Dialogo Primo – Terza Parte -

Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio.

 
•Sofia•  Venuto il quarto giorno, ed essendo appunto l'ora di mezo dì, convennero di bel novo al conseglio generale, dove non solamente fu lecito d'esser presenti gli prefati numi più principali, ma oltre tutti quelli altri, ai quali è conceduto, come per lege naturale, il cielo. Sedente dunque il Senato e Popolo de gli dei, e con il consueto modo essendo montato sul solio di safiro inorato Giove, con quella forma di diadema e manto con cui solamente ne gli sollennissimi concilii suol comparire, rassettato il tutto, messa in punto d'attenzion la turba, ed inditto alto silenzio, di maniera che gli congregati sembravano tante statue o tante pitture; si presenta in mezzo con gli suoi ordini, insegna e circonstanze il mio bel nume Mercurio. E gionto avanti il conspetto del gran padre, brevemente annunziò, interpretò ed espose quel che non era a tutto il conseglio occolto, ma che, per servar la forma e decoro de statuti, bisogna pronunziare. Cioè come gli dei erano pronti ed apparecchiati senza simulazione e dolo, ma con libera e spontanea voluntade, ad accettare e ponere in esecuzione tutto quello che per il presente sinodo verrebe conchiuso, statuto ed ordinato. Il che avendo detto, si voltò a gli circonstanti dei, e gli richiese che con alzar la mano facessero aperto e ratificato quel tanto ch'in nome loro aveva esposto in presenza de l'altitonante. E cossì fu fatto.

Appresso apre la bocca il magno protoparente, e fassi in cotal tenore udire: - Se gloriosa, o dei, fu la nostra vittoria contra gli giganti, che in breve spacio di tempo risorsero contra di noi, che erano nemici stranieri ed aperti, che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che non possevano né tentavano altro che de ne precipitar dal cielo; quanto più gloriosa e degna sarà quella di noi stessi, li quali fummo contra lor vittoriosi? Quanto più degna, dico, e gloriosa è quella di nostri affetti, che tanto tempo han trionfato di noi, che sono nemici domestici ed interni che ne tiranneggiano da ogni lato, e che ne hanno trabalsati e smossi da noi stessi?

Se dunque di festa degno ne ha parso quel giorno che ne partorì vittoria tale di quale il frutto in un momento disparve, quanto più festivo dev'essere questo di cui la fruttuosa gloria sarà eviterna per gli secoli futuri? Séguite, dunque, d'essere festivo il giorno de la vittoria; ma da quel che si diceva de la vittoria de giganti, dicasi de la vittoria de gli Dei, perché in esso abbiamo vinti noi medesimi. Instituiscasi oltre festivo il giorno presente nel quale si ripurga il cielo, e questo sia più sollenne a noi, che abbia mai possuto essere a gli Egizii la trasmigrazione del popolo leproso, ed a gli Ebrei il transito dalla Babilonica cattivitade. Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce dal cielo a gli deserti; oggi vien rotta quella catena di delitti e fracassato il ceppo de gli errori, che ne ubligano al castigo eterno. Or dunque, essendo voi tutti di buona voglia per procedere a questa riforma, ed avendo, come intendo, tutti premeditato il modo con cui si debba e possa venire al fatto; acciò che queste sedie non rimagnano disabitate, ed agli trasmigranti sieno ordinati luoghi convenienti, io cominciarò a dire il mio parere circa uno per uno; e prodotto che sarà quello, se vi parrà degno d'essere approvato, ditelo; se vi sembrarà inconveniente, esplicatevi; se vi par che si possa far meglio, dechiaratelo; se da quello si deve togliere, dite il vostro parere; se vi par che vi si deve aggiongere, fatevi intendere; perché ognuno ha plenaria libertà di proferire il suo voto; e chiunque tace, se intende affirmare. - Qua assorsero alquanto tutti gli dei, e con questo segno ratificâro la proposta.

 

Per dar, dunque, principio e cominciar da capo, disse Giove, veggiamo prima le cose che sono da la parte boreale, e provediamo circa quelle; e poi a mano a mano per ordine faremo progresso sin al fine. Dite voi: che vi pare, e che giudicate di quella Orsa? - Gli dei, alli quali toccavano le prime voci, commesero a Momo che rispondesse; il qual disse: - Gran vituperio, o Giove, e più grande che tu medesimo possi riconoscere, che nel luogo del cielo più celebre, là dove Pitagora (che intese il mondo aver le braccia, gambe, busto e testa) disse essere la parte superior di quello, alla quale è contraposto l'altro estremo che dice essere l'infima regione; iuxta quello che cantò un Poeta di quella setta:

 

Hic vertex nobis semper sublimis, at illum

Sub pedibus Styx atra videt manesque profundi:

 

là dove gli marinaii si consultano negli devii ed incerti camini del mare, là verso dove alzano le mani tutti gli travagliati che patiscono tempeste: là verso dove ambivano gli giganti: là dove la generazion fiera di Belo facea montare la torre di Babelle: là dove gli maghi del specchio calibeo cercano gli oracoli de Floron, uno de' grandi principi de gli arctici spiriti: là dove gli Cabalisti dicono che Samaele volse inalzare il solio per farsi assomigliante al primo altitonante; hai posto questo brutto animalaccio, il quale, non con una occhiata, non con un rivoltato mustaccio, non con qualche imagine di mano, non con un piede, non con altra meno ignobil parte del corpo, ma con una coda (che contra la natura de l'orsina specie volse Giunone che gli rimanesse attaccata dietro), quasi come un indice degno di tanto luogo, fai che vegna a mostrar a tutti terrestri, maritimi e celesti contemplatori il polo magnifico e cardine del mondo. Quanto, dunque, facesti male de vi la inficcare, tanto farai bene di levarnela; e vedi di farne intendere dove la vuoi mandare, e che cosa vuoi ch'in suo loco succeda. - Vada, disse Giove, dove a voi altri pare e piace, o a gli Orsi d'Inghilterra, o a gli Orsini o Cesarini di Roma, se volete che stia in città a bell'aggio. - A gli claustri di Bernesi vorei che la fusse impriggionata, disse Giunone. - Non tanto sdegno, mia moglie, replicò Giove; vada dove si vuole, purché sia libera e lasce quel loco nel quale, per essere la sedia più eminente, voglio che faccia la sua residenza la Veritade; perché là le unghie de la detrazione non arivano, il livore de l'invidia non avelena, le tenebre de l'errore non vi profondano. Ivi starà stabile e ferma; là non sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno errando per questo tempestoso pelago d'errori; ed indi si mostrarà chiaro e terso specchio di contemplazione. -Disse il padre Saturno: - Che farremo di quella Orsa maggiore? Propona Momo. - E lui disse: - Vada, perché la è vecchia, per donna di compagna di quella minore giovanetta; e vedete che non gli dovegna roffiana; il che se accaderà, sia condannata ad servir a qualche mendico, che con andarla mostrando e con farla cavalcare da fanciulli ed altri simili, per curar la febre quartana ed altre picciole infirmitadi, possa guadagnar da vivere per lui e lei. - Dimanda Marte: - Che farremo di quel nostro Draggonaccio, o Giove? - Dica Momo, - rispose il padre. E quello: - La è una disutile bestia, e che è meglio morta che viva. Però, se vi pare, mandiamola ne l'Ibernia, o in un'isola de l'Orcadi a pascere. Ma guardate bene, ché con la coda è dubio che non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitar in mare. - Rispose Apolline: - Non dubitar, o Momo: perché ordinarò a qualche Circe o Medea, che con quei versi con gli quali si seppe addormentare quando era guardiano de le poma d'oro, adesso di nuovo insoporato sia trasportato pian pianino in terra. E non mi par che debba morire, ma si vada mostrando ovunque è barbara bellezza: perché le poma d'oro saranno la beltade, il drago sarà la fierezza, Giasone sarà l'amante, l'incanto ch'addormenta il drago, sarà che

 

Non è sì duro cor che proponendo,

Tempo aspettando, piangendo ed amando,

E talvolta pagando, non si smuova:

Né sì freddo voler, che non si scalde.

 

Che cosa vuoi che succeda al suo luogo, o padre? - La prudenza, rispose Giove, la quale deve essere vicina alla Veritade; perché questa non deve maneggiarsi, moversi ed adoperarsi senza quella, e perché l'una senza la compagnia de l'altra non è possibile che mai profitte o vegna onorata. - Ben provisto, - dissero i dei. Soggionse Marte: - Quel Cefeo, quando era re, malamente seppe menar le braccia per aggrandir quel regno che la fortuna gli porse. Ora, non è bene che qua, in quel modo che fa, spandendo di tal sorte le braccia ed allargando i passi, si faccia cossì la piazza grande in cielo. - È bene, dunque, disse Giove, che se gli dia da bere l'acqua di Lete, a fin che si dismentiche, ponendo in oblio la terrena e celeste possessione, e rinasca un animale che non abbia né gambe né braccia. - Cossì deve essere, soggionsero li dei: ma che in loco suo succeda la Sofia, perché la poverina deve anch'ella participar de gli frutti e fortune de la Veritade, sua indissociabile compagna, con la quale sempre ha comunicato nelle angustie, afflizioni, ingiurie e fatiche; oltre che, se non è costei che li coadministre, non so come ella potrà essere mai gradita ed onorata. - Molto volentieri, disse Giove, lo accordo, e vi consento o Dei; perché ogni ordine e raggione il vuole; e massime, perché malamente crederei aver reposta quella nel suo luogo senza questa, ed ivi non si potrebe trovar contenta, lontana della sua tanto amata sorella e diletta compagna.

 

De l'Arctofilace, disse Diana, che, sì ben smaltato di stelle, guida il carro, che credi, Momo, che si debba fare? - Rispose: - Per esser lui quel Arcade, frutto di quel sacrilego ventre, e quel generoso parto che rende testimonio ancora de gli orrendi furti del gran padre nostro, deve partirsi da qua: or provedete voi de la sua abitazione. -Disse Apolline: - Per esser figlio di Calisto, séguite la madre! - Soggionse Diana: - E perché fu cacciatore d'orsi, séguite la madre, con questo che non gli ficchi qualche punta di partesana adosso. - Aggiunse Mercurio: - E perché vedete, che non sa far altro camino, vada pur sempre guardando la madre, la quale se ne devria ritornare all'Erimantide selve. - Cossì sarà meglio, disse Giove: e perché la meschina fu violata per forza, io voglio riparar al suo danno, da quel loco rimettendola, se cossì piace a Giunone ancora, nella sua pristina bella figura. - Mi contento, disse Giunone, quando prima l'arrete rimessa nel grado della sua verginità, e per consequenza in grazia de Diana. - Non parliamo più di questo per ora, disse Giove; ma veggiamo che cosa vogliamo far succedere al luogo di costui. - Dopo fatte molte e molte discussioni: - Ivi, sentenziò Giove, succeda la Legge, perché questa ancora è necessario che sia in cielo, atteso che cossì questa è figlia della Sofia celeste e divina, come quell'altra è figlia de l'inferiore, in cui questa Dea manda il suo influsso ed irradia il splendor del proprio lume, in quel mentre che va per gli deserti e luoghi solitarii de la terra. - Ben disposto, o Giove, disse Pallade; perché non è vera, né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre l'intelletto razionale; e però là questa figlia non deve star lungi da la sua madre; ed a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere ordinate appreso loro, si proveda qua in questa maniera, se cossì piace a Giove. Appresso séguita la sedia della corona Boreale, fatta di safiro, arrichita di tanti lucidi diamanti, e che fa quella bellissima prospettiva con quattro e quattro, che son otto, carbuncoli ardenti. Questa, per esser cosa fatta a basso, trasportata da basso, mi par molto degna d'esser presentata a qualche eroico prencipe, che non ne sia indegno; però veda il nostro padre, a chi manco meno indegnamente deve essere presentata da noi. - Rimagna in cielo, rispose Giove, aspettando il tempo, in cui devrà essere donata in premio a quel futuro invitto braccio, che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella. - Aggiunse Momo: - Bastarà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati religiosi grati a' dei, e dicono che il far bene è bene, il far male è male; ma non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a' dei; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro. Vedete, dei, se si trovò mai ribaldaria più aperta di questa, che da quei soli non è vista, li quali non veggon nulla.

 

Certo, disse Mercurio, colui che non conosce nulla forfantaria, non conosce questa ch'è la madre di tutte. Quando Giove istesso e tutti noi insieme proponessimo tal patto a gli uomini, deremmo essere più abominati che la morte, come quei che, in grandissimo pregiudizio del convitto umano, non siamo solleciti d'altro, che della vana gloria nostra. - Il peggio è, disse Momo, che ne infamano, dicendo che questa è instituzione de superi; e con questo che biasmano gli effetti e frutti, nominandoli ancor con titulo di defetti e vizii. Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni, ospitali, collegii ed universitadi; onde sono aperti ladroni ed occupatori di beni ereditarii d'altri; li quali, se non son perfetti, né cossì buoni, come denno, non saranno però (come sono essi) perversi e perniciosi al mondo; ma più tosto necessarii alla republica, periti ne le scienze speculative, studiosi de la moralitade, solleciti circa l'aumentar il zelo e la cura di giovar l'un l'altro, e mantener il convitto (a cui sono ordinate tutte leggi), proponendo certi premii a' benefattori, e minacciando certi castighi a' delinquenti. Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch'alla consecuzion di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dei si pascano. - Però, disse Mercurio, non gli deve dar fastidio, né eccitar il zelo, che alcuni credeno le opere essere necessarie; perché tanto il destino di quelli, quanto il destino loro che credeno il contrario, è prefisso, e non si cangia perché il lor credere o non credere si cangie, e sia d'una ed un'altra maniera. E per la medesima caggione essi non denno essere molesti a color che non gli credeno, e che le stimano sceleratissimi; perché non per questo che gli vegnono a credere e stimarli uomini da bene, cangiaranno destino. Oltre che, secondo la lor dottrina, non è in libertà de l'elezion loro di mutarsi a questa fede. Ma gli altri che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que' beni che non posseano vorare, strapazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s'esercitavano..

 

Tutti quei, ch'hanno giudicio naturale, disse Apolline, giudicano le leggi buone, perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica: perché de tutte leggi altre son state donate da noi, altre finte da gli uomini, massime per il comodo de l'umana vita; e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto avanti gli occhi de l'altra vita il bene e male, premio e castigo, secondo le lor opre. De tutti quanti, dunque, che diversamente credeno ed insegnano, disse Apollo, questi soli son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà più chi le toglierà, quanto pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli. Però ben specificò Momo, che la Corona australe a colui massime si deve, il quale è disposto dal fato a togliere questa fetida sporcaria del mondo.

 

Bene, disse Giove, cossì voglio, cossì determino, che sia dispensata questa corona, come raggionevolmente Mercurio, Momo ed Apolline hanno proposto, e voi altri consentite. Questa pestilenza, per essere cosa violenta e contra ogni legge e natura, certo non potrà molto durare; come possete accorgervi, ch'hanno costoro il lor destino o fato nemicissimo, perché mai crebbe il numero di questi, se non a fine di far più numerosa ruina. - È ben degno premio, disse Saturno, la corona per colui, che le toglierà via; ma a questi perversi è picciola ed improporzionata pena, che sieno solamente spenti dalla conversazion de gli uomini: però mi par oltre giusto che, lasciato ch'aranno quel corpo, appresso, per molti lustri e per più centinaia d'anni, da corpo in corpo trasmigrando per diverse vice e volte, se ne vadano ad abitar in porci, che sono gli più poltroni animali del mondo, o vero sieno ostreche marine attaccate ai scogli.

 

La giustizia, disse Mercurio, vuole il contrario. Mi par giusto, che per pena de l'ocio sia data la fatica. Però sarà meglio, che vadano in asini, dove ritegnano la ignoranza e si dispogliano de l'ocio; ed in quel supposito, in Mercurio é di continuo lavore, abbiano poco fieno e paglia per cibo, e molte bastonate per guidardone. - Questo parere approvâro tutti gli Dei insieme. Allora sentenziò Giove, che la corona sia eterna di colui che gli arà donata l'ultima scossa; ed essi per tremilia anni da asini sempre vadano migrando in asini. Sentenziò oltre, che in loco di quella corona particolare succedesse la ideale e comunicabile in infinito, perché da quella possano essere suscitate infinite corone, come da una lampade accesa senza sua diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude ed efficacia, se ne accendeno infinite altre. Con la qual corona intese che fusse aggionta la spada ideale, la quale similmente ha più vero essere che qualsivoglia particolare, sussistente infra gli limiti delle naturali operazioni. Per la qual spada e corona intende Giove il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e castigato, secondo la misura de gli meriti e delitti. Approvâro molto questa provisione tutti gli dei, per quel che conviene che alla Legge abbia la sedia vicina il Giudicio, perché questo si deve governar per quella, e quella deve esercitarsi per questo; questo deve esseguire, e quella dettare; in quella ha da consistere tutta la teoria, in questo tutta la pratica.

 

Dopo fatti molti discorsi e digressioni in proposito di questa sedia, mostrò Momo a Giove Ercole, e gli disse: - Or, che faremo di questo tuo bastardo? - Avete udito, dei, rispose Giove, la caggione per la quale il mio Ercole deve andarsene con gli altri altrove. Ma non voglio che la sua andata sia simile a quella de tutti gli altri; perché la causa, modo e raggione de la sua assumpzione è stata molto dissimile, per ciò che solo e singularmente per le virtudi e meriti de gli gesti eroici s'ha meritato il cielo; e benché spurio, degno però di essere legitimo figlio di Giove s'è dimostrato. E vedete aperto, che solo la causa de l'essere adventizio, e non naturalmente dio, fa che li sia negato il cielo; ed è il mio, non suo errore quello che per lui io vegno, come è stato detto, notato. E credo, che vi rimorda la conscienza; ché se uno da quella regola e determinazion generale devesse essere eccettuato, questo solo derrebe essere Ercole. Però, se lo togliemo da qua e lo mandamo in terra, facciamo che non sia senza suo onore e riputazione, la quale non sia minore che se continuasse in cielo. -Assorsero molti, dico, la più gran parte de gli dei, e dissero: - Con maggiore, se maggior si puote. - Instituisco, dunque, Giove soggionse, che con questa occasione a costui, come a persona operosa e forte, sia donata tal commissione e cura, per quale si faccia dio terrestre, talmente grande, che vegna da tutti stimato maggior che quando era autenticato per celeste semideo. - Risposero que' medesimi: - Cossì sia. - E perché alcuni de quegli né erano assorti allora, né parlavano adesso, si converse Giove a loro, e gli disse, che ancor essi si facessero intendere. Però di quelli alcuni dissero: Probamus; - altri dissero: Admittimus. -Disse Giunone: Non refragamur. - Indi si mosse Giove a proferir il decreto in questa forma: - Per causa che in luoghi de la terra in questi tempi si scuoprono de mostri, se non tali quali erano a' tempi de gli antichi cultori di quella, forse peggiori; io, Giove, padre e proveditor generale, instituisco, che, se non con simile o maggior mole di corpo, dotato però ed inricchito di maggior vigilanza, di sollecitudine, vigor d'ingegno ed efficacia di spirto, vada Ercole, come mio luogotenente e ministro del mio potente braccio, in terra; e come vi si mostrò grande prima, quando fu nato e parturito in quella, con aver superati e vinti tanti fieri mostri; e secondo, quando rivenne a quella vittorioso da l'inferno, apparendo insperato consolator de gli amici, ed inaspettato vendicator de gli oltragiosi tiranni; cossì, al presente, qual nuovo e tanto necessario e bramato proveditore, vegna la terza volta visto da la madre; e discorrendo per gli tenimenti di quella, veda se di bel nuovo per le cittadi Arcadiche vada dissipando qualche Nemeo leone; se il Cleoneo di nuovo appaia in Tessaglia. Guarde se quell'idra, quella peste di Lerne, sia risuscitata a prendere le sue teste rigermoglianti. Scorga se ne la Tracia sia di nuovo risorto quel Diomede, e chi de sangue de peregrini pascea ne l'Ebro gli cavalli. Volte l'occhio a la Libia, se forse quell'Anteo, che tante volte ripigliava il spirto, abbia pur una volta ripigliato il corpo. Considere se nel regno Ibero è qualche tricorporeo Gerione. Alze il capo e veda se per l'aria a questo tempo volano le perniciosissime Stinfalidi: dico, se volano quelle Arpie che talvolta soleano annuvolar l'aria ed impedir l'aspetto de gli astri luminosi. Guate se qualch'ispido cinghiale va spasseggiando per gli Erimantici deserti. Se s'incontrasse a qualche toro, non dissimile a quello che donava orrido spavento a tanti popoli; se bisognasse far uscir a l'aria aperto qualche triforme Cerbero che latre, a fin che vomisca l'aconito mortifero; se circa gli crudi altari versa qualche carnefice Busire; se qualche cerva, che di dorate corna adorna il capo, appare per que' deserti, simile a quella che con gli piedi di bronzo correa veloce, pari al vento; se qualche nova regina Amazonia ha congregate le copie rubelle; se qualche infido e vario Acheloo con inconstante, moltiforme e vario aspetto tiranneggia in qualche parte; se sono Esperidi ch'in guardia del drago han commese le poma d'oro; se di nuovo appare la celibe ed audace Regina del popolo Termodonzio; se per l'Italia va grassando qualche Lancinio ladro, o discorra qualche Cacco predatore che con il fumo e fiamme defenda gli suoi furti; se questi, o simili, o altri nuovi ed inauditi mostri gli occorreranno, e se gli aventaranno, mentre per il spacioso dorso de la terra verrà, lustrando; svolte, riforme, discacce, perseguite, leghe, domi, spoglie, dissipe, rompa, spezze, franga, deprima, sommerga, brugge, casse, uccida, annulle. Per gli quai gesti, in Mercurio é di tante e sì gloriose fatiche, ordino che ne gli luoghi dove effettuarà le sue eroiche imprese, gli sieno drizzati trofei, statue, colossi, ed oltre fani e tempii, se non mi contradice il fato.

Veramente, o Giove, disse Momo, adesso mi pari a fatto a fatto dio da bene; perché veggio che la paternale affezione non ti trasporta a passar gli termini circa la retribuzione secondo gli meriti del tuo Alcide; il quale se non è degno di tanto, è meritevole oltre forse di qualche cosa di vantaggio, anco a giudicio di Giunone, la qual veggio che ridendo pur accetta quel ch'io dico.

 

Ma ecco il mio tanto aspettato Mercurio, o Saulino, per cui conviene che questo nostro raggionamento si differisca ad un'altra volta. Però piacciati discostarti e lasciarne privatamente raggionar insieme.


•Saulino•  Bene, a rivederci domani.


•Sofia•  Ecco quello a cui ieri ho indirizzati i voti: al fine, dopo ch'ha alquanto troppo induggiato, mi si fa presente. Ieri a la sera doveano essere pervenuti a lui, questa notte ascoltati, e questa mattina exequiti dal medesimo. Se subito a la mia voce non è comparso, gran cosa lo deve aver intrattenuto; per ciò che credo non essere meno amata da lui, che da me medesima. Ecco, il veggo uscire da quella nuvola candente, che dal spirto d'Austro risospinta corre verso il centro del nostro orizonte, e cedendo a' lampegianti rai del sole s'apre in cerchio, quasi coronando il mio nobil pianeta. O sacrato padre, alta maestade, io ti ringrazio, perché veggio il mio alato nume spuntar da quel mezzo e con l'ali distese battendo l'aria, lieto col caduceo in mano, fender il cielo a la mia volta, più veloce che l'ucello di Giove, più vago che l'alite di Giunone, più singulare che l'Arabica Fenice; presto mi s'è aventato vicino, gentile mi si presenta, unicamente affezionato mi si dimostra.



•Mercurio•  Eccomi teco ossequioso e favorevole a gli tuoi voti, o mia Sofia, perché m'hai mandato a chiamare; e la tua orazione non è pervenuta a me qual fumo aromatico, secondo il suo costume, ma qual penetrativa e ben alata saetta di raggio risplendente.


•Sofia•  Ma tu, mio nume, che vuol dire che sì tosto, secondo il tuo costume, non mi ti sei fatto presente?


•Mercurio•  Ti dirò la veritade, o Sofia. La tua orazione mi giunse a tempo ch'io ero già ritornato da l'inferno, a commettere nelle mani di Minoe, Eaco e Radamanto ducento quarantasei milia cinquecento e vinti due anime, che per diverse battaglie, supplicii e necessitadi hanno compito il corso de l'animazione di corpi presenti. Ivi era meco la Sofia celeste, chiamata volgarmente Minerva e Pallade, la qual, al vestito ed a l'andare, subito conobbe che quella ambasciata era la tua....


•Sofia•  Ben la possea conoscere, perché non meno che con te, frequentemente suole contrattar con lei.

•Mercurio•  ... E mi disse: - Volgi gli occhi, o Mercurio, ché per te viene questa ambasciaria de la nostra germana e figlia terrestre. Quella che vive del mio spirito e più di lungi, vicino alle tenebre, procede dal lume del mio padre, voglio che ti sia raccomandata. - È cosa soverchia, io li risposi, o nata del cervello di Giove, il raccomandarmi la tanto amata nostra comune sorella e figlia. - Mi approssimai, dunque, alla tua messaggera: l'abbraccio, la bacio, la metto in compendio, apro gli bottoni del gippone, e me l'insacco tra la camicia e la pelle, sotto la quale batte e ribatte il polso del core. Giove (il quale era presente, poco discosto, raggionando in secreto con Eolo ed Oceano, li quali erano inbottati, per ritornarsene presto alli negocii suoi qua giù) vedde quel ch'io feci, e rompendo il raggionamento in cui si ritrovava, fu curioso di dimandarmi subito che memoriale quello fusse che m'avevo messo in petto; ed avendogli io risposto com'era cosa tua: -Oh la mia povera Sofia! disse, come la passa? come la fa? Ahi poverina, da quel cartoccio, che non è troppo riccamente piegato, io comprendevo che non possev'essere altro che quel che dici. È pur gran tempo che non abbiamo avuto nova alcuna di lei. Or che cosa la dimanda? che gli manca? che ti propone? - Non altro, dissi, eccetto ch'io gli sia assistente ad ascoltarla per un'ora. - Sta bene, - disse, e tornò a compire il raggionamento con que' doi dei; e cossì poi in fretta mi chiamò a sé, dicendo: - Su, su, presto, doniamo ordine a nostri affari, prima che tu vadi a veder che vuole quella meschina, ed io a ritrovar questa mia tanto fastidiosa mogliera, che certo mi pesa più che tutta la carca de l'universo. - Subito volse (perché cossì è novamente decretato nel cielo) che di mia mano registrasse tutto quel che deve essere provisto oggi nel mondo.


•Sofia•  Fatemi, se vi piace, alquanto udire di negocii, poi che m'hai svegliata questa cura nel petto.


•Mercurio•  Ti dirò. Ha ordinato, che oggi a mezzo giorno doi meloni, tra gli altri, nel melonaio di Franzino sieno perfettamente maturi; ma che non sieno colti, se non tre giorni appresso, quando non saran giudicati buoni a mangiare. Vuole ch'al medesimo tempo dalla iuiuma, che sta alle radici del monte di Cicala, in casa di Gioan Bruno, trenta iuiomi sieno perfetti colti, e diece sette caggiano scalmati in terra, quindeci sieno rosi da' vermi. Che Vasta, moglie di Albenzio, mentre si vuole increspar gli capelli de le tempie, vegna, per aver troppo scaldato il ferro, a bruggiarne cinquanta sette; ma che non si scotte la testa, e per questa volta non biastemi quando sentirà il puzzo; ma con pazienza la passe. Che dal sterco del suo bove nascano ducento cinquanta doi scarafoni, de quali quattordeci sieno calpestrati ed uccisi per il piè di Albenzio, vinti sei muoiano di rinversato, venti doi vivano in caverna, ottanta vadano in peregrinaggio per il cortile, quarantadoi si retireno a vivere sotto quel ceppo vicino a la porta, sedeci vadano isvoltando le pallotte per dove meglio li vien comodo, il resto corra a la fortuna. A Laurenza, quando si pettina, caschino diece sette capelli, tredeci se gli rompano, e di quelli diece rinascano in spacio di tre giorni, e gli sette non rivegnano più. La cagna d'Antonio Savolino concepa cinque cagnolini, de quali tre a suo tempo vivano, e doi sieno gittati via; e di que' tre il primo sia simile a la madre, il secondo sia vario, il terzo sia parte simile al padre e parte a quello di Polidoro. In quel tempo il cuculo s'oda cantare da la Starza, e non faccia udire più né meno che dodici cuculate; e poi si parta, e vada a le roine del castello Cicala per undeci minuti d'ora, e da là se ne vole a Scarvaita; e di quello che deve essere appresso, provederemo poi. Che la gonna che mastro Danese taglia su la pianca, vegna stroppiata. Che da le tavole del letto di Costantino si partano dodeci cimici, e sene vadano al capezzale: sette degli più grandi, quattro de più piccioli, uno de mediocri; e di quello che di essi ha da essere questa sera al lume di candela, provederemo. Che a quindeci minuti de la medesima ora per il moto de la lingua, la quale si varrà la quarta volta rimenando per il palato, a la vecchia di Fiurulo casche la terza mola che tiene nella mascella destra di sotto; la qual caduta sia senza sangue e senza dolore; perché la detta mola è gionta al termine della sua trepidazione, che ha perdurato a punto diece sette annue revoluzioni lunari. Che Ambruoggio nella centesima e duodecima spinta abbia spaccio ed ispedito il negocio con la mogliera, e che non la ingravide per questa volta, ma ne l'altra con quel seme in cui si convertisce quel porro cotto, che mangia al presente con la sapa e pane di miglio. Al figlio di Martinello comincieno a spuntar i peli de la pubertade nel pettinale, ed insieme insieme comincie a gallugarli la voce. Che a Paulino, mentre vorrà alzar un'ago rotta da terra, per la forza che egli farà, se gli rompa la stringa rossa de le braghe; per la qual cosa, se bestemmiarà, voglio che sia punito appresso con questo, che questa sera la sua minestra sia troppo salita e sappia di fumo; caggia e se gli rompa il fiasco pieno di vino; per la qual causa se bestimmiarà, provederemo poi. Che di sette talpe, le quali da quattro giorni fa son partite dal fondo de la terra, prendendo diversi camini verso l'aria, due vegnano a la superficie de la terra nell'ora medesima, l'una al punto di mezzo giorno, l'altra a quindeci minuti e diece nove secondi appresso, discoste l'una da l'altra tre passi, un piede e mezzo dito ne l'orto di Anton Faivano. Del tempo e luogo de l'altre si provederà al più tardi.


•Sofia•  Hai molto da fare, o Mercurio, se mi vuoi raccontare tutti questi atti della provisione, che fa il padre Giove; e nel volermi tutti questi decreti particolari uno per uno far ascoltare, mi pari che sei simil a colui, che volesse prendere il conto de granegli de la terra. Tu sei stato tanto a apportare quattro minuzzarie de infinite altre che nel medesimo tempo sono accadute in una picciola contrada, dove son quattro o cinque stanze non troppo magnifiche; or che sarrebe, se dovessi donar conto a pieno de cose ordinate in quella ora per questa villa, che sta alle radici del monte Cicada? Certo, non ti bastarebbe un anno da esplicarle una per una, come hai cominciato a fare. Che credi, se oltre volessi apportar tutte le cose accadute circa la città di Nola, circa il regno di Napoli, circa l'Italia, circa l'Europa, circa tutto il globo terrestre, circa ogni altro globo in infinito, come infiniti son gli mondi sottoposti alla providenza di Giove? In vero, per apportar solo quello che è accaduto ed ordinato d'esser in uno instante nell'ambito d'un solo di questi orbi o mondi, non ti fia mestiero dimandar cento lingue e cento bocche di ferro, come fanno gli poeti, ma mille millia migliaia de millioni in termine d'un anno, ad non averne executata la millesima parte. E per dirla, o Mercurio, non so che voglia dir questo tuo riporto, per cui alcuni de' miei coltori, chiamati filosofi, stimano che questo povero gran padre Giove sia molto sollecito, occupato ed impacciato; e credeno che lui sia di tal fortuna, che non è minimo mortale che debba aver invidia al stato suo. Lascio che in quel tempo che spendeva a proponere e destinar questi effetti, necessariamente scorsero infinite volte infinite occasioni di provedere ed aver provisto ad altri; e tu, mentre me le vuoi raccontare, se volesse far l'officio tuo, devi averne fatti e farne infinite volte altri infiniti.


•Mercurio•  Sai, Sofia, se sei Sofia, che Giove fa tutto senza occupazione, sollecitudine ed impacciamento, perché a specie innumerabili ed infiniti individui provede donando ordine, ed avendo donato ordine, non con certo ordine successivo, ma subito subito ed insieme insieme; e non fa le cose a modo de gli particolari efficienti, ad una ad una, con molte azioni, e con quelle infinite viene ad atti infiniti; ma tutto il passato, presente e futuro fa con un atto semplice e singulare.


•Sofia•  Io posso saper questo, o Mercurio, che non insieme insieme raccontate e mettete in execuzione queste cose, ed esse non sono in un suggetto semplice e singolare: e però l'efficiente deve essere proporzionato, o almeno con l'operazione proporzionarsi a quelle.


•Mercurio•  È vero quel che dici, e deve essere cossì, e non può essere altrimente nello efficiente particolare, prossimo e naturale; perché ivi, secondo la raggione e misura dell'effettiva virtude particulare, séguita la misura e raggione de l'atto particolare circa il particular suggetto; ma nell'efficiente universale non è cossì, perché lui è proporzionato, se si può dir cossì, a tutto l'effetto infinito che da lui depende, secondo la raggione de tutti luoghi, tempi, modi e suggetti, e non definitamente ad certi luoghi, suggetti, tempi e modi.


•Sofia•  So, o Mercurio, che la cognizione universale è distinta dalla particolare, come il finito da l'infinito.


•Mercurio•  Di' meglio: come l'unitade da l'infinito numero. E devi saper ancora, o Sofia, che la unità è nel numero infinito, ed il numero infinito nell'unità; oltre che l'unità è uno infinito implicito, e l'infinito è la unità explicita: appresso che dove non è unità, non è numero, né finito, né infinito; e dovunque è numero o finito o infinito, ivi necessariamente è l'unità. Questa dunque è la sustanza di quello; dunque, chi non accidentalmente, come alcuni intelletti particolari, ma essenzialmente, come l'intelligenza universale, conosce l'unità, conosce l'uno ed il numero, conosce il finito ed infinito, il fine e termine da compreensione ed eccesso di tutto; e questo può far tutto non solo in universale, ma oltre in particolare; cossì come non è particolare che non sia compreso nell'universale, non è numero, in cui più veramente non sia l'unità, che il numero istesso. Cossì, dunque, senza difficoltà alcuna e senza impaccio Giove provede a tutte cose in tutti luoghi e tempi, come necessariamente lo essere ed unità si trova in tutti numeri, in tutti luoghi, in tutti tempi ed atomi di tempi, luoghi e numeri; e l'unico principio de l'essere è in infiniti individui, che furono, sono e saranno. Ma non è questa disputazione il fine per cui sono venuto, e per cui credo d'esser stato chiamato da te.


•Sofia•  È vero che so bene che queste son cose degne d'esser decise da miei filosofi, e pienamente intese non da me, che non le posso capire, eccetto che difficilmente in comparazioni e similitudini, ma dalla Sofia celeste e da te; ma da quel tuo raccontare son stata commossa a cotal questione, prima che venire a discorrere circa gli mei particolari interessi e dissegni. E certo mi parevi che senza ogni proposito tu, giudiciosissimo nume, fussi entrato in quello discorrer di cose cossì minime e basse.

 


•Mercurio•  Non l'ho fatto con vanità, ma con grande providenza, Sofia; perché ho giudicata necessaria questa animadversione a te, per quel che conosco, che per le molte affliczioni sei di tal maniera turbata, che facilmente l'affetto ti vegna trasportato a voler non troppo piamente opinare circa il governo de gli dei; il quale è giusto e sacrosanto al fin finale, benché le cose appaiono, in quella maniera che tu vedi, confusissime. Ho voluto dunque, prima che trattasse altro, provocarti a cotal contemplazione, per renderti sicura dal dubio che potessi aver, e forse molte volte dimostri; perché, essendo tu terrena e discorsiva, non puoi apertamente intendere l'importanza de la providenza di Giove, e del studio di noi altri suoi collaterali.


•Sofia•  Ma pure, o Mercurio, che vuol dire, che più tosto al presente, che altre volte, ti ha commosso questo zelo?


•Mercurio•  Ti dirò (quello ch'ho differito di dirti sin al presente): perché il tuo voto, la tua orazione, la tua ambasciaria, benché sia gionta in cielo e pervenuta a noi veloce e presta, era però a mezza estade agghiacciata, era irresoluta, era tremante, quasi più gittata come alla fortuna che inviata e commessa come a la providenza: quasi che era dubia, se la possea aver effetto di toccarne l'orecchie, come di quelli che sono attenti a cose che son stimate più principali. Ma te inganni, Sofia, se pensi, che non ne sieno a cura cossì le cose minime, come le principali, talmente sicome le cose grandissime e principalissime non costano senza le minime ed abiettissime. Tutto dunque, quantunque minimo, è sotto infinitamente grande providenza; ogni quantosivoglia vilissima minuzzaria in ordine del tutto ed universo è importantissima; perché le cose grandi son composte de le picciole, e le picciole de le picciolissime, e queste de gl'individui e minimi. Cossì intendo de le grande sustanze, come de le grande efficacie e grandi effetti.


•Sofia•  È vero, perché non è sì grande, sì magnifico e sì bello architetto che non coste di cose che picciole, vilissime ed informi appaiono e son giudicate.


•Mercurio•  L'atto della cognizion divina è la sustanza de l'essere di tutte cose; e però, come tutte cose o finito o infinito hanno l'essere, tutte ancora sono conosciute ed ordinate e proviste. La cognizion divina non è come la nostra, la quale séguite dopo le cose; ma è avanti le cose e si trova in tutte le cose, di maniera che, se non la vi si trovasse, non sarrebono cause prossime e secondarie.


•Sofia•  E per questo vuoi, o Mercurio, che io non mi sgomente per cosa minima o grande che mi accade, non solo come principale e diretta, ma ancora come indiretta ed accessoria; e che Giove è in tutto, e colma il tutto, ed ascolta tutto.


•Mercurio•  Cossì è; però per l'avenire sovengati di scaldar più la tua ambasciaria, e non mandarla cossì negletta, mal vestita e fredda in presenza di Giove; e lui e la tua Pallade m'hanno imposto, che prima ch'io ti parlasse d'altro, con qualche desterità ti facesse accorta di questo.


•Sofia•  Io vi ringrazio tutti.


•Mercurio•  Or esplica la causa per la quale m'hai fatto venire a te..


•Sofia•  Per la mutazione e cangiamento di costumi, ch'io comprendo in Giove, per quello che per altri raggionamenti ho appreso da te; io sono entrata in sicurtà di dimandargli e fargli instanza di ciò che altre volte non ho avuto ardire, quando temeva che qualche Venere o Cupido o Ganimede rigettasse e risospingesse la mia ambasciaria, quando si presentava a la porta de la camera di Giove. Adesso ch'è riformato il tutto, e che sono ordinati altri portinaii, condottieri ed assistenti, e che lui è ben disposto verso la giustizia, voglio che per tuo mezzo li vegna presentata la mia richiesta, la qual versa circa gli gran torti che mi vegnono fatti da diverse sorte di uomini in terra, e pregarlo che mi sia favorevole e propicio, secondo che la sua conscienza li dettarà.


•Mercurio•  Questa tua richiesta, per esser lunga e di non poca importanza, ed anco per esser novamente decretato nel cielo, che tutte le espedizioni, tanto civili quanto criminali, vegnano registrate nella camera, non senza tutte le occasioni, mezzi e circonstanze loro, però è necessario, che tu me la porghi in scritto, e cossì la presenti a Giove ed al Senato celeste.


•Sofia•  Onde questo nuovo ordine?


•Mercurio•  Acciò che ognuno di gli dei in questo modo vegna costretto a far la giustizia; perché per la registrazione che eterniza la memoria de gli atti, vengano a temer l'eterna infamia, e d'incorrere biasimo perpetuo con la condannazione che si deve aspettar dall'absoluta giustizia che regna sopra li governatori, ed è presidente sopra tutti dei.


•Sofia•  Cossì, dunque, farò. Ma vi bisogna del tempo a pensare e scrivere; però ti priego che rivegni domani a me, o vero il prossimo seguente giorno.


•Mercurio•  Non mancarò. Tu pensa a quel che fai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spaccio della Bestia Trionfante

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Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2Dialogo Secondo Parte 3

Dialogo Terzo Parte 1 Dialogo Terzo Parte 2 Dialogo Terzo Parte 3

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