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Dialogo Primo – Terza Parte - Interlocutori: Sofia, Saulino, Mercurio. Appresso apre la bocca il magno protoparente, e fassi in cotal tenore udire: - Se gloriosa, o dei, fu la nostra vittoria contra gli giganti, che in breve spacio di tempo risorsero contra di noi, che erano nemici stranieri ed aperti, che ne combattevano solo da l'Olimpo, e che non possevano né tentavano altro che de ne precipitar dal cielo; quanto più gloriosa e degna sarà quella di noi stessi, li quali fummo contra lor vittoriosi? Quanto più degna, dico, e gloriosa è quella di nostri affetti, che tanto tempo han trionfato di noi, che sono nemici domestici ed interni che ne tiranneggiano da ogni lato, e che ne hanno trabalsati e smossi da noi stessi? Se dunque di festa degno ne ha parso quel giorno che ne partorì vittoria tale di quale il frutto in un momento disparve, quanto più festivo dev'essere questo di cui la fruttuosa gloria sarà eviterna per gli secoli futuri? Séguite, dunque, d'essere festivo il giorno de la vittoria; ma da quel che si diceva de la vittoria de giganti, dicasi de la vittoria de gli Dei, perché in esso abbiamo vinti noi medesimi. Instituiscasi oltre festivo il giorno presente nel quale si ripurga il cielo, e questo sia più sollenne a noi, che abbia mai possuto essere a gli Egizii la trasmigrazione del popolo leproso, ed a gli Ebrei il transito dalla Babilonica cattivitade. Oggi il morbo, la peste, la lepra si bandisce dal cielo a gli deserti; oggi vien rotta quella catena di delitti e fracassato il ceppo de gli errori, che ne ubligano al castigo eterno. Or dunque, essendo voi tutti di buona voglia per procedere a questa riforma, ed avendo, come intendo, tutti premeditato il modo con cui si debba e possa venire al fatto; acciò che queste sedie non rimagnano disabitate, ed agli trasmigranti sieno ordinati luoghi convenienti, io cominciarò a dire il mio parere circa uno per uno; e prodotto che sarà quello, se vi parrà degno d'essere approvato, ditelo; se vi sembrarà inconveniente, esplicatevi; se vi par che si possa far meglio, dechiaratelo; se da quello si deve togliere, dite il vostro parere; se vi par che vi si deve aggiongere, fatevi intendere; perché ognuno ha plenaria libertà di proferire il suo voto; e chiunque tace, se intende affirmare. - Qua assorsero alquanto tutti gli dei, e con questo segno ratificâro la proposta.
Per dar, dunque, principio e cominciar da capo, disse Giove, veggiamo prima le cose che sono da la parte boreale, e provediamo circa quelle; e poi a mano a mano per ordine faremo progresso sin al fine. Dite voi: che vi pare, e che giudicate di quella Orsa? - Gli dei, alli quali toccavano le prime voci, commesero a Momo che rispondesse; il qual disse: - Gran vituperio, o Giove, e più grande che tu medesimo possi riconoscere, che nel luogo del cielo più celebre, là dove Pitagora (che intese il mondo aver le braccia, gambe, busto e testa) disse essere la parte superior di quello, alla quale è contraposto l'altro estremo che dice essere l'infima regione; iuxta quello che cantò un Poeta di quella setta:
Hic vertex nobis semper sublimis, at illum Sub pedibus Styx atra videt manesque profundi:
là dove gli marinaii si consultano negli devii ed incerti camini del mare, là verso dove alzano le mani tutti gli travagliati che patiscono tempeste: là verso dove ambivano gli giganti: là dove la generazion fiera di Belo facea montare la torre di Babelle: là dove gli maghi del specchio calibeo cercano gli oracoli de Floron, uno de' grandi principi de gli arctici spiriti: là dove gli Cabalisti dicono che Samaele volse inalzare il solio per farsi assomigliante al primo altitonante; hai posto questo brutto animalaccio, il quale, non con una occhiata, non con un rivoltato mustaccio, non con qualche imagine di mano, non con un piede, non con altra meno ignobil parte del corpo, ma con una coda (che contra la natura de l'orsina specie volse Giunone che gli rimanesse attaccata dietro), quasi come un indice degno di tanto luogo, fai che vegna a mostrar a tutti terrestri, maritimi e celesti contemplatori il polo magnifico e cardine del mondo. Quanto, dunque, facesti male de vi la inficcare, tanto farai bene di levarnela; e vedi di farne intendere dove la vuoi mandare, e che cosa vuoi ch'in suo loco succeda. - Vada, disse Giove, dove a voi altri pare e piace, o a gli Orsi d'Inghilterra, o a gli Orsini o Cesarini di Roma, se volete che stia in città a bell'aggio. - A gli claustri di Bernesi vorei che la fusse impriggionata, disse Giunone. - Non tanto sdegno, mia moglie, replicò Giove; vada dove si vuole, purché sia libera e lasce quel loco nel quale, per essere la sedia più eminente, voglio che faccia la sua residenza la Veritade; perché là le unghie de la detrazione non arivano, il livore de l'invidia non avelena, le tenebre de l'errore non vi profondano. Ivi starà stabile e ferma; là non sarà exagitata da flutti e da tempeste; ivi sarà sicura guida di quelli che vanno errando per questo tempestoso pelago d'errori; ed indi si mostrarà chiaro e terso specchio di contemplazione. -Disse il padre Saturno: - Che farremo di quella Orsa maggiore? Propona Momo. - E lui disse: - Vada, perché la è vecchia, per donna di compagna di quella minore giovanetta; e vedete che non gli dovegna roffiana; il che se accaderà, sia condannata ad servir a qualche mendico, che con andarla mostrando e con farla cavalcare da fanciulli ed altri simili, per curar la febre quartana ed altre picciole infirmitadi, possa guadagnar da vivere per lui e lei. - Dimanda Marte: - Che farremo di quel nostro Draggonaccio, o Giove? - Dica Momo, - rispose il padre. E quello: - La è una disutile bestia, e che è meglio morta che viva. Però, se vi pare, mandiamola ne l'Ibernia, o in un'isola de l'Orcadi a pascere. Ma guardate bene, ché con la coda è dubio che non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitar in mare. - Rispose Apolline: - Non dubitar, o Momo: perché ordinarò a qualche Circe o Medea, che con quei versi con gli quali si seppe addormentare quando era guardiano de le poma d'oro, adesso di nuovo insoporato sia trasportato pian pianino in terra. E non mi par che debba morire, ma si vada mostrando ovunque è barbara bellezza: perché le poma d'oro saranno la beltade, il drago sarà la fierezza, Giasone sarà l'amante, l'incanto ch'addormenta il drago, sarà che
Non è sì duro cor che proponendo, Tempo aspettando, piangendo ed amando, E talvolta pagando, non si smuova: Né sì freddo voler, che non si scalde.
Che cosa vuoi che succeda al suo luogo, o padre? - La prudenza, rispose Giove, la quale deve essere vicina alla Veritade; perché questa non deve maneggiarsi, moversi ed adoperarsi senza quella, e perché l'una senza la compagnia de l'altra non è possibile che mai profitte o vegna onorata. - Ben provisto, - dissero i dei. Soggionse Marte: - Quel Cefeo, quando era re, malamente seppe menar le braccia per aggrandir quel regno che la fortuna gli porse. Ora, non è bene che qua, in quel modo che fa, spandendo di tal sorte le braccia ed allargando i passi, si faccia cossì la piazza grande in cielo. - È bene, dunque, disse Giove, che se gli dia da bere l'acqua di Lete, a fin che si dismentiche, ponendo in oblio la terrena e celeste possessione, e rinasca un animale che non abbia né gambe né braccia. - Cossì deve essere, soggionsero li dei: ma che in loco suo succeda la Sofia, perché la poverina deve anch'ella participar de gli frutti e fortune de la Veritade, sua indissociabile compagna, con la quale sempre ha comunicato nelle angustie, afflizioni, ingiurie e fatiche; oltre che, se non è costei che li coadministre, non so come ella potrà essere mai gradita ed onorata. - Molto volentieri, disse Giove, lo accordo, e vi consento o Dei; perché ogni ordine e raggione il vuole; e massime, perché malamente crederei aver reposta quella nel suo luogo senza questa, ed ivi non si potrebe trovar contenta, lontana della sua tanto amata sorella e diletta compagna.
De l'Arctofilace, disse Diana, che, sì ben smaltato di stelle, guida il carro, che credi, Momo, che si debba fare? - Rispose: - Per esser lui quel Arcade, frutto di quel sacrilego ventre, e quel generoso parto che rende testimonio ancora de gli orrendi furti del gran padre nostro, deve partirsi da qua: or provedete voi de la sua abitazione. -Disse Apolline: - Per esser figlio di Calisto, séguite la madre! - Soggionse Diana: - E perché fu cacciatore d'orsi, séguite la madre, con questo che non gli ficchi qualche punta di partesana adosso. - Aggiunse Mercurio: - E perché vedete, che non sa far altro camino, vada pur sempre guardando la madre, la quale se ne devria ritornare all'Erimantide selve. - Cossì sarà meglio, disse Giove: e perché la meschina fu violata per forza, io voglio riparar al suo danno, da quel loco rimettendola, se cossì piace a Giunone ancora, nella sua pristina bella figura. - Mi contento, disse Giunone, quando prima l'arrete rimessa nel grado della sua verginità, e per consequenza in grazia de Diana. - Non parliamo più di questo per ora, disse Giove; ma veggiamo che cosa vogliamo far succedere al luogo di costui. - Dopo fatte molte e molte discussioni: - Ivi, sentenziò Giove, succeda la Legge, perché questa ancora è necessario che sia in cielo, atteso che cossì questa è figlia della Sofia celeste e divina, come quell'altra è figlia de l'inferiore, in cui questa Dea manda il suo influsso ed irradia il splendor del proprio lume, in quel mentre che va per gli deserti e luoghi solitarii de la terra. - Ben disposto, o Giove, disse Pallade; perché non è vera, né buona legge quella che non ha per madre la Sofia, e per padre l'intelletto razionale; e però là questa figlia non deve star lungi da la sua madre; ed a fin che da basso contempleno gli uomini come le cose denno essere ordinate appreso loro, si proveda qua in questa maniera, se cossì piace a Giove. Appresso séguita la sedia della corona Boreale, fatta di safiro, arrichita di tanti lucidi diamanti, e che fa quella bellissima prospettiva con quattro e quattro, che son otto, carbuncoli ardenti. Questa, per esser cosa fatta a basso, trasportata da basso, mi par molto degna d'esser presentata a qualche eroico prencipe, che non ne sia indegno; però veda il nostro padre, a chi manco meno indegnamente deve essere presentata da noi. - Rimagna in cielo, rispose Giove, aspettando il tempo, in cui devrà essere donata in premio a quel futuro invitto braccio, che con la mazza ed il fuoco riportarà la tanto bramata quiete alla misera ed infelice Europa, fiaccando gli tanti capi di questo peggio che Lerneo mostro, che con moltiforme eresia sparge il fatal veleno, che a troppo lunghi passi serpe per ogni parte per le vene di quella. - Aggiunse Momo: - Bastarà che done fine a quella poltronesca setta di pedanti, che senza ben fare secondo la legge divina e naturale, si stimano e vogliono essere stimati religiosi grati a' dei, e dicono che il far bene è bene, il far male è male; ma non per ben che si faccia o mal che non si faccia, si viene ad essere degno e grato a' dei; ma per sperare e credere secondo il catechismo loro. Vedete, dei, se si trovò mai ribaldaria più aperta di questa, che da quei soli non è vista, li quali non veggon nulla.
Certo, disse Mercurio, colui che non conosce nulla forfantaria, non conosce questa ch'è la madre di tutte. Quando Giove istesso e tutti noi insieme proponessimo tal patto a gli uomini, deremmo essere più abominati che la morte, come quei che, in grandissimo pregiudizio del convitto umano, non siamo solleciti d'altro, che della vana gloria nostra. - Il peggio è, disse Momo, che ne infamano, dicendo che questa è instituzione de superi; e con questo che biasmano gli effetti e frutti, nominandoli ancor con titulo di defetti e vizii. Mentre nessuno opera per essi, ed essi operano per nessuno (perché non fanno altra opra che dir male de l'opre), tra tanto vivono de l'opre di quelli ch'hanno operato per altri che per essi, e che per altri hanno instituiti tempii, capelle, xeni, ospitali, collegii ed universitadi; onde sono aperti ladroni ed occupatori di beni ereditarii d'altri; li quali, se non son perfetti, né cossì buoni, come denno, non saranno però (come sono essi) perversi e perniciosi al mondo; ma più tosto necessarii alla republica, periti ne le scienze speculative, studiosi de la moralitade, solleciti circa l'aumentar il zelo e la cura di giovar l'un l'altro, e mantener il convitto (a cui sono ordinate tutte leggi), proponendo certi premii a' benefattori, e minacciando certi castighi a' delinquenti. Oltre, mentre dicono ogni lor cura essere circa cose invisibili, le quali né essi, né altri mai intesero, dicono ch'alla consecuzion di quelle basta il solo destino, il quale è immutabile, mediante certi affetti interiori e fantasie, de quali massimamente gli dei si pascano. - Però, disse Mercurio, non gli deve dar fastidio, né eccitar il zelo, che alcuni credeno le opere essere necessarie; perché tanto il destino di quelli, quanto il destino loro che credeno il contrario, è prefisso, e non si cangia perché il lor credere o non credere si cangie, e sia d'una ed un'altra maniera. E per la medesima caggione essi non denno essere molesti a color che non gli credeno, e che le stimano sceleratissimi; perché non per questo che gli vegnono a credere e stimarli uomini da bene, cangiaranno destino. Oltre che, secondo la lor dottrina, non è in libertà de l'elezion loro di mutarsi a questa fede. Ma gli altri che credeno il contrario, possono giuridicamente, secondo la lor conscienza, non solamente essere a lor molesti; ma, oltre, stimar gran sacrificio a gli dei e beneficio al mondo di perseguitarli, ammazzarle e spengerli da la terra, perché son peggiori che li bruchi e le locuste sterili e quelle arpie le quali non opravano nulla di buono, ma solamente que' beni che non posseano vorare, strapazzavano ed insporcavano con gli piedi, e faceano impedimento a quei che s'esercitavano..
Tutti quei, ch'hanno giudicio naturale, disse Apolline, giudicano le leggi buone, perché hanno per scopo la prattica; e quelle in comparazione son megliori, che donano meglior occasione a meglior prattica: perché de tutte leggi altre son state donate da noi, altre finte da gli uomini, massime per il comodo de l'umana vita; e per ciò che alcuni non veggono il frutto de lor meriti in quella vita, però gli vien promesso e posto avanti gli occhi de l'altra vita il bene e male, premio e castigo, secondo le lor opre. De tutti quanti, dunque, che diversamente credeno ed insegnano, disse Apollo, questi soli son meritevoli d'esser perseguitati dal cielo e da la terra, ed esterminati come peste del mondo, e non son più degni di misericordia che gli lupi, orsi e serpenti, nel spenger de quali consiste opra meritoria e degna: anzi tanto incomparabilmente meritarà più chi le toglierà, quanto pestilenza e ruina maggiore apportano questi che quelli. Però ben specificò Momo, che la Corona australe a colui massime si deve, il quale è disposto dal fato a togliere questa fetida sporcaria del mondo.
Bene, disse Giove, cossì voglio, cossì determino, che sia dispensata questa corona, come raggionevolmente Mercurio, Momo ed Apolline hanno proposto, e voi altri consentite. Questa pestilenza, per essere cosa violenta e contra ogni legge e natura, certo non potrà molto durare; come possete accorgervi, ch'hanno costoro il lor destino o fato nemicissimo, perché mai crebbe il numero di questi, se non a fine di far più numerosa ruina. - È ben degno premio, disse Saturno, la corona per colui, che le toglierà via; ma a questi perversi è picciola ed improporzionata pena, che sieno solamente spenti dalla conversazion de gli uomini: però mi par oltre giusto che, lasciato ch'aranno quel corpo, appresso, per molti lustri e per più centinaia d'anni, da corpo in corpo trasmigrando per diverse vice e volte, se ne vadano ad abitar in porci, che sono gli più poltroni animali del mondo, o vero sieno ostreche marine attaccate ai scogli.
La giustizia, disse Mercurio, vuole il contrario. Mi par giusto, che per pena de l'ocio sia data la fatica. Però sarà meglio, che vadano in asini, dove ritegnano la ignoranza e si dispogliano de l'ocio; ed in quel supposito, in Mercurio é di continuo lavore, abbiano poco fieno e paglia per cibo, e molte bastonate per guidardone. - Questo parere approvâro tutti gli Dei insieme. Allora sentenziò Giove, che la corona sia eterna di colui che gli arà donata l'ultima scossa; ed essi per tremilia anni da asini sempre vadano migrando in asini. Sentenziò oltre, che in loco di quella corona particolare succedesse la ideale e comunicabile in infinito, perché da quella possano essere suscitate infinite corone, come da una lampade accesa senza sua diminuzione, e senza scemarsi punto di virtude ed efficacia, se ne accendeno infinite altre. Con la qual corona intese che fusse aggionta la spada ideale, la quale similmente ha più vero essere che qualsivoglia particolare, sussistente infra gli limiti delle naturali operazioni. Per la qual spada e corona intende Giove il giudicio universale, per cui nel mondo ogniuno vegna premiato e castigato, secondo la misura de gli meriti e delitti. Approvâro molto questa provisione tutti gli dei, per quel che conviene che alla Legge abbia la sedia vicina il Giudicio, perché questo si deve governar per quella, e quella deve esercitarsi per questo; questo deve esseguire, e quella dettare; in quella ha da consistere tutta la teoria, in questo tutta la pratica.
Dopo fatti molti discorsi e digressioni in proposito di questa sedia, mostrò Momo a Giove Ercole, e gli disse: - Or, che faremo di questo tuo bastardo? - Avete udito, dei, rispose Giove, la caggione per la quale il mio Ercole deve andarsene con gli altri altrove. Ma non voglio che la sua andata sia simile a quella de tutti gli altri; perché la causa, modo e raggione de la sua assumpzione è stata molto dissimile, per ciò che solo e singularmente per le virtudi e meriti de gli gesti eroici s'ha meritato il cielo; e benché spurio, degno però di essere legitimo figlio di Giove s'è dimostrato. E vedete aperto, che solo la causa de l'essere adventizio, e non naturalmente dio, fa che li sia negato il cielo; ed è il mio, non suo errore quello che per lui io vegno, come è stato detto, notato. E credo, che vi rimorda la conscienza; ché se uno da quella regola e determinazion generale devesse essere eccettuato, questo solo derrebe essere Ercole. Però, se lo togliemo da qua e lo mandamo in terra, facciamo che non sia senza suo onore e riputazione, la quale non sia minore che se continuasse in cielo. -Assorsero molti, dico, la più gran parte de gli dei, e dissero: - Con maggiore, se maggior si puote. - Instituisco, dunque, Giove soggionse, che con questa occasione a costui, come a persona operosa e forte, sia donata tal commissione e cura, per quale si faccia dio terrestre, talmente grande, che vegna da tutti stimato maggior che quando era autenticato per celeste semideo. - Risposero que' medesimi: - Cossì sia. - E perché alcuni de quegli né erano assorti allora, né parlavano adesso, si converse Giove a loro, e gli disse, che ancor essi si facessero intendere. Però di quelli alcuni dissero: Probamus; - altri dissero: Admittimus. -Disse Giunone: Non refragamur. - Indi si mosse Giove a proferir il decreto in questa forma: - Per causa che in luoghi de la terra in questi tempi si scuoprono de mostri, se non tali quali erano a' tempi de gli antichi cultori di quella, forse peggiori; io, Giove, padre e proveditor generale, instituisco, che, se non con simile o maggior mole di corpo, dotato però ed inricchito di maggior vigilanza, di sollecitudine, vigor d'ingegno ed efficacia di spirto, vada Ercole, come mio luogotenente e ministro del mio potente braccio, in terra; e come vi si mostrò grande prima, quando fu nato e parturito in quella, con aver superati e vinti tanti fieri mostri; e secondo, quando rivenne a quella vittorioso da l'inferno, apparendo insperato consolator de gli amici, ed inaspettato vendicator de gli oltragiosi tiranni; cossì, al presente, qual nuovo e tanto necessario e bramato proveditore, vegna la terza volta visto da la madre; e discorrendo per gli tenimenti di quella, veda se di bel nuovo per le cittadi Arcadiche vada dissipando qualche Nemeo leone; se il Cleoneo di nuovo appaia in Tessaglia. Guarde se quell'idra, quella peste di Lerne, sia risuscitata a prendere le sue teste rigermoglianti. Scorga se ne la Tracia sia di nuovo risorto quel Diomede, e chi de sangue de peregrini pascea ne l'Ebro gli cavalli. Volte l'occhio a la Libia, se forse quell'Anteo, che tante volte ripigliava il spirto, abbia pur una volta ripigliato il corpo. Considere se nel regno Ibero è qualche tricorporeo Gerione. Alze il capo e veda se per l'aria a questo tempo volano le perniciosissime Stinfalidi: dico, se volano quelle Arpie che talvolta soleano annuvolar l'aria ed impedir l'aspetto de gli astri luminosi. Guate se qualch'ispido cinghiale va spasseggiando per gli Erimantici deserti. Se s'incontrasse a qualche toro, non dissimile a quello che donava orrido spavento a tanti popoli; se bisognasse far uscir a l'aria aperto qualche triforme Cerbero che latre, a fin che vomisca l'aconito mortifero; se circa gli crudi altari versa qualche carnefice Busire; se qualche cerva, che di dorate corna adorna il capo, appare per que' deserti, simile a quella che con gli piedi di bronzo correa veloce, pari al vento; se qualche nova regina Amazonia ha congregate le copie rubelle; se qualche infido e vario Acheloo con inconstante, moltiforme e vario aspetto tiranneggia in qualche parte; se sono Esperidi ch'in guardia del drago han commese le poma d'oro; se di nuovo appare la celibe ed audace Regina del popolo Termodonzio; se per l'Italia va grassando qualche Lancinio ladro, o discorra qualche Cacco predatore che con il fumo e fiamme defenda gli suoi furti; se questi, o simili, o altri nuovi ed inauditi mostri gli occorreranno, e se gli aventaranno, mentre per il spacioso dorso de la terra verrà, lustrando; svolte, riforme, discacce, perseguite, leghe, domi, spoglie, dissipe, rompa, spezze, franga, deprima, sommerga, brugge, casse, uccida, annulle. Per gli quai gesti, in Mercurio é di tante e sì gloriose fatiche, ordino che ne gli luoghi dove effettuarà le sue eroiche imprese, gli sieno drizzati trofei, statue, colossi, ed oltre fani e tempii, se non mi contradice il fato. Veramente, o Giove, disse Momo, adesso mi pari a fatto a fatto dio da bene; perché veggio che la paternale affezione non ti trasporta a passar gli termini circa la retribuzione secondo gli meriti del tuo Alcide; il quale se non è degno di tanto, è meritevole oltre forse di qualche cosa di vantaggio, anco a giudicio di Giunone, la qual veggio che ridendo pur accetta quel ch'io dico.
Ma ecco il mio tanto aspettato Mercurio, o Saulino, per cui conviene che questo nostro raggionamento si differisca ad un'altra volta. Però piacciati discostarti e lasciarne privatamente raggionar insieme.
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Spaccio della Bestia Trionfante ▪ Epistola Esplicatoria ▪ Dialogo Primo parte 1 ▪ Dialogo Primo parte 2 ▪Dialogo Primo parte 3 ▪ ▪ Dialogo Secondo Parte 1 ▪ Dialogo Secondo Parte 2 ▪ Dialogo Secondo Parte 3 ▪ ▪ Dialogo Terzo Parte 1 ▪ Dialogo Terzo Parte 2 ▪ Dialogo Terzo Parte 3 ▪ Musica: "Licet eger cum egrotis" (Carmina Burana secolo XIII) |