se volevano aver onor di quella guerra: e ne ha donata dottrina, facendoci sapere che non si può mantener superiore chi non si sa far bestia. Non parlo de la Vergine; perché, per conservar la sua verginità, in nessun loco sta sicura se non in cielo, avendo da qua un Leone e da là un Scorpione per sua guardia. La poverina è fuggita da terra, perché l'eccessiva libidine de le donne, le quali, quanto più son pregne, tanto più sogliono appetere il coito, fa che non sia sicura di non esser contaminata, anco se si trovasse nel ventre de la madre; però goda i suoi vintisei carbuncoli con quelli altri sei, che li sono attorno. Circa l'intemerata maestà di que' doi Asini che luceno nel spacio di Cancro, non oso dire, perché di questi massimamente per dritto e per raggione è il regno del cielo: come con molte efficacissime raggioni altre volte mi propono di mostrarvi, perché di tanta materia non ardisco parlare per modo di passaggio. Ma di questo sol mi doglio e mi lamento assai, che questi divini animali sieno stati sì avaramente trattati, non facendogli essere, come in casa propria, ma nell'ospizio di quel retrogrado animale aquatico, e non munerandoli più che de la miseria di due stelle, donandone una a l'uno e l'altra all'altro; e quelle non maggiori che de la quarta grandezza.
De l'Altare, dunque, Capricorno, Vergine ed Asini (benché prendo a dispiacere ch'ad alcuni di questi non essendo lor trattati secondo la dignità, in loco di essere fatto onore, forse gli è stato fatta ingiuria) or al presente non voglio definir cosa alcuna; ma torno a gli altri suppositi, che vanno per la medesima bilancia con gli sopradetti.
Non volete voi che murmurino gli altri fiumi, che sono in terra, per il torto che gli vien fatto? Atteso che, qual raggion vuole che più tosto l'Eridano deve aver le sue trenta e quattro lucciole, che si veggono citra ed oltre il tropico di Capricorno, più tosto che tanti altri non meno degni e grandi, ed altri più degni e maggiori? Pensate che basta dire che le sorelle di Fetone v'abbiano la stanza? O forse volete che vegna celebrato, perché ivi per mia mano cadde il fulminato figlio d'Apollo, per aver il padre abusato del suo ufficio, grado ed autoritade? Perché il cavallo di Bellerofonte è montato ad investirsi de vinti stelle in cielo, essendo che sta sepolto in terra il suo cavalcatore? A che proposito quella saetta, che per il splendor di cinque stelle, che tiene inchiodate, luce prossima a l'Aquila e Delfino? Certo, che se gli fa gran torto che non stia vicina al Sagittario a fin che se ne possa servire, quando arrà tirato quella che tiene in punta; o pur non appaia in parte dove possa rendere qualche raggion di sé. Apresso bramo intendere, tra il spoglio del Leone e la testa di quel bianco e dolce Cigno, che fa quella lira fatta di corna di bue in forma di testugine? Vorrei sapere, se la vi dimore per onor de la testugine, o de le corna, o de la lira, o pur perché ognun veda la mastria di Mercurio che l'ha fatta, per testimonio de la sua dissoluta e vana iattanzia?
Ecco, o dei, l'opre nostre; ecco le egregie nostre manifatture, con le quali ne rendemo onorati al cielo! Vedete che belle fabriche, non molto dissimili a quelle che sogliono far gli fanciulli, quando contrattano la luta, la pasta, le miscuglie, le frasche e festuche, tentando d'imitare l'opre di maggiori! Pensate, che non doviamo render raggione e conto di queste? Possete persuadervi, chede l'opre ociose sarremo meno richiesti, interrogati, giudicati e condannati, che dell'ociose paroli? La dea Giustizia, la dea Temperanza, la dea Constanza, la dea Liberalitade, la dea Pazienza, la dea Veritade, la dea Mnemosine, la dea Sofia e tante altre dee e dei vanno banditi non solo dal cielo, ma ed oltre da la terra; ed in loco loro e ne gli eminenti palaggi, edificati da l'alta Providenza per residenza loro, vi si veggono delfini, capre, corvi, serpenti ed altre sporcarie, levitadi, capricci e legerezze. Se vi par questa cosa inconveniente, e ne tocca il rimorso de la conscienza per il bene che non abbiam fatto; quanto più dovete meco considerare che doviamo esser punti e trafitti per le gravissime sceleraggini e delitti, che comessi avendono, non solamente non ne siamo ripentiti ed emendati, ma oltre ne abbiamo celebrati triomfi e drizzati come trofei, non in un fano labile e ruinoso, non in tempio terrestre, ma nel cielo e nelle stelle eterne. Si può patire, o dei, e facilmente si condona a gli errori, che son per fragilità, e per non molto giudiciosa levità; ma qual misericordia, qual pietate può rivoltarsi a quelli, che son commessi da color che, essendono posti presidenti nella giustizia, in Mercurio ede di criminalissimi errori, contribuiscono maggiori errori con onorare, premiar ed essaltar al cielo gli delitti insieme con gli delinquenti? Per qual grande e virtuoso fatto Perseo av'ottenute vintesei stelle? Per aver con gli talari e scudo di cristallo, che lo rendeva invisibile, in serviggio de l'infuriata Minerva ammazzate le Gorgoni che dormivano, e presentatogli il capo di Medusa. E non ha bastato che vi fusse lui, ma per lunga e celebre memoria bisognava che vi comparisse la moglie Andromeda con le sue vintitré, il suo genero Cefeo con le sue tredeci, che espose la figlia innocente alla bocca del Ceto per capriccio di Nettuno, adirato solamente perché la sua madre Cassiopea pensava essere più bella che le Nereidi. E però anco la madre vi si vede residente in catedra, ornata di tredeci altre stelle ne' confini de l'Artico circolo. Quel padre di agnelli con la lana d'oro, con le sue diece ed otto stelle senza l'altre sette circonstanti, che fa balando sul punto equinoziale? E forse ivi per predicar la pazzia e sciocchezza del re di Colchi, l'impudicizia di Medea, la libidinosa temeritade di Giasone e l'iniqua providenza di noi altri? Que' doi fanciulli, che nel signifero succedeno al Toro, compresi da diece e otto stelle, senza altre sette circonstanti informi, che mostrano di buono o di bello in quella sacra sedia, eccetto che il reciproco amore di doi bardassi? Per qual raggione il Scorpione ottiene il premio di venti ed una stelle, senza le otto che son ne le chele, e le nove che sono circa lui, e tre altre informi? Per premio d'un omicidio ordinato dalla leggerezza ed invidia di Diana, che gli fece uccidere l'emulo cacciator Orione. Sapete bene che Chirone con la sua bestia ottiene nella australe latitudine del cielo sessanta e sei stelle per esser stato pedante di quel figlio, che nacque dal stupro di Peleo e.Teti. Sapete che la corona di Ariadna, nella quale risplendeno otto stelle, ed è celebrata là, avanti il petto di Boote e le spire de l'angue, non v'è se non in commemorazione perpetua del disordinato amor del padre Libero, che s'imbracciò la figlia del re di Creta, rigettata dal suo stuprator Teseo.
Quel Leone, che nel core porta il basilisco, e che ottiene il campo di trenta e cinque stelle, che fa continuo al Cancro? Evi forse per esser gionto a quel suo conmilitone e suo conservo de l'irata Giunone, che lo apparecchiò vastatore del Cleoneo paese, a fine che, a mal grado di quello, aspetasse l'advenimento del strenuo Alcide? Ercole invitto, laborioso mio figlio, che col suo spoglio di leone e la sua mazza par che si difenda le vinti ed otto stelle, quali con più che mai altri abbia fatto tanti gesti eroici s'ha meritate, pure, a dire il vero, non mi par conveniente che tegna quel loco, onde il suo geno pone avanti gli occhi della giustizia il torto fatto al nodo coniugale della mia Giunone per me e per la pellice Megara, madre di lui. La nave di Argo, nella quale sono inchiodate quarantacinque risplendenti stelle, ne l'ampio spacio vicino al circolo Antartico, evi ad altro fine che per eternizare la memoria del grande errore che commese la saggia Minerva, che mediante quella instituì gli primi pirati a fine che, non meno che la terra, avesse gli suoi solleciti predatori il mare? E per tornar là dove s'intende la cintura del cielo, perché quel Bove, verso il principio del zodiaco, ottiene trenta e due chiare stelle, senza quella ch'è nella punta del corno settentrionale, ed undeci altre che son chiamate informi? Per ciò che è quel Giove (oimè!) che rubbò la figlia ad Agenore, la sorella a Cadmo. Che Aquila è quella che nel firmamento s'usurpa l'atrio di quindeci stelle, oltre Sagittario, verso il polo? Lasso, è quel Giove che ivi celebra il trionfo del rapito Ganimede e di quelle vittoriose fiamme ed amori. Quella Orsa, quella Orsa, o dei, perché nella più bella ed eminente parte del mondo, come in una alta specola, come in una più aprica piazza e più celebre spettacolo, che ne l'universo presentar si possa a gli occhi nostri, è stata messa? Forse a fine che non sia occhio, che non veda l'incendio ch'assalse il padre de gli dei appresso l'incendio de la terra per il carro di Fetonte, quando in quel mentre ch'andavo guardando le ruine di quel fuoco, e riparando a quelle con richiamare i fiumi che timidi e fugaci erano ristretti a le caverne, e ciò effettuando nel mio diletto Arcadio paese: ecco, altro fuoco m'accese il petto, che dal splendor del volto de la vergine Nonacrina procedendo, passommi per gli occhi, scorsemi nel core, scaldommi l'ossa e penetrommi dentro le midolla; di sorte che non fu acqua né remedio che potesse dar soccorso e refrigerio all'incendio mio. In questo foco fu il strale che mi trafisse il core, il laccio che mi legò l'alma, e l'artiglio che mi tolse a me e diemmi in preda alla beltà di lei. Commesi il sacrilego stupro, violai la compagnia di Diana e fui a la mia fidelissima consorte ingiurioso; per la quale in forma e specie d'una Orsa presentandomise la bruttura del fedo eccesso mio, tanto si manca che da quella abominevol vista io concepesse orrore, che sì bello mi parve quel medesimo mostro e sì mi soprapiacque, che volsi ch'il suo vivo ritratto fusse essaltato nel più alto e magnifico sito de l'architetto del cielo: quell'errore, quella bruttezza, quell'orribil macchia che sdegna ed abomina lavar l'acqua de l'Oceano, che Teti, per tema di contaminar l'onde sue, non vuol che punto s'avicine verso la sua stanza, Dictinna l'ha vietato l'ingresso di suoi deserti per tema di profanar il sacro suo collegio, e per la medesima caggione gli niegano i fiumi le Nereidi e Ninfe.
Io, misero peccatore, dico la mia colpa, dico la mia gravissima colpa, in conspetto de l'intemerata absoluta giustizia, e vostro, che sin al presente ho molto gravemente peccato, e per il mal essempio ho porgiuta ancor a voi permissione e facultà di far il simile; e con questo confesso che degnamente io insieme con voi siamo incorsi il sdegno del fato, che non ne fa più essere riconosciuti per dei, e mentre abbiamo a le sporcarie de la terra conceduto il cielo, ha dispensato ch'a noi fussero cassi gli tempii, imagini e statue, ch'avevamo in terra; a fine che degnamente da alto vegnano depressi quelli, quali indegnamente han messe in alto le cose vili e basse.
Oimè, dei, che facciamo? che pensiamo? che induggiamo? Abbiamo prevaricato, siamo stati perseveranti ne gli errori, e veggiamo la pena gionta e continuata con l'errore. Provedemo, dunque, provedemo a' casi nostri; perché, come il fato ne ha negato il non posser cadere, cossì ne ha conceduto il possere risorgere; però come siamo stati pronti al cascare, cossì anco siamo apparecchiati a rimetterci su gli piedi. Da quella pena nella quale mediante l'errore siamo incorsi, e peggior della quale ne potrebe sopravenire, mediante la riparazione, che sta nelle nostre mani, potremo senza difficultade uscire. Per la catena de gli errori siamo avinti; per la mano della giustizia ne disciogliamo. Dove la nostra levità ne ha deprimuti, indi bisogna che la gravità ne inalze. Convertiamoci alla giustizia, dalla quale essendo noi allontanati, siamo allontanati da noi stessi; di sorte che non siamo più dei, non siamo più noi. Ritorniamo dunque a quella, se vogliamo ritornare a noi.
L'ordine e maniera di far questo riparamento è che prima togliamo da le nostre spalli la grieve soma d'errori che ne trattiene; rimoviamo d'avanti gli nostri occhi il velo de la poca considerazione, che ne impaccia; isgombramo dal core la propria affezione, che ne ritarda; gittiamo da noi tutti que' vani pensieri che ne aggravano; adattiamoci a demolire le machine di errori ed edificii di perversitade che impediscono la strada ed occupano il camino; cassiamo ed annulliamo, quanto possibil fia, gli trionfi e trofei di nostri facinorosi gesti, a fine che appaia nel tribunal della giustizia verace pentimento di commessi errori. Su, su, o dei, tolgansi dal cielo queste larve, statue, figure, imagini, ritratti, processi ed istorie de nostre avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte. Che passe, che passe questa notte atra e fosca di nostri errori, perché la vaga aurora del novo giorno de la giustizia ne invita; e disponiamoci di maniera tale al sole, ch'è per uscire, che non ne discuopra cossì come siamo immondi. Bisogna mondare e renderci belli; non solamente noi, ma anco le nostre stanze e gli nostri tetti fia mestiero che sieno puliti e netti: doviamo interiore- ed esteriormente ripurgarci. Disponiamoci, dico, prima nel cielo che intellettualmente è dentro di noi, e poi in questo sensibile che corporalmente si presenta a gli occhi. Togliemo via dal cielo de l'animo nostro l'Orsa della difformità, la Saetta de la detrazione, l'Equicolo de la leggerezza, il Cane de la murmurazione, la Canicola de l'adulazione. Bandiscasi da noi l'Ercole de la violenza, la Lira de la congiurazione, il Triangolo de l'impietà, il Boote de l'inconstanza, il Cefeo de la durezza. Lungi da noi il Drago de l'invidia, il Cigno de l'imprudenza, la Cassiopea de la vanità, l'Andromeda de la desidia, il Perseo della vana sollecitudine. Scacciamo l'Ofiulco de la maldizione, l'Aquila de l'arroganza, il Delfino de la libidine, il Cavallo de l'impacienza, l'Idra de la concupiscenza. Togliemo da noi il Ceto de l'ingordiggia, l'Orione de la fierezza, il Fiume de le superfluitadi, la Gorgone de l'ignoranza, la Lepre del vano timore. Non ne sia oltre dentro il petto l'Argonave de l'avarizia, la Tazza de l'insobrietà, la Libra de l'iniquità, il Cancro del mal regresso, il Capricorno de la decepzione. Non fia che ne s'avicine il Scorpio de la frode, il Centauro de la animale affezione, l'Altare de la superstizione, la Corona de la superbia, il Pesce de l'indegno silenzio. Con questi caggiano gli Gemini de la mala familiaritade, il Toro de la cura di cose basse, l'Ariete de l'inconsiderazione, il Leone de la Tirannia, l'Aquario de la dissoluzione, la Vergine de l'infruttuosa conversazione, il Sagittario de la detrazione. Se cossì, o dei, purgaremo la nostra abitazione, se cossì renderemo novo il nostro cielo, nove saranno le costellazioni ed influssi, nove l'impressioni, nove fortune; perché da questo mondo superiore pende il tutto, e contrarii effetti sono dependenti da cause contrarie. O felici, o veramente fortunati noi, se farremo buona colonia del nostro animo e pensiero! A chi de voi non piace il presente stato, piaccia il presente conseglio. Se vogliamo mutar stato, cangiamo costumi. Se vogliamo che quello sia buono e megliore, questi non sieno simili o peggiori. Purghiamo l'interiore affetto, atteso che da l'informazione di questo mondo interno non sarà difficile di far progresso alla riformazione di questo sensibile ed esterno. La prima purgazione, o dei, veggio che la fate, veggio che l'avete fatta; la vostra determinazione io la veggio; ho vista la vostra determinazione, la è fatta; ed è subito fatta, perché la non è soggetta a' contrapesi del tempo.
Or su, procediamo alla seconda purgazione. Questa è circa l'esterno, corporeo, sensibile e locato. Però bisogna che vada con certo discorso, successione ed ordine; però bisogna aspettare, conferir una cosa con l'altra, comparar questa raggione con quella, prima che determinare; atteso che circa le cose corporali, come in tempo è la disposizione, cossì non può essere, come in uno instante, l'essecuzione. Eccovi dunque il termine di tre giorni, dove non avete da decidere e determinare infra di voi, se questa riforma si debba fare o non; perché per ordinanza del fato, subito che vi l'ho proposta, insieme l'avete giudicata convenientissima, necessaria ed ottima; e non in segno esteriore, figura ed ombra, ma realmente ed in verità veggio il vostro affetto, come voi reciprocamente vedete il mio; e non men subito ch'io v'ho tocco l'orecchio col mio proponimento, voi col splendor del consentimento vostro m'avete tocchi gli occhi. Resta dunque che pensiate e conferite infra di voi circa la maniera, con cui s'ha da provedere a queste cose che si toglieno dal cielo, per le quali fia mestiero procacciare ed ordinar altri paesi e stanze; ed oltre, come s'hanno da empire queste sedie a fin che il cielo non rimagna deserto, ma megliormente colto ed abitato che prima. Passati che saranno gli tre giorni, verrete premeditati in mia presenza circa loco per loco e cosa per cosa, acciò che, non senza ogni possibile discussione, conveniamo il quarto giorno a determinare e pronunziar la forma di questa colonia. Ho detto.
Cossì, o Saulino, il padre Giove toccò l'orecchio, accese il spirto e commosse il core del Senato e Popolo celeste, che lui medesimo apertamente ne' volti e gesti s'accorse, mentre orava, che nella mente loro era conchiuso e determinato quel tanto che da lui lor venia proposto. Avendo dunque fatta la ultima clausola ed imposto silenzio al suo dire il gran Patriarca degli dei, tutti con una voce e con un tuono dissero: - Molto volentieri, o Giove, consentemo d'effettuar quel tanto che tu hai proposto e veramente ha predestinato il fato. - Qua succese il fremito de la moltitudine, qua apparendo segno d'una lieta risoluzione, là d'un volenteroso ossequio, qua d'un dubio, là d'un pensiero, qua un applauso, là un scrollar di testa di qualche interessato, ivi una specie di vista, e quivi un'altra, sin tanto che, gionta l'ora di cena, chi da questo lato si retirò, e chi da quell'altro.
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Spaccio della Bestia Trionfante ▪ Epistola Esplicatoria ▪ Dialogo Primo parte 1 ▪ Dialogo Primo parte 2 ▪ Dialogo Primo parte 3 ▪ ▪ Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2 ▪ Dialogo Secondo Parte 3 ▪ ▪ Dialogo Terzo Parte 1 ▪ Dialogo Terzo Parte 2 ▪ Dialogo Terzo Parte 3 ▪ Musica: "Licet eger cum egrotis" (Carmina Burana secolo XIII) |