| |||
Dialogo Terzo – Seconda Parte - Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.
Propose appresso Momo a Mercurio quel che volesse fare del Serpentauro, perché gli parea buono ed accomodato per inviarlo a far il Marso chiarlatano, avendo quella grazia di maneggiar senza timore e periglio un tale e tanto serpente. Propose anco del serpente al radiante Apolline, se lo volea per cosa da servire a' suoi maghi e malefici, come è dire alle sue Circe e Medee per esecutar gli veneficii; o ver lo volea concedere a' suoi medici, come è dire ad Esculapio per farne tiriaca. Propose oltre a Minerva, se quest'uno gli avesse possuto servire per inviarlo a far vendetta di qualche risorto nemico Laocoonte. - Prendalo chi lo vuole, disse il gran Patriarca; e facciane quel che si voglia, tanto del serpe, quanto de l'Ofiulco, pur che si tolgano da là; ed in suo luogo succeda la Sagacità, la qual suole vedersi ed admirarsi nel Serpente. - Succeda dunque la Sagacitade, dissero tutti, atteso che non è men degna del cielo che la sua sorella Prudenza; perché dove quella sa comandare e mettere in ordine quel che s'è da fare e lasciare per venire a qualche dissegno, questa sappia prima e poi giudicare per forza di buona intelligenza, che la è; e discaccia la Grossezza, Inconsiderazione ed Ebetudine da le piazze, dove le cose si metteno in dubio o in consultazione. Dalli vasi della sapienza imbeva il sapere, onde concepa e parturisca atti di Prudenza.
Della Saetta, disse Momo, perché io mai fui curioso di saper a chi appartenesse, cioè, se fusse quella con cui Apolline uccise il gran Pitone, o pur quella per cui madonna Venere fece al suo poltroncello impiagar il feroce Marte, che per vendetta poi a quella cruda ficcò un pugnal sotto la pancia in sino a l'elsa; o pur una memorabile con la qual Alcide dismese la Regina de le Stimfalidi; o l'altra per cui l'apro Calidonio dié l'ultimo crollo; o ver sia reliquia o trofeo di qualche trionfo di Diana la castissima. Sia che si vuole, riprendesila il suo padrone, e se la ficche là dove gli piace.
Bene, rispose Giove, tolgasi da là insieme con la Insidia, la Calumnia, la Detrazione, atto de Invidia, e la Maldicenza; ed ivi succeda la buona Attenzione, Observanza, Elezione e Collimazion di regolato intento. E soggionse: De l'Aquila, ucello divino ed eroico e tipo de l'Imperio, io determino e voglio cossì, che vada a ritrovarsi in carne ed in ossa nella bibace Alemagna: dove più che in altra parte si trovarà celebrata in forma, in figura, in imagine ed in similitudine, in tante pitture, in tante statue, in tante celature, quanto nel cielo stelle si possono presentar a gli occhi de la Germania contemplativa. La Ambizione, la Presunzione, la Temeritade, la Oppressione, la Tirannia ed altre compagne e ministre di queste dee non bisogna che le mene seco là dove li bisognarebbe a tutte star in ocio; percioché la campagna non è troppo larga per esse; ma prendano il suo volo lungi da quel diletto almo paese, dove gli scudi son le scudelle, le celate son le pignatte e lavezzi, gli brandi son l'ossa inguainate in carne salata, le trombe son gli becchieri, urcioli e gli bocali, gli tamburi son gli barilli e botte, il campo è la tavola da bere, volsi dir da mangiare; le forterezze, gli baloardi, gli castegli, li bastioni son le cantine, le popine, le ostarie, che son di più gran numero che le stanze medesime. - Qua Momo disse: - Perdonami, gran padre, s'io t'interrompo il parlare. A me pare che queste dee compagne e ministre, senza che vi le mandi, vi si trovano; perché l'Ambizione circa l'essere superiore a tutti in farsi porco; la Presunzione del ventre, che pretende di ricevere non meno di alto che da alto vaglia mandar a basso il gorgazuolo; la Temeritade, con cui vanamente il stomaco tenta digerire quel che or ora, presto presto è necessario di vomire; la Oppressione de sensi e natural calore; la Tirannia della vita vegetativa, sensitiva ed intellettiva regnano più in questa sola che in tutte l'altre parti di questo globo. - È vero, o Momo, soggionse Mercurio; ma tali Tirannie, Temeritadi, Ambizioni ed altre simili cacodee, con le loro cacodemonesse, non son punto aquiline, ma da sanguisughe, pacchioni, sturni e ciacchi. Appresso, per venire al proposito della sentenza di Giove, la mi par molto pregiudiziosa alla condizione, vita e natura di questo regio ucello; il quale, perché poco beve e molto mangia e vora, perché ha gli occhi tersi e netti, perché è veloce nel corso, perché e con la levità de l'ali sue sopravola al cielo ed è abitante di luoghi secchi, sassosi, alti e forti, non può aver simbolo ed accordo con generazion campestre; ed a cui la doppia soma degli bragoni par che a forte contrapeso le impiomba verso il profondo e tenebroso centro; e che si fa gente sì tarda e greve, non tanto inetta a perseguitare e fuggire, quanto buona a tener fermo ne le guerre; e che per la gran parte è soggetta al mal degli occhi, e che incomparabilmente più beve che mangia. - Quel che ho detto, è detto, rispose Giove. Dissi, che vi si presente in carne ed in ossa per veder gli suoi ritratti; ma non già, che vi stia come in prigione, o che manca di trovarsi là, dovunque è in spirito e veritade con altre e più degne raggioni con gli già detti numi: e questa sedia gloriosa lancie a tutte quelle virtudi, de le quali può esser stata vicaria: come è dire, a la dea Magnanimità, Magnificenza, Generosità ed altre sorelle e ministre di costoro. Or che faremo, disse Nettuno, di quel Delfino? Piacevi ch'io lo metta nel mar di Marseglia, onde per il Rodano fiume vada e rivegna a volte a volte, visitando e rivisitando il Delfinato? - Cossì si faccia presto, disse Momo; perché, a dire il vero, non mi par cosa meno da ridere, se alcuno
Delphinum caelis appinxit, fluctibus aprum,
che se
Delphinum sylvis appinxit, fluctibus aprum.
Vada, dove piace a Nettuno, disse Giove; ed in suo luogo succeda la figurata Dilezione, Affabilità, Officio con gli suoi compagni e ministri. - Dimandò Minerva che il cavallo Pegaseo, lasciando le vinti lucide macchie e la Curiositade, se ne vada al fonte caballino già per molto tempo confuso, destrutto ed inturbidato da bovi, porci ed asini; e veda, se con gli calci e denti possa far tanto che vendiche quel loco da sì villano concorso: a fin che le Muse, veggendo l'acqua del fonte posta in buono ordine e rassettata, non si sdegnino di ritornarvi, e farvi gli lor collegii e promozioni. Ed in questo luogo del cielo succeda il Furor divino, il Rapto, l'Entusiasmo, il Vaticinio, il Studio ed Ingegno con gli lor cognati e ministri, onde eternamente da su l'acqua divina, per lavar gli animi ed abbeverar gli affetti, stille a gli mortali. - Tolgasi, disse Nettuno, questa Andromeda, se cossì piace a voi dei; la quale per la mano de l'Ignoranza è stata avinta al scoglio dell'Ostinazione con la catena di perverse raggioni e false opinioni, per farla traghiuttir dal ceto della perdizione e final ruina, che per l'instabile e tempestoso mare va discorrendo; e sia commessa alle provide ed amiche mani del sollecito, laborioso ed accorto Perseo, ch'avendola indi disciolta e tolta, dall'indegna cattività la promova al proprio degno acquisto. E di quel che deve succedere al suo loco tra le stelle dispona Giove. - Là, rispose il padre de gli dei, voglio che succeda la Speranza, quella che, co' l'aspettar frutto degno delle sue opre e fatiche, non è cosa tanto ardua e difficile a cui non accenda gli animi tutti, i quali aver possono senso di qualche fine. - Succeda, rispose Pallade, quel santissimo scudo del petto umano, quel divino fundamento de tutti gli edificii di bontade, quel sicurissimo riparo della Veritade; quella che per strano accidente qualsivoglia mai si diffida, perché sente in sé stessa gli semi della propria sufficienza, li quali da quantunque violento polso non gli possono essere defraudati; quella in virtù della quale è fama che Stilbone vencesse la vittoria de' nemici; quel Stilbone, dico, il quale scampato da le fiamme che gl'incinerivano la patria, la casa, la moglie, i figli e le facultadi, a Demetrio rispose aver tutte le cose sue seco, perché seco avea quella Fortezza, quella Giustizia, quella Prudenza, per quali meglio possea sperar consolazione, scampo e sustegno di sua vita; e per le quali facilmente il dolce di questa sprezzarebbe. - Lasciamo questi colori, disse Momo, e vengasi presto a veder quello che si de' fare di quel Triangolo o Delta. - Rispose la astifera Pallade: - Mi par degno che sia messo in mano del Cardinal di Cusa, a fin che colui veda, se con questo possa liberar gli impacciati geometri da quella fastidiosa inquisizione della quadratura del circolo, regolando il circolo ed il triangolo con quel suo divino principio della commensurazione e coincidenza de la massima e minima figura: cioè di quella che costa di minimo, e de l'altra che costa di massimo numero degli angoli. Portisi dunque questo trigono con un circolo ch'il comprende, e con un altro che da lui sia compreso; e con la relazione di queste due linee (de quali l'una dal centro va al punto della contingenzia del circolo interno con il triangolo esterno; l'altra dal medesimo centro si tende a l'uno de gli angoli del triangolo) vegna a compirsi quella tanto tempo e tanto vanamente cercata quadratura. Qua risorse Minerva, e disse: - Ma io, per non parer meno cortese a le Muse, voglio inviar a gli geometri incomparabilmente maggiore e meglior dono, che questo ed altro che sia sin ora donato; per cui il Nolano, al quale fia primieramente revelato, e dalla cui mano venga diffuso alla moltitudine, mi debbia non solamente una, ma cento ecatombi; perché in virtù della contemplazion de l'equità che si trova tra il massimo e minimo, tra l'extimo ed intimo, tra il principio e fine, gli porgo una via più feconda, più ricca, più aperta e più sicura; la quale non solamente dimostre como il quadrato si fa uguale al circolo, ma, ed oltre, subito, ogni trigono, ogni pentagono, ogni exagono, e finalmente qualsivoglia e quantosivoglia poligònia figura; dove non meno fia uguale linea a linea che superficie a superficie, campo a campo, e corpo a corpo nelle solide figure.
Or definiscasi presto, disse Giove, di quel che vogliamo collocarvi. - Rispose Minerva: - Mi par, che vi stia bene la Fede e Sinceritade, senza la quale ogni contratto è perplesso e dubio, si dissolve ogni conversazione, ogni convitto si destrugge. Vedete a che è ridutto il mondo, per esser messo in consuetudine e proverbio, che per regnare non si osserva fede. Oltre: agl'infideli ed eretici non si osserva fede. Appresso: si franga la fede a chi la rompe. Or che sarà, se questo si mette in prattica da tutti? A che verrà il mondo, se tutte le republiche, regni, dominii, fameglie e particolari diranno, che si deve esser santo col santo, perverso col perverso? e si faranno iscusati d'esser scelerati, perché hanno il scelerato per compagno o vicino? e pensaranno che non doviamo forzarci ad esser buoni assolutamente, come fusseno dei, ma per commoditade ed occasione, come gli serpenti, lupi ed orsi, tossichi e veneni? - Voglio, soggionse il padre, che la Fede sia tra le virtudi celebratissima; e questa, se non sarà data con condizione d'un'altra fede, mai sia lecito di rompersi per la rottura de l'altra, atteso che è legge da qualche Giudeo e Sarraceno bestiale e barbaro, non da Greco e Romano civile ed eroico, che alcuna volta e con certe sorte di genti, sol per propria commoditade ed occasion d'inganno, sia lecito donar la fede, con farla ministra di tirannia e tradimento.
- Bene ordinato - risposero li dei tutti. E dimandò Giunone, che far volesse di quel suo Tauro, di quel suo bue, di quel consorte del santo Presepio. Alla quale rispose: -Se non vuole andar vicino a l'Alpi, alle rive del Po, dico alla metropoli del Piamonte, dove è la deliciosa città di Taurino, denominata da lui, come da Bucefalo Bucefalia, dalle capri l'isole che sono al rimpetto di Partenope verso l'occidente, Corveto in Basilicata da' corvi, Mirmidonia da le formiche, dal Delfino il Delfinato, da gli cinghiali Aprutio, Ofanto da' serpenti, ed Oxonia da non so qual altra specie; vada per compagno al prossimo Montone; dove (come testificano le lor carni che per la commodità dell'erbe fresche e delicatura de pascoli vegnono ad essere le più preggiate del mondo) ha gli più bei consorti che veder si possano nel rimanente del spacio de l'universo. - E dimandò Saturno del successore; a cui rispose così: - Per esser questo un animal, che dura alle fatiche, pazientemente laborioso, voglio che sin ora sia stato tipo della Pazienza, Toleranza, Sufferenza e Longanimitade, virtudi in vero molto necessarie al mondo; e quindi seco si partano (benché non mi curo che seco vadano o non vadano) l'Ira, l'Indignazione, il Furore, che sogliono accompagnarsi con questo talvolta stizzoso animale. Qua vedete uscir l'Ira figlia, che è parturita da l'apprension d'Ingiustizia ed Ingiuria; e partesi dolorosa e vendicativa, perché gli par inconveniente ch'il Dispreggio la guate e gli percuota le guance. Come ha gli occhi infocati rivolti a Giove, a Marte, a Momo, a tutti! Come li va a l'orecchio la Speranza de la vendetta, che la consola alquanto e l'affrena, con mostrargli il favor della Possibilitade minacciosa contra il Dispetto, la Contumelia ed il Strazio, suoi provocatori! Là l'Impeto, suo fratello, che gli dona forza, nerbo e fervore; là la Furia sorella, che l'accompagna con le tre sue figlie, cioè Excandescenzia, Crudeltade e Vecordia. O quanto è difficile e molesto di contemprarla e reprimerla! O quanto malaggiatamente può esser concotta e digerita da altri dei, che da te, Saturno; questa, che ha le narici aperte, la fronte impetuosa, la testa dura, gli denti mordaci, le labbia velenose, la lingua tagliente, le mani graffiose, il petto tossicoso, la voce acuta, ed il color sanguigno. - Qua Marte fece instanza per l'Ira, dicendo ch'ella alcuna volta, anzi più de le volte, è virtude necessariissima, come quella che favorisce la Legge, dà forza alla Verità, al Giudicio; ed acuisce l'Ingegno, ed apre il camino a molte egregie virtudi, che non capiscono gli animi tranquilli. A cui Giove: - Che allora, ed in quel modo con cui è virtù, sussista e consista tra quelle, a quali si fa propicia; però mai s'accoste al cielo senza che gli vada innante il Zelo con la lanterna de la Raggione.
E che farremo de le sette figlie d'Atlante, o Padre? -disse Momo. A cui Giove: - Vadano con le sue sette lampe a far lume a quel notturno e merinoziale santo sponsalizio; ed avertiscano d'andar prima che la porta si chiuda e che comincie da sopra a destillar il freddo, il ghiaccio, la bianca neve, atteso che allora in vano alzaranno le voci e picchiaranno, perché gli sia aperta la porta, rispondendogli il portinaio che tiene la chiave: Non vi conosco. Avisatele che saran pazze, se faranno venir meno l'oglio a la lucerna; la qual se fia umida sempre e non mai secca, averrà che non sieno tal volte prive di splendor di degna laude e gloria. Ed in questa region che lasciano, vegna a metter la sua stanza la Conversazione, il Consorzio, il Connubio, la Confraternitade, Ecclesia, Convitto, Concordia, Convenzione, Confederazione; ed ivi sieno gionte a l'Amicizia, perché, dove non è quella, in suo luogo è la Contaminazione, Confusione e Disordine. E se non son rette, non sono esse; perché mai si trovano in verità (benché il più de le volte in nome) tra scelerati; ma hanno verità di Monopolio, Conciliabulo, Setta, Conspirazione, Turba, Congiurazione, o cosa d'altro nome ed essere detestabile. Non sono tra irrazionali e quei che non hanno proponimento di buon fine; non dove è l'ocioso medesimo credere ed intendere; ma dove si concorre a medesima azione circa le cose similmente intese. Perseverano tra buoni; e son brevi ed inconstanti tra perversi, come tra quei de quali dissemo in proposito della Legge e Giudicio, nelli quali non si trova veramente concordia, come color che non versano circa virtuose azioni.
Vedi, dunque, o Diana, disse Giove, quel che vuoi far di questo tuo animale, il qual vivo è tristo, e morto non serve a nulla. Permettetemi (se cossì piace a voi), disse la vergine dea, che ritorne a Scio nel monte Chelippio; dove per mio ordine nacque a mal grado del presuntuoso Orione, ed ivi in quella materia di cui fu prodotto, si risolva. Seco si partano la Fraude, la Decepzione, l'Inganno, la perniciosa Finzione, il Dolo, l'Ipocrisia, la Buggia, il Pergiuro, il Tradimento; e quivi succedano le contrarie virtudi, Sincerità, Execuzion di promesse, Osservanza di fede, e le lor sorelle, seguaci e ministre. - Fanne quel che ti piace, disse Momo; perché gli fatti di costui non ti saran messi in controversia, come a Saturno il vecchio quegli de' doi fanciulli. E veggiamo presto quel che si deve far del figlio Euschemico, che son già tante migliaia d'anni che con tema di mandarla via senza averne un'altra, tiene quella vedova saetta incoccata a l'arco, facendo la mira là dove si continua la coda alla spina del dorso di Scorpione. E certo, se, come lo stimo pur troppo prattico in prender mira, in collimare, come dicono, al scopo che è la metà de l'arte sagittaria, lo potesse ancor stimare non ignorante in quel rimanente circa il tirare e dar di punta al bersaglio, che fa l'altra metà de l'esercizio; donarei conseglio che lo inviassemo a guadagnarsi un poco di riputazione nell'isola Britannica, dove sogliono di que' messeri, altri in giubbarello ed altri in saio faldeggiante, celebrar la festa del prencipe Artur e duca di Sciardichi. Ma dubito che, mancandogli il verbo principale, per quanto appartiene a donar dentro al segno, non vegna a far ingiuria al mistiero. Per tanto vedete voi altri che ne volete fare; perché (a dir il vero, come la intendo) non mi par comodo ad altro che ad essere spaventacchio degli ucelli, per guardia, verbigrazia, delle fave o de' meloni. - Vada, disse il Patriarca, dove vuole; donegli pur alcun di voi il meglior ricapito che gli pare; e nel suo luogo sia la figurata Speculazione, Contemplazione, Studio, Attenzione, Aspirazione, Appulso ad ottimo fine, con le sue circonstanze e compagnie.
Qua soggionse Momo: - Che vuoi, padre, che si debba fare di quel santo, intemerato e venerando Capricorno? di quel tuo divino e divo connutrizio, di quel nostro strenuo e più che eroico commilitone contra il periglioso insulto della protervia gigantesca? di quel gran consegliero a guerra, che trovò il modo di examinare quel nemico che da la spelunca del monte Tauro apparve ne l'Egitto formidando antigonista de gli dei? di quello il quale (perché apertamente non arremmo avuto ardire d'assalirlo) ne dié lezione di trasformarci in bestie, a fin che l'arte ed astuzia supplisse al difetto di nostra natura e forze per parturirci onorato trionfo dell'aversarie posse? Ma, oimè, questo merito non è senza qualche demerito; perché questo bene non è senza qualche male aggiunto, forse perché è prescritto e definito dal fato, che nessun dolce sia absoluto da qualche fastidio ed amaro, o per non so qual'altra caggione.–
Or che male, disse Giove, ne ha egli possuto apportar, che si possa dir esser stato congionto a quel tanto bene? che indignità, che abbia possuto accompagnarsi con tanto trionfo? - Rispose Momo: - Fece egli con questo, che gli Egizii venessero ad onorar le imagini vive de le bestie, e ne adorassero in forma di quelle; onde venemo ad esser beffati, come ti dirò. - E questo, o Momo, disse Giove, non averlo per male, perché sai, che gli animali e piante son vivi effetti di natura; la qual natura (come devi sapere) non è altro che dio nelle cose.
Cossì li numi eterni (senza ponere inconveniente alcuno contra quel che è vero della sustanza divina) hanno nomi temporali altri ed altri in altri tempi ed altre nazioni: come possete vedere per manifeste istorie, che Paulo Tarsense fu nomato Mercurio, e Barnaba Galileo fu nomato Giove, non perché fussero creduti essere que' medesimi dei; ma perché stimavano che quella virtù divina che si trovò in Mercurio e Giove in altri tempi, all'ora presente si trovasse in questi, per l'eloquenza e persuasione ch'era nell'uno, e per gli utili effetti che procedevano da l'altro.
Ecco dunque come mai furono adorati crocodilli, galli, cipolle e rape; ma gli Dei e la divinità in crocodilli, galli ed altri; la quale in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamente ed insieme insieme, si trovò, si trova e si trovarà in diversi suggetti quantunque siano mortali: avendo riguardo alla divinità, secondo che ne è prossima e familiare, non secondo è altissima, absoluta in se stessa, e senza abitudine alle cose prodotte. Vedi dunque come una semplice divinità che si trova in tutte le cose, una feconda natura, madre conservatrice de l'universo, secondo che diversamente si comunica, riluce in diversi soggetti, e prende diversi nomi. Vedi come a quell'una diversamente bisogna ascendere per la participazione de diversi doni; altrimente in vano si tenta comprendere l'acqua con le reti e pescar i pesci con la pala. Indi ne gli doi corpi che vicino a questo globo e nume nostro materno son più principali, cioè nel sole e luna, intendeano la vita che informa le cose secondo due raggioni più principali. Appresso apprendeano quella secondo sette altre raggioni, distribuendola a sette lumi chiamati erranti; a gli quali, come ad original principio e feconda causa, riduceano le differenze delle specie in qualsivoglia geno: dicendo de le piante, de li animali, de le pietre, de gl'influssi, e di altre ed altre cose, queste di Saturno, queste di Giove, queste di Marte, queste e quelle di questo e di quell'altro. Cossì de le parti, de' membri, de' colori, de' sigilli, de' caratteri, di segni, de imagini destribuite in sette specie. Ma non manca per questo, che quelli non intendessero una essere la divinità che si trova in tutte le cose, la quale, come in modi innumerabili si diffonde e communica, cossì ave nomi innumerabili, e per vie innumerabili, con raggioni proprie ed appropriate a ciascuno, si ricerca, mentre con riti innumerabili si onora e cole, perché innumerabili geni di grazia cercamo impetrar da quella. Però in questo bisogna quella sapienza e giudizio, quella arte, industria ed uso di lume intellettuale, che dal sole intelligibile a certi tempi più ed a certi tempi meno, quando massima- e quando minimamente viene revelato al mondo. Il quale abito si chiama Magia: e questa, per quanto versa in principii sopranaturali, è divina; e quanto che versa circa la contemplazion della natura e perscrutazion di suoi secreti, è naturale; ed è detta mezzana e matematica, in quanto che consiste circa le raggioni ed atti de l'anima, che è nell'orizonte del corporale e spirituale, spirituale ed intellettuale.
Or, per tornare al proposito donde siamo dipartiti, disse Iside a Momo, che gli stupidi ed insensati idolatri non aveano raggione di ridersi del magico e divino culto degli Egizii; li quali in tutte le cose ed in tutti gli effetti, secondo le proprie raggioni di ciascuno, contemplavano la divinità; e sapeano per mezzo delle specie che sono nel grembo della natura, ricevere que' beneficii che desideravano da quella; la quale come dal mare e fiumi dona i pesci, da gli deserti gli salvatici animali, da le miniere gli metalli, da gli arbori le poma; cossì da certe parti, da certi animali, da certe bestie, da certe piante porgono certe sorti, virtudi, fortune ed impressioni. Però la divinitade nel mare fu chiamata Nettuno, nel sole Apolline, nella terra Cerere, ne gli deserti Diana; e diversamente in ciascuna de le altre specie, le quali, come diverse idee, erano diversi numi nella natura, li quali tutti si referivano ad un nume de' numi e fonte de le idee sopra la natura.
Da qua puoi inferire, come la sapienza de gli Egizii, la quale è persa, adorava gli crocodilli, le lacerte, li serpenti, le cipolle; non solamente la terra, la luna, il sole ed altri astri del cielo; il qual magico e divino rito (per cui tanto comodamente la divinità si comunicava a gli uomini) viene deplorato dal Trimegisto, dove, raggionando ad Asclepio, disse: - Vedi, o Asclepio, queste statue animate, piene di senso e di spirito, che fanno tali e tante degne operazioni? Queste statue, dico, prognostricatrici di cose future, che inducono le infirmitadi, le cure, le allegrezze e le tristizie, secondo gli meriti ne gli affetti e corpi umani? Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo, e per dir meglio, la colonia de tutte cose che si governano ed esercitano nel cielo? A dir il vero, la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimè, tempo verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade; perché la divinità, remigrando al cielo, lasciarà l'Egitto deserto; e questa sedia de divinità rimarrà vedova da ogni religione, per essere abandonata dalla presenza de gli dei, perché vi succederà gente straniera e barbara senza religione, pietà, legge e culto alcuno. O Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente rimarranno le favole, anco incredibili alle generazioni future, alle quali non sarà altro, che narri gli pii tuoi gesti, che le lettere sculpite nelle pietre, le quali narraranno non a dei ed uomini (perché questi saranno morti, e la deitade sarà trasmigrata in cielo), ma a Sciti ed Indiani, o altri simili di salvaggia natura. Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzarà gli occhi al cielo, il religioso sarà stimato insano, l'empio sarà giudicato prudente, il furioso forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a colui che s'applicarà alla religion della mente; perché si trovaranno nove giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo, nulla di relligioso: non si udirà cosa degna di cielo o di celesti. Soli angeli perniciosi rimarranno, li quali meschiati con gli uomini forzaranno gli miseri alla audacia di ogni male, come fusse giustizia; donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose contrarie alla anima e giustizia naturale: e questa sarà la vecchiaia ed il disordine e la irreligione del mondo. Ma non dubitare, Asclepio, perché, dopo che saranno accadute queste cose, allora il signore e padre Dio, governator del mondo, l'omnipotente proveditore, per diluvio d'acqua o di fuoco, di morbi o di pestilenze, o altri ministri della sua giustizia misericordiosa, senza dubbio donarà fine a cotal macchia, richiamando il mondo all'antico volto.
Loripedem rectus derideat, Aethiopem albus. Le insensate bestie e veri bruti si ridono de noi dei, come adorati in bestie e piante e pietre, e de gli miei Egizii che in questo modo ne riconoscevano; e non considerano che la divinità si mostra in tutte le cose; benché per fine universale ed eccellentissimo in cose grandi e principii generali; e per fini prossimi, comodi e necessarii a diversi atti della vita umana, si trova e vede in cose dette abiettissime, benché ogni cosa, per quel che è detto, ha la divinità latente in sé; perché la si esplica e comunica insino alli minimi e dalli minimi secondo la lor capacità; senza la qual presenza niente arrebe l'essere, perché quella è l'essenza de l'essere del primo sin all'ultimo. A quel che è detto, aggiongo, e dimando: Per qual raggione riprendeno gli Egipzii in quello nel che essi ancora son compresi? E per venire a coloro che da noi o fuggirono, o fûrno come leprosi scacciati a gli deserti, non sono essi, nelle loro necessitati, ricorsi al culto egizio, quando ad un bisogno mi adorarono nell'idolo d'un vitello d'oro; e ad un'altra necessità, s'inchinorno, piegâro le ginocchia ed alzâro le mani a Theuth in forma del serpente di bronzo, benché per loro innata ingratitudine, dopo impetrato favore dell'uno e l'altro nume, ruppero l'uno e l'altro idolo? Appresso, quando si hanno voluto onorare con dirsi santi, divini e benedetti, in che maniera han possuto farlo eccetto con intitularsi bestie, come si vede dove il padre de dodici tribù, per testamento donando a' figli la sua benedizione, le magnificò con nome di dodici bestie? Quante volte chiamano il lor vecchio dio risvegliato Leone, Aquila volante, Fuoco ardente, Procella risonante, Tempesta valorosa; ed il novamente conosciuto da gli altri lor successori Pellicano insanguinato, Passare solitario, Agnello ucciso. E cossì lo chiamano, cossì lo pingono, cossì l'intendeno, dove lo veggio in statua e pittura con un libro, non so se posso dire, in mano, che non può altro che lui aprirlo e leggerlo. Oltre, tutti quei che son per credergli deificati, non son chiamati da lui, e si chiamano essi ancor gloriandosi, pecore sue, sua pastura, sua mandra, suo ovile, suo gregge? Lascio che gli medesimi veggio significati per gli asini: per la femina madre, il popolo giudaico; e l'altre generazioni che se gli doveano aggiongere, prestandogli fede, per il polledro figlio. Vedete, dunque, come questi divi, questo geno eletto vien significato per sì povere e basse bestie; e poi si burlano di noi che siamo presentati in più forti, degne ed imperiose altre?
Lascio che tutte le generazioni illustri ed egregie mentre per gli lor segni ed imprese vogliono mostrarsi ed essere significate, ecco le vedi aquile, falconi, nibbii, cuculi, civette, nottue, buboni, orsi, lupi, serpi, cavalli, buovi, becchi; e tal volta, perché manco si stimano degni de farsi una bestia intiera, ecco vi presentano un pezzo di quella, o una gamba, o una testa, o un paio di corna, o una coda, o un nerbo. E non pensate che, se si potessero trasformare in sustanza di tali animali, non lo farrebono volentiera; atteso, a qual fine stimate che pingono nel suo scudo le bestie quando le accompagnano col suo ritratto, con la sua statua? Pensate forse che vogliono dire altro eccetto: Questo, questo, di cui, o spettatore, vedi il ritratto, è quella bestia, che gli sta vicina e compiuta; overo: Se volete saper chi è questa bestia, sappiate che la è costui di cui vedete qua il ritratto e qua scritto il nome. Quanti sono, che per meglior parere bestie, s'impellicciano di lupo, di volpe, di tasso, di caprone, di becco, onde, ad essere uno di cotai animali, non par che gli manca altro che la coda? Quanti sono che per mostrar quanto hanno dell'ucello, del volatile e far conoscere con quanta leggerezza si potrebono sullevare alle nubi, s'impiumano il cappello e la barretta?
Gli Egizii, come sanno i sapienti, da queste forme naturali esteriori di bestie e piante vive ascendevano e (come mostrano gli lor successi) penetravano alla divinità; ma loro da gli abbiti magnifici esterni de gli lor idoli (ad altri accomodandogli al capo gli dorati raggi apollineschi, ad altri la grazia di Cerere, ad altri la purità di Diana, ad altri l'aquila, ad altri il scettro e folgore di Giove in mano) descendeno poi ad adorar in sustanza per dei quei che a pena hanno tanto spirito quanto le nostre bestie; perché finalmente la loro adorazione si termina ad uomini mortali, dappoco, infami, stolti, vituperosi, fanatici, disonorati, infortunati, inspirati da genii perversi, senza ingegno, senza facundia e senza virtude alcuna; i quali vivi non valsero per sé, e non è possibile che morti vagliano per sé o per altro. E benché per lor mezzo è tanto instercorata ed insporcata la dignità del geno umano, che in loco di scienze è imbibito de ignoranze più che bestiali, onde è ridotto ad esser governato senza vere giustizie civili, tutto è avenuto non per prudenza loro, ma perché il fato dona il suo tempo e vicissitudine a le tenebre. E soggionse queste paroli, voltata a Giove: - E mi dolgo di voi, o padre, per molte bestie, che, per esser bestie, mi par che facci indegne del cielo, essendo però, come ho mostrato, tanta la dignità di quelle. - A cui il summitonante: - Te inganni, figlia, che per esser bestie. Se gli altri dei sdegnassero l'esser bestie, non sarrebono accadute tante e tali metamorfosi. Però non possendo, né dovendovi rimanere in ipostatica sustanza, voglio che vi rimagnano in ritratto, il qual sia significativo, indice e figura de le virtudi che in que' luoghi si stabiliscono. E quantunque alcune hanno espressa significazione di vizio, per essere animali atti alla vendetta contra la specie umana, non sono però senza virtù divina in altro modo favorevolissime a quella medesima ed altre, perché nulla è absolutamente, ma, per certo rispetto, malo, come l'Orsa, il Scorpione ed altri: questo non voglio che ripugne al proposito, ma lo comporte nel modo che hai possuto aver visto e vedrai. Però non curo che la Verità sia sotto figura e nome de l'Orsa, la Magnanimità sotto quel de l'Aquila, la Filantropia sotto quel del Delfino, e cossì de gli altri. E per venire alla proposta del tuo Capricorno, tu sai quel ch'ho detto da principio, quando feci l'enumerazione di quei che doveano lasciar il cielo; e credo che ti ricordi lui essere uno de gli riservati. Godasi dunque la sua sedia, tanto per le raggioni da te apportate, quanto per altre molte non minori, che apportar si potrebono. E con lui, per degni rispetti, soggiorne la Libertà di spirito a cui talvolta amministra il Monachismo (non dico quello de cocchiaroni), l'Eremo, la Solitudine, che sogliono parturir quel divino sigillo ch'è la buona Contrazione.
Appresso dimandò Teti di quel che volea far de l'Aquario. -Vada, rispose Giove, a trovar gli uomini, e sciôrgli quella questione del diluvio, e dechiarare come quello ha possuto essere generale, perché s'apersero tutte le cataratte del cielo; e faccia che non si creda oltre quello esser stato particolare, perché è impossibile che l'acqua del mare e fiumi possa gli ambi doi emisferi ricuoprire, anzi né pur un medesimo citra ed oltre i Tropici o l'Equinoziale. Appresso faccia intendere come questa riparazion del geno traghiuttito da l'onde fu da l'Olimpo nostro de la Grecia, e non da gli monti di Armenia, o dal Mongibello di Sicilia, o da qualch'altra parte. Oltre che le generazioni de gli uomini si trovano in diversi continenti non a modo con cui si trovano tante altre specie d'animali usciti dal materno grembo de la natura, ma per forza di transfretazione e virtù di navigazione, perché, verbigrazia, son stati condotti da quelle navi che furono avanti che si trovasse la prima; perché (lascio altre maladette raggioni da canto, quanto a gli Greci, Druidi e tavole di Mercurio, che contano più di vinti mila anni non dico de lunari, come dicono certi magri glosatori, ma di que' rotondi simili a l'annello, che si computano da un inverno a l'altro, da una primavera a l'altra, da uno autunno a l'altro, da una staggione a l'altra medesima) è frescamente scuoperta una nuova parte de la Terra che chiamano Nuovo Mondo, dove hanno memoriali di diece mila anni e più, gli quali sono, come vi dico, integri e rotondi, perché gli loro quattro mesi son le quattro staggioni, e perché, quando gli anni eran divisi in più pochi, erano anco divisi in più grandi mesi. Ma lui, per evitar gl'inconvenienti che possete da per voi medesimi considerare, vada destramente a mantenir questa credenza, trovando qualche bel modo di accomodar quelli anni; e quello che non può glosare ed iscusare, audacemente nieghi, dicendo che si deve porgere più fede a gli dei (de quali portarà le lettere patente e bolle) che a gli uomini, li quali tutti son buggiardi. - Qua aggionse Momo dicendo: - E 'l mi par meglio di scusarla in questa maniera con dire, verbigrazia, che questi de la terra nova non son parte de la umana generazione, perché non sono uomini, benché in membra, figura e cervello siano molto simili a essi; ed in molte circonstanze si mostrano più savii ed in trattar gli lor dei manco ignoranti. - Rispose Mercurio che questa era troppo dura a digerire. - Mi par che quanto appartiene alle memorie di tempi, si può facilmente provedere con far maggiori questi, o minori quelli anni; ma penso che sia conveniente trovar alcuna gentil raggione, per qualche soffio di vento, o per qualche trasporto di balene ch'abbiano inghiuttite persone di un paese, e quelle vive andate a vomire in altre parti ed altri continenti. Altrimente noi dei greci saremo confusi; perché si dirà che tu, Giove, per mezzo di Deucalione non sei riparator de gli uomini tutti, ma di certa parte solamente. - Di questo e del modo di provedere si parlarà a più bell'agio, - disse Giove. Aggiunse alla commissione di costui, che debba egli definire circa la controversia se lui è stato sin ora in cielo per un padre di Greci, o di Ebrei, o di Egizii o di altri, e se ha nome Deucalione, o Noemo, o Otrio, o Osiri. Finalmente determine se lui è quel patriarca Noè, che, imbreaco per l'amor di vino, mostrava il principio organico della lor generazione a' figli, per fargli intendere insieme insieme dove consistea il principio ristorativo di quella generazione assorbita ed abissata da l'onde del gran cataclismo, quando doi uomini maschii ritrogradando gittâro gli panni sopra il discuoperto seno del padre; o pur è quel tessalo Deucalione, a cui, insieme con Pirra sua consorte, fu mostrato ne le pietre il principio della umana riparazione; là onde de doi uomini, un maschio e una femina, retrogradando le gittavano a dietrovia al discuoperto seno della terra madre? Ed insegne di questi doi modi de dire (perché non possono esser l'uno e l'altro istoria) qual sia la favola e qual sia la istoria; e se sono ambi doi favole, qual sia la madre e quale sia la figlia; e veda se potrà ridurle a metafora di qualche veritade degna d'essere occolta. Ma non inferisca che la sufficienza della magia caldaica sia uscita e derive da la cabala giudaica; perché gli Ebrei son convitti per escremento de l'Egitto, e mai è chi abbia possuto fingere con qualche verisimilitudine, che gli Egizii abbiano preso qualche degno o indegno principio da quelli. Onde noi Greci conoscemo per parenti de le nostre favole, metafore e dottrine la gran monarchia de le lettere e nobilitade, Egitto, e non quella generazione la quale mai ebbe un palmo di terra che fusse naturalmente o per giustizia civile il suo; onde a sufficienza si può conchiudere che non sono naturalmente, come né per lunga violenza di fortuna mai furono, parte del mondo.
|
Spaccio della Bestia Trionfante ▪ Epistola Esplicatoria ▪ Dialogo Primo parte 1 ▪ Dialogo Primo parte 2 ▪ Dialogo Primo parte 3 ▪ ▪ Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2 ▪ Dialogo Secondo Parte 3 ▪ ▪ Dialogo Terzo Parte 1 ▪ Dialogo Terzo Parte 2 ▪ Dialogo Terzo Parte 3 ▪ Musica: "Licet eger cum egrotis" (Carmina Burana secolo XIII) |