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I Rakshasa a consiglio
Rama sembrava tornato a nuova vita. Quando ebbe ascoltato di nuovo tutta la storia dalle labbra di Hanuman, sentì che qualcosa era rinato nel suo cuore, come accade quando si ritrova una persona che è essenziale alla propria esistenza. Abbracciò il suo fedele devoto e lo ringraziò calorosamente. Tennero poi un consiglio militare e ascoltarono la descrizione delle forze difensive dei nemici. Rama e Sugriva dettero disposizioni per l'immediata partenza. Mentre si preparavano, i Vanara manifestavano la loro gioia e il loro ardore guerriero.
Nel frattempo, a Lanka, Ravana era preoccupato. Aveva visto cosa era stato in grado di fare Hanuman, e da solo. Sebbene la sua potenza personale e quella del suo esercito desse ampie garanzie, in cuor suo si sentiva preoccupato. Qualcosa di tutta quella storia lo angosciava. Non era come le altre battaglie che aveva intrapreso. C'era qualcosa di diverso che sfuggiva al suo controllo e alla sua comprensione. Chiamò a consiglio tutti i generali e i principali ministri.
I Rakshasa lo videro preoccupato come mai lo avevano visto prima di battaglie che si erano prospettate ben più impegnative di quella. Secondo loro non si trattava, in fondo, che di due uomini e di un branco di scimmie. Cercarono di rincuorarlo.
“Non ti vediamo sereno e fiducioso come sempre prima di un confronto,” disse Prahasta. “Forse le minacce di quella scimmia ti hanno intimorito? Ma di cosa ti preoccupi? Non ne hai ragione alcuna. Hai dimenticato la tua potenza militare e la nostra? Come puoi preoccuparti di due uomini e di qualche scimmia quando hai sconfitto i più grandi Deva dell'universo? Nessuno può sconfiggere noi quando siamo uniti sul campo di battaglia, e se anche ciò accadesse nessuno può sconfiggere te quando, sul tuo carro Pushpaka, ti scagli tra le file degli eserciti nemici. Maestà, tranquillizzati, possiamo distruggere qualsiasi nemico. Se quella scimmia tornerà con i suoi compagni e con Rama e Lakshmana, daremo loro battaglia e li stermineremo.”
Prahasta e gli altri rassicurarono Ravana e gli infusero coraggio. Ma il virtuoso Vibhisana non era d'accordo su quelle scene di cieco fanatismo.
“Cosa state dicendo voi tutti? Ravana, non ascoltare consigli insensati. Non hai visto quanti cattivi presagi sorgono ogni momento intorno a te e a Lanka? Questi presagi annunciano la tua sconfitta. Hai già dimenticato quello che ha saputo fare a Lanka quella che loro chiamano una semplice scimmia? Cosa hanno potuto fare i tuoi valorosi generali per impedire quello scempio? E Rama e Lakshmana sarebbero due piccoli uomini? E il massacro di quattordicimila potenti guerrieri? Anche quello dimenticato?
“La maniera migliore per fronteggiare un pericolo non è quello di sminuirne l'entità, ma semmai il contrario. Io sono sicuro che da una battaglia del genere usciremmo sconfitti e le nostre donne piangerebbero i loro morti. Ci aspetterebbero giorni di lutti.
“Sii saggio, fratello: restituisci Sita a Rama e salva così la tua vita e quella di milioni di persone che ti sono fedeli.”
Un brusio di disapprovazione accompagnò le ultime parole di Vibhisana. Ravana non avrebbe voluto ascoltare quelle cose e l'entusiasmo che gli avevano suscitato gli incoraggiamenti dei suoi generali si spense. Si alzò di scatto e si ritirò nei suoi appartamenti privati. Passò una notte insonne.
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Altri consigli
Il giorno dopo, quando Ravana si ripresentò nella sala del consiglio, tra la generale disapprovazione Vibhisana tentò ancora di riportare Ravana alla ragione, ma Ravana si sentiva troppo attratto a Sita e non poté accettare le cose come realmente erano. Ignorò completamente Vibhisana e lo interruppe, rivolgendosi a Prahasta.
“Ho preso la mia decisione. Non rinuncerò a Sita. Io non posso dimostrare paura davanti a un nemico così inconsistente. Io sono l'invincibile Ravana e mai ho conosciuto l'onta della sconfitta. Rama e il suo esercito di scimmie non mi fanno paura. Li combatteremo e li distruggeremo. Disponi quindi le nostre truppe in difesa della città e falle preparare alla guerra.”
Tutti gridarono dalla gioia e festeggiarono la decisione del loro re. In quel momento un rumore assordante fermò la discussione. Una guardia avvertì Ravana che il suo fratello più giovane Kumbhakarna si era appena svegliato da un lungo sonno e stava arrivando.
Kumbhakarna era il più forte Rakshasa che fosse mai esistito. Era gigantesco e il solo pensare a lui incuteva terrore. Quando entrò tutti lo salutarono rispettosamente. Rama lo informò degli ultimi avvenimenti. Kumbhakarna non sembrò condividere l'atto del rapimento di Sita, tuttavia lo rassicurò che in caso di guerra gli avrebbe dato il suo appoggio. Ravana pensò che se Kumbhakarna avesse combattuto la vittoria sarebbe stata certa.
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Perché non la prendi con la forza?
Mahaparsva, uno dei più famosi tra i generali, intervenne.
“Perché, visto che sei tanto attratto a quella donna, non la prendi con la forza? In fin dei conti sei il re qui, e tutto ciò che si trova su questo territorio è tuo di diritto.”
Vibhisana ebbe un tremito di rabbia al vile suggerimento. Ravana sembrò riflettere per un po’.
“Sì, è giusto che lo sappiate,” disse poi. “C'è una cosa che ho tenuta segreta per tanto tempo e che ora voglio raccontarvi. Non posso prendere una donna contro la sua volontà, altrimenti morirei. Un giorno violentai un'Apsara di nome Punjikasthala che corse da Brahma chiedendo vendetta. Allora Brahma s'infuriò e mi maledisse:
“Ravana, se ancora prenderai una donna contro la sua volontà, le tue teste esploderanno in cento pezzi.”
“Cari amici, è solo per questa ragione che non ho ancora preso Sita con la forza. Se non avessi sopra di me quella terribile maledizione avrei già soddisfatto il più caro dei miei desideri.”
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Vibhisana lascia Lanka
Il virtuoso Vibhisana, a quel punto, tentò ancora di convincerlo a riportare Sita dal marito, ma tutti disapprovarono quel consiglio ritenendolo un atto di codardia. Perdendo la pazienza, Ravana lo insultò e Vibhisana decise di lasciare Lanka e di andare ad aiutare Rama contro quelle forze malefiche. Anche se quelli contro cui avrebbe combattuto erano i suoi stessi parenti ed amici, Vibhisana pensò che la verità era più importante dei temporanei vincoli familiari. Sdegnato, lasciò la città. Subito dopo Ravana si pentì di aver trattato Vibhisana in quella maniera e lo mandò a cercare, ma non lo trovò più.
In meno di un'ora Vibhisana arrivò dove gli eserciti di Rama erano accampati e annunciò la sua venuta. Il suo arrivo causò malumore. Molti Vanara erano diffidenti, ma Hanuman lo riconobbe e ricordò come egli lo avesse difeso contro il parere di tutti gli altri. Vibhisana fu accettato come amico e alleato e portato di fronte a Rama. Si inchinò rispettosamente.
“Rama, io sono Vibhisana,” disse, “il fratello minore di Ravana e Kumbhakarna. Nel mio cuore ho sempre disapprovato le attività demoniache di mio fratello, anche nel caso del rapimento di Sita, ma egli non ha voluto ascoltare i miei consigli. Per l'ennesima volta oggi ho cercato di fargli capire quali sono le cose giuste da fare e mi ha insultato. Non voglio più stare dalla parte dei malvagi e degli oppressori, quindi vorrei aiutarti a vincere questa battaglia. Io conosco tutto su Ravana, sui suoi soldati e sulle fortificazioni di Lanka, e ti darei un prezioso contributo.”
Nonostante le diffidenze di molti, Rama, che sapeva leggere nel cuore delle persone sincere, lo accettò come amico. Così il giusto Vibhisana si unì a Rama.
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Il ponte sul mare
Nel frattempo le spie Rakshasa, che erano disseminate ovunque, informarono il re che l'esercito dei
Vanara si stava avvicinando. Ravana allora convocò Shuka, uno dei suoi fidati ambasciatori e gli
affidò una missione.
“I Vanara si stanno avvicinando. Non pensavo che fossero così temerari, eppure stanno arrivando.
Cerchiamo di evitare la guerra. Porta ai loro capi un messaggio per tentare di scoraggiarli. E quando
sarai fra di loro osserva bene il loro numero e la vera entità della loro forza. Tu sei esperto, sai
riconoscere le capacità di un nemico. Vai, dunque, e torna presto.”
Shuka viaggiò velocemente e arrivò dove i Vanara erano accampati. Rimase stupefatto nel vedere il
loro numero: sembravano un oceano che si muoveva brulicante, dove ogni goccia era un guerriero
determinato ad avere giustizia. Chiese del loro capo e fu condotto a Sugriva, a cui lesse il
messaggio. Era così insolente e aggressivo che alcuni Vanara se la presero con Shuka e lo
malmenarono. Rama prontamente ordinò di fermarsi, ammonendoli che quello non era un
comportamento civile. Lo fece liberare e gli permise di terminare di leggere il messaggio. Era
inviata personalmente a Sugriva.
“... Non aiutare, quindi, Rama in questa impresa disperata, dove perderai tutto, compresa la vita,”
terminò l’intimorito Shuka. “Schierati dalla mia parte e ti coprirò di ricchezze e di gloria!”
“Avete sentito che viltà?” gridò Sugriva appena ebbe finito di ascoltare il messaggio. “Ha paura di
noi e cerca di convincerci ad abbandonare la missione.”
Tutti scoppiarono con delle risate di scherno. Sugriva riprese:
“Ascoltami bene, messaggero. Dì questo al tuo padrone. Il coraggio è una ricchezza che lui non ha e
che quindi non mi può dare. Digli che presto arriveremo a Lanka e distruggeremo lui, la sua stirpe
intera e la sua città. Noi non tradiremo Rama.”
A Shuka non fu permesso di tornare subito a Lanka: i Vanara pensarono bene di liberarlo quando
sarebbero stati più vicini all'isola.
Pochi giorni dopo arrivarono sulle rive dell'oceano. Rama osservò il vasto corpo d'acqua, un enorme
e insormontabile mare che lo separava da Lanka. Come attraversare tale distanza? Un intero
esercito, poi, come l'avrebbe attraversato? Sembrava un problema irrisolvibile. L'unica soluzione
era che l'oceano stesso li facesse passare.
“Io chiederò a Varuna di apparire di fronte a me,” pensò Rama, “e poi gli chiederò il favore di
lasciarci passare.”
Rama raccolse dell'erba kusha e ne fece un cuscino. Sopra quell'erba santa si sedette in meditazione.
Così stette interi giorni e notti, meditando e chiedendo a Varuna di apparire. Passarono diversi
giorni, ma il Deva non appariva. Agitato al pensiero di Sita, il desiderio di rivederla e di liberarla gli
rendeva insopportabile quell'attesa inerte. Perse la calma e sentì la furia crescergli nel cuore.
“Se Varuna non appare, io distruggerò l'oceano con tutti i suoi abitanti!”
Estraendo dalla faretra enormi frecce, egli prese a scagliarle senza interruzioni, una dopo l'altra, con
violenza inaudita, uccidendo una moltitudine di pesci. Le acque si agitarono così tanto che l'oceano
straripò in più punti e ci fu una terribile tempesta. Ovunque era caos. Ma Varuna ancora non si
decideva ad apparire. E Rama prese la terribile arma presieduta dal mantra a Brahma e la fissò
sull'arco. Solo allora, vedendo prossima la sua distruzione, Varuna emerse dalle acque tempestose e
si inginocchiò davanti a Rama con le mani giunte.
“Perdona la mia offesa verso di te, o Rama,” disse in tono di preghiera. “Io vi lascerò passare senza alcun dubbio. Chiama Nala, il figlio di Visvakarma, e digli di costruire un ponte sopra le mie acque. Non preoccuparti. Io sorreggerò il vostro peso.”
Gioiosamente i forti Vanara cominciarono a prendere degli enormi macigni, dei picchi di montagna, alberi, o qualsiasi altra cosa che potesse far volume nella costruzione del ponte, e dopo aver scritto il nome sacro di Rama su di esse, li gettarono nelle acque. E come per miracolo, nonostante il peso, non affondarono. Ben presto, sotto l'esperta direzione di Nala, il ponte fu ultimato. Gioiosamente, i Vanara cominciarono la traversata.
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L’esercito arriva a Lanka
Lanka fu avvistata. Rama ordinò che Shuka fosse rilasciato e gli disse di correre dal suo re a trasmettergli il messaggio e la loro determinazione di liberare Sita ad ogni costo. Shuka non si fece pregare. Corse da Ravana e gli raccontò tutto.
“... Mio caro re,” raccontò con voce trafelata, “inoltre non hai idea della loro potenza militare. Il loro numero è tale che non può essere neanche immaginato, e la loro forza fisica personale è straordinaria. Non hai speranze in questa battaglia. Restituisci Sita, per il bene di tutti.”
Sorpreso e furente nell'ascoltare uno dei suoi più fedeli aiutanti tessere le lodi dei suoi nemici, Ravana descrisse, d'altra parte, l'immensa forza dei Rakshasa. Ma proprio mentre parlavano uno dei suoi generali gli portò la notizia che il nemico era giunto nell'isola.
Ravana mandò ancora Shuka, stavolta accompagnato da un altro ambasciatore di fiducia di nome Sharana, a spiare l’esercito avversario e a portargli notizie più dettagliate. Ma mentre cercavano di spiare protetti dal buio della notte, Vibhisana li scoprì e li catturò. Rama vide le due spie e sorrise:
“Siete venuti per spiarci? Potevate chiederlo,” disse ironicamente. “Vi avremmo fatto vedere tutto noi stessi. Venite.”
E li portò a fare un giro accurato del suo esercito. Poi li rilasciò. I due tornarono da Ravana e gli diedero la descrizione desiderata.
“Abbiamo visto la potenza militare dei nostri nemici. Ciò che possiamo dirti, a questo proposito, è solo questo: libera Sita, per il bene tuo e di tutto il popolo.”
Shuka e Sharana erano due dei suoi ministri e la loro fedeltà era fuori discussione. Perciò si stupì di tali descrizioni e cominciò a temere che corrispondessero alla verità. Ravana decise di andare a controllare di persona. Insieme ad altri salì nervosamente le scale della sua torre più alta e appena si affacciò vide uno spettacolo impressionante. Non lontano dalle mura della città si stendeva a perdita d'occhio un immenso tappeto vivente brulicante di Vanara. Era incredibile. Milioni e milioni di possenti nemici si dirigevano lentamente ma inesorabilmente verso la città. Sembrava un mare inarrestabile di guerrieri assetati di sangue e di giustizia! Ravana era impressionato. Si rivolse a Sharana.
“Fedele amico, chi sono i capi di questo immenso esercito? Parlami di loro e illustrami le loro capacità.”
Sharana additò Hanuman, Sugriva, Angada, Nila, Nala, Jambavan, e descrisse dettagliatamente la loro forza personale. Poi parlò di tutti gli altri capi, descrivendoli come guerrieri invincibili sul campo di battaglia, tutti dotati di terribile prodezza.
Irritato, Ravana espulse Shuka e Sharana dalla corte e mandò altri Rakshasa a spiare il nemico, nella speranza che riportassero notizie più ottimistiche. Ma anche questi altri tornarono dal loro re riferendogli le stesse cose, e anche loro furono istericamente cacciati via.
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La falsa morte di Rama
Turbato, Ravana ebbe paura di perdere la guerra e soprattutto temette di perdere Sita, che desiderava follemente. Decise di fare un altro tentativo per conquistarla ed evitare la guerra.
C'era a Lanka un mago di nome Vidyujjihva che aveva capacità straordinarie nel creare illusioni. Grazie ai suoi poteri, creò una testa perfettamente uguale a quella di Rama e andarono a portarla a Sita. Quando arrivarono, gliela gettarono ai piedi.
“Eccolo, il tuo caro consorte,” gridò Ravana. “Io l'ho ucciso e decapitato. Ora accettami come marito e goditi la vita.”
Ma ottenne l'effetto contrario. Credendo Rama ucciso e decapitato, Sita scoppiò in un pianto convulso e pensò solo a morire. Ma la discussione durò poco, interrotta bruscamente. Un'urgenza richiedeva la sua presenza altrove. Ravana lasciò Sita piangente e disperata. Nascosta dietro una siepe c'era Sarama, la moglie di Vibhisana. Lei sapeva quanto crudele Ravana fosse e conosceva molto bene il mago a cui si era rivolto.
“Casta signora, non piangere,” disse in un sussurro. “Non disperarti. Rama non può essere sconfitto da nessuno. Non esiste chi può ucciderlo. Io so che in questo momento il suo esercito ha posto Lanka in assedio e presto sarà qui da te. Non perdere fiducia. Io conosco chi ha prodotto quell'illusione. C'è un mago malvagio che può fare quelle cose. Io conosco bene Vidyujjihva. Non preoccuparti, presto le tue sofferenze termineranno.”
A quelle parole di Sarama, Sita si rincuorò e gliene fu grata. Arrivarono le prime notizie della battaglia imminente.
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La sfida di Sugriva
Malyavan era uno dei Rakshasa più anziani e saggi ed era molto rispettato nella corte. Vedendo segni premonitori sempre peggiori, consigliò Ravana di restituire Sita e di far pace con Rama. Ravana ruggì come un leone.
“Che tipo di incantesimo ha lanciato questo essere insignificante sui miei collaboratori, anche i più stretti, perché tutti abbiano paura di lui? Avete dimenticato che io sono Ravana? Io sono Ravana! Ho sconfitto in combattimento i più grandi Deva; e ora dovrei aver paura di due uomini e di un pugno di scimmie? Siete diventati tutti dei vigliacchi? O l'età vi ha oscurato la vista e la ragione? Da soli io, i miei figli e Kumbhakarna possiamo distruggere l'universo intero. Nessuno potrà mai dire che Ravana ha avuto paura, che si è tirato indietro davanti a una sfida!”
Gridando, Ravana si ritirò nelle sue stanze.
La sera stessa gli eserciti si schierarono in posizione di combattimento. La guerra era oramai inevitabile. I Rakshasa e i Vanara si scrutarono e si studiarono vicendevolmente, armati fino ai denti. Rama e i suoi collaboratori più intimi salirono sulla montagna Suvala ed ebbero una panoramica di Lanka. In questa attesa passò la notte.
Appena il sole sorse, Rama osservò attentamente la città e fu colpi- to da tanta bellezza. E lì in cima alla torre più alta, Rama scorse le dieci teste di Ravana. Era lui, in persona. Mentre lo guardavano, Sugriva non riuscì a contenere la furia e, senza consultare nessuno, spiccò un salto prodigioso e assalì Ravana dall'alto. Veloce come un'aquila, colpendolo con uno schiaffo poderoso, gli gettò a terra il diadema imperiale. Provocato, Ravana tentò di reagire, ma Sugriva, rimbalzando come una palla, gli sfuggì dalle mani e tornò da Rama.
Rama lo rimproverò severamente.
“Non essere così impulsivo. Se fosti caduto prigioniero avresti compromesso il successo della nostra missione.”
Ma era contento della dimostrazione di valore che Sugriva aveva dato.
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La guerra comincia
Rama pensò di fare un ultimo tentativo di evitare la guerra e risolvere tutto pacificamente. Mandò Angada come ambasciatore per cercare di convincere Ravana, ma fu tutto inutile. Trascinato dal proprio destino oramai scritto in chiare lettere, Ravana rifiutò ogni discussione. Cercò persino di far imprigionare Angada, che però riuscì a fuggire e a tornare da Rama.
Sri Rama Candra, nato sulla terra per distruggere i malvagi Rakshasa, capì che non c'era nient'altro da fare che assolvere il proprio compito. L'unica soluzione era la guerra. Diede quindi l'ordine di completare l'assedio di Lanka. All'interno della città c'era un gran fermento di preparativi per la guerra.
E le ostilità cominciarono.
L'inizio della battaglia fu scoraggiante per i Rakshasa. Migliaia di soldati furono colpiti da armi varie; e teste e braccia e gambe e corpi mutilati in varie tremende maniere cominciarono ad ammassarsi sul campo di battaglia. Molti grandi guerrieri caddero: le frecce di Rama e Lakshmana sibilavano nell'aria come serpenti velenosi alati, prendendo migliaia di vite. La maniera di combattere dei due fratelli era sovrumana.
Nessuno riusciva a vedere i loro movimenti, né le frecce: si vedevano solo quando arrivavano. La battaglia infuriava violentissima in ogni luogo.
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Indrajit lega Rama e Lakshmana
Grida di gioia, intanto, si levavano da un lato del campo di battaglia: Angada aveva sconfitto Indrajit, che era stato costretto a ritirarsi. Ma lui rientrò da un'altra parte del campo di battaglia ed evitando di incontrare Angada attaccò direttamente Rama e Lakshmana.
Il figlio di Ravana era in possesso di un'arma particolare chiamata naga- pasa, che dalle frecce produceva serpenti che legavano o uccidevano coloro che ne erano colpiti. Con grande destrezza Indrajit scagliò l'arma micidiale e, gravemente feriti, Rama e Lakshmana caddero sul terreno, immobili: sembravano morti. Quando i Vanara videro le loro condizioni, si disperarono e cercarono di farli tornare ai loro sensi. Ci fu un certo tumulto fra i Vanara, che si credettero senza una guida e non sapevano più da chi ricevere gli ordini. La battaglia diventò caotica. Indrajit invece tornò dal padre e gli dette la buona notizia. Ravana proruppe in un grido di vittoria.
“Finalmente stiamo tornando in noi. Quegli uomini non possono resistere sul campo di battaglia contro i nostri migliori guerrieri. Guardie, ordinate alle donne che vigilano su Sita di condurla sul campo e di mostrarle le condizioni di Rama.”
Condotta sul carro Pushpaka, Sita vide il campo di battaglia, dove migliaia di persone stavano rischiando la vita per lei. C'era un polverone fitto, e lo spettacolo della morte era spaventoso. Vide il marito disteso sul terreno e pianse disperatamente, credendolo morto. Ma poi si calmò. “I saggi della foresta mi hanno predetto,” pensò, “che io non sarò mai vedova e che sarei diventata madre. Le predizioni di quei santi non possono essere false. Rama non può essere morto. Forse è ferito, o forse è svenuto.”
E proprio mentre era assorta in quei pensieri, Trijata le si avvicinò.
“Sita, non hai ragione di angustiarti,” le bisbigliò all'orecchio. “L'energia divina, la sua misericordia e benevolenza, è dalla tua parte. La rettitudine è la tua arma e non può mai fallire, mai essere sconfitta. Presto sarai libera da questa ingiusta prigionia.”
Sita venne ricondotta indietro.
Faticosamente, Rama mosse un braccio. Poi l'altro. I Vanara gridarono dalla gioia. Non era morto. Gradualmente riprese coscienza e si alzò. Vide Lakshmana disteso sul terreno. Non riuscendo a farlo riavere ebbe paura di averlo perduto. In quella situazione di timore Garuda, l'aquila che eternamente trasporta Vishnu e che è nemico dei serpenti, apparve e mise in fuga i naga- pasa. Lakshmana gradualmente tornò alla coscienza. Vedendo Rama e Lakshmana liberi dall'arma del terribile figlio di Ravana, i Vanara produssero grida di gioia ancora più forti, che vennero udite dai
Rakshasa. Tutti tornarono a combattere con incontenibile entusiasmo.
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La morte di valorosi guerrieri
La battaglia riprese. I rumori erano assordanti, il campo di battaglia un immenso cimitero. Avvertito che i suoi nemici si erano in qualche modo liberati dall'influenza del naga- pasa, Ravana mandò contro di loro un potente generale. Costui si chiamava Dhumraksha, e mai aveva conosciuto la sconfitta. Dopo un violentissimo combattimento fu ucciso da Hanuman.
Altri possenti Rakshasa, accompagnati dai loro battaglioni, furono mandati sul campo di battaglia, ma tutti seguirono la sorte di Dhumraksha: Vajradamshtra fu ucciso da Angada, Akampana da Hanuman. Anche il grande e famoso Prahasta, il più stretto collaboratore di Ravana e il suo amico più caro, fu ucciso da Nila.
La morte di Prahasta fu un duro colpo per Ravana. La sua furia divampò. E scese in persona sul campo di battaglia. Fu terrificante. Gettò lo scompiglio e il terrore nell'esercito avversario e uccise in pochi minuti migliaia di Vanara. Dapprima Lakshmana, poi Hanuman e via via altri lo affrontarono, ma dovettero ritirarsi. Poi si trovò faccia a faccia contro Rama. Dopo un breve ma intenso combattimento, Ravana dovette battere in ritirata e rifugiarsi a Lanka. Lì decise di porre fine alla guerra svegliando il grande Kumbhakarna.
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Kumbhakarna
Il fratello minore di Ravana era il mostro più spaventoso che il mondo avesse mai conosciuto. Era enorme, possente, invulnerabile a qualsiasi arma, spietato in combattimento. Era davvero una fortuna per tutti che per la benedizione di Brahma spesso cadeva in un sonno profondo che durava mesi. Ravana era determinato a ricorrere al fratello per vincere quella guerra che si stava mettendo male.
Centinaia di soldati furono mandati nel gigantesco palazzo di Kumbhakarna e cercarono di svegliarlo in tutte le maniere. Lo chiamarono gridando a squarciagola, batterono tamburi, suonarono stru- menti direttamente nel suo orecchio, gli saltarono sopra, ma fu tutto inutile: non si svegliava. Quando respirava provocava un vento impetuoso che spostava chiunque ne fosse investito. Mille elefanti vennero fatti passare sul suo corpo gigantesco. Infine si mosse, leggermente. Stava svegliandosi. Si alzò e vide tutta quella gente intorno a lui e chiese cosa stesse succedendo. Tutti furono contenti di essere riusciti a svegliarlo.
“Grande Kumbhakarna,” gli dissero, “c'è una situazione di grande gravità che richiede il tuo intervento. Tuo fratello, il re, ci ha ordinato di venire a svegliarti. Ti aspetta. Vuole parlarti.”
Dopo essersi sfamato con molta carne e sangue caldo, Kumbhakarna si recò dal fratello. Quando uscì dal palazzo e camminò all'aperto, l'effetto che fece fu sconvolgente. Era così alto e maestoso che era visibile a chilometri di distanza. Fuori dalle mura i Vanara lo intravidero e rabbrividirono di terrore: tutti si chiesero chi fosse quel colosso. Rama lo chiese a Vibhisana.
“Vibhisana, chi è quel gigantesco mostro? Lì, quello. Quando cammina fa tremare la terra e i nostri guerrieri, anche i più coraggiosi, ne sono rimasti impauriti.”
Vibhisana lo guardò e sembrò visibilmente preoccupato.
“Quello è il mio fratello maggiore, Kumbhakarna. Se scenderà sul campo di battaglia dovremo prepararci a un scontro durissimo. Kumbhakarna è terribile quando combatte.”
Incoraggiando i soldati e dando loro istruzioni, Rama si preparò allo scontro.
E mentre i suoi nemici si preparavano, Kumbhakarna entrò nel palazzo reale. Ravana lo rivide con gioia. Raccontò gli ultimi sviluppi della crisi. Solo allora Kumbhakarna seppe quanti bravi amici e soldati erano morti. Fin dall'inizio non aveva mai condiviso il comportamento del fratello, per cui tutto ciò confermò solo quanto lui e pochi altri avessero visto giusto.
“Potente Kumbhakarna,” disse Ravana, “dammi sollievo da questa grande ansietà. Il mio nemico si sta dimostrando più forte del previsto e molti dei nostri cari amici hanno già perso la vita. Persino Prahasta è morto. Tu puoi liberarmi dal peso di questa angoscia. Aiutami, ti prego.”
“Fratello mio,” rispose Kumbhakarna rattristato da quelle notizie, “tu non hai voluto ascoltare i buoni consigli dei tuoi veri amici, primi fra cui Vibhisana, che hai cacciato via e che ora si trova tra le file dei tuoi nemici. Queste sono le reazioni che ora devi raccogliere. Io non ho mai condiviso il tuo comportamento al riguardo del rapimento di Sita, ma ti sei fatto sopraffare dalla lussuria e dai cattivi consiglieri. Comunque, ormai siamo andati troppo oltre per sperare in soluzioni diverse. Come ti dissi già in precedenza, io sono pronto a combattere e, se necessario, a rinunciare alla mia vita per te. Ma ricorda quello che ti ho già detto: ognuno raccoglie ciò che semina.”
Ravana, ascoltato quello che voleva ascoltare, e cioè che suo fratello sarebbe sceso sul campo di battaglia, non dette peso ai rimproveri, sicuro della vittoria finale.
“Non sai quanto mi fai felice sentendoti parlare così,” replicò. “Non è mai esistito qualcuno che potesse fronteggiarti. Vai dunque, e distruggi i nostri nemici.”
Prima di andare Kumbhakarna rimproverò ancora Ravana per i suoi errori e Mahodara, uno dei generali, ribatté e riprese a sua volta Kumbhakarna. Nel corso della discussione, Mahodara suggerì di mettere in atto uno stratagemma per conquistare Sita e porre fine alla guerra. Kumbhakarna, sdegnato, rifiutò ogni trucco, ritenendoli indegni di un guerriero valoroso e decise di scendere subito sul campo di battaglia. Dopo aver riunito il suo esercito, il più grande Rakshasa mai esistito uscì dalle mura della città e si diresse dove la battaglia stava infuriando. Quando i Vanara videro l'orribile mostro avvicinarsi con gli occhi dilatati dalla furia che brillavano come tizzoni ardenti, fuggirono terrorizzati. Angada, vedendo le truppe messe in fuga da Kumbhakarna, recuperò i fuggitivi e li rincuorò. E, con un atto di supremo coraggio, si lanciò contro il nemico. Si scatenò una terrificante battaglia. Il Rakshasa causò subito una spaventosa carneficina e i Vanara superstiti fuggirono terrorizzati. Non c'era verso di combattere contro quella montagna semovente, contro la quale ogni arma sembrava inefficace. Angada organizzò un altro battaglione formato dai soldati più valorosi e guidato dai migliori generali, e marciò ancora contro il grande Rakshasa.
Le ostilità divamparono più feroci che mai. E Kumbhakarna causò perdite gravissime al nemico. Combatteva con ogni mezzo a disposizione, con furia inaudita, divorando inarrestabilmente decine di grandi Vanara alla volta. Così tanti se ne gettava in bocca che molti fuoriuscivano dalle narici o dalle orecchie. Attaccato da ogni parte da migliaia di nemici arrabbiati, incurante delle numerose ferite causategli dalle lance, dalle spade, dalle mazze, dai macigni, e persino dai morsi e dai graffi, Kumbhakarna continuò a distruggere intere divisioni di possenti Vanara, tutti forti come leoni e veloci come il vento. Sembrava invulnerabile, nessun’arma aveva effetto su di lui.
Sconfiggendo grandi generali come Hanuman, Kumbhakarna sembrava la morte personificata: ovunque andava mieteva vittime. Oramai i più tentavano solo di fuggire appena si avvicinava. Coperto dalla testa ai piedi di armi, di sangue, di corpi di nemici vivi e morti, Kumbhakarna era impressionante a guardarsi.
Prendendo coraggio, il forte Angada spiccò un salto prodigioso e colpì al petto il Rakshasa con il suo potente pugno. Per la prima volta Kumbhakarna sembrò accusare il colpo. Ma subito si riebbe e colpì di ritorno. Il valoroso Vanara, proiettato lontano dalla violenza del colpo, svenne.
Sugriva, infuriato dalle perdite che il suo esercito stava subendo per colpa di quel mostro, intervenne e, nel mezzo del clamore della battaglia, ingaggiò un frenetico duello. Colpito da Kumbhakarna, perse i sensi. Vedendo il re dei suoi nemici sul terreno svenuto, Kumbhakarna decise di portarlo prigioniero a Lanka. Così lo afferrò, lo caricò sulle spalle e si diresse verso la città. Nessuno tentò di ostacolarlo. Quando videro Sugriva catturato, i Vanara pensarono che ormai non fosse più possibile sperare nella vittoria finale. Lo scoraggiamento fu totale.
Quando lo videro entrare in città con il re dei Vanara prigioniero, Kumbhakarna venne festeggiato da tutti. In quel momento Sugriva riprese coscienza e si accorse di cosa era accaduto. Si vide trasportato dal gigantesco Rakshasa dentro la città circondato da migliaia di nemici festanti che credevano ormai vinta la guerra. Immediatamente reagì, con violenza. Con le unghie strappò metà dell'orecchio del colosso e con i denti gli tranciò il naso. Kumbhakarna, gridando dal dolore, prese il Vanara e lo gettò in terra. Rimbalzando prodigiosamente come una palla, Sugriva spiccò un salto e si riunì al suo esercito. Tutti festeggiarono l'inconcepibile impresa di Sugriva.
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La morte di Kumbhakarna
Fuori di sé dalla rabbia, ferito e sanguinante, Kumbhakarna afferrò una gigantesca mazza e tornò sul campo di battaglia. Durante il tragitto divorò con noncuranza migliaia di Vanara e ricominciò la sua spaventosa carneficina.
Vedendo che nessun altro era in grado di fronteggiarlo, Lakshmana decise di intervenire. Dal suo arco saettarono con una velocità inconcepibile innumerevoli frecce infuocate che penetrarono nel corpo dei Rakshasa come serpenti che penetrano nelle loro tane. Kumbhakarna sghignazzò con voce cavernosa, schernendo il giovane principe.
“Ho visto il tuo valore,” gli disse, “ma non voglio combattere contro di te, io voglio combattere solo contro Rama in persona.”
Impetuosamente passò oltre Lakshmana e in lontananza vide Rama. Simili a moscerini che corrono e periscono in un grande fuoco, migliaia di Rakshasa affrontavano il figlio di Dasaratha. Vederlo combattere era uno spettacolo. Osservando i suoi soldati perire senza potersi neanche difendere, Kumbhakarna corse furiosamente verso di lui, ruggendo come un leone. A quel punto la battaglia divampò ancora di più, feroce e indescrivibilmente violenta. Mentre correva, desideroso di combattere contro Rama, Kumbhakarna fu fermato da Vibhisana.
“Fermati, Kumbhakarna. Combatti contro di me, invece che contro Rama,” gli gridò.
Kumbhakarna si fermò e lo guardò, pieno di affetto fraterno.
“Tu, Vibhisana,” gli disse, “sei sempre stato l'unico della nostra razza che mai ha deviato dal sentiero della giustizia. Mai ti sei lasciato trasportare dai desideri e dall'odio. Per questo tu non devi morire. Colpiscimi, dunque: io non reagirò contro di te. Ciò che sta accadendo in questa guerra è il logico risultato della stupidità di nostro fratello. Cosa posso farci io? Sono legato dai legami della famiglia e dall'affetto e non posso ritirarmi da questo combattimento. Io userò tutta la potenza di cui dispongo per far emergere vittorioso Ravana. Ma so che alla fine saremo sconfitti e che tu rimarrai il reggente del nostro regno, perpetuando la linea del nobile Pulastya.”
Vibhisana fu toccato da quelle sagge parole.
“Tante volte ho dato i miei buoni consigli a nostro fratello,” gli disse, “ma lui non ha mai voluto ascoltarmi seriamente. É colpa sua se ora ci troviamo come nemici su questo campo di battaglia. Io non posso colpirti, sei mio fratello.”
Così dicendo, con gli occhi pieni di lacrime, osservando la terribile carneficina che si svolgeva tutt'intorno, si sedette sopra un macigno e appoggiò il mento sul pugno, assorto in chissà quali pensieri.
Con un ultimo sguardo al fratello, Kumbhakarna si scagliò impetuosamente contro Rama. I due si fronteggiarono. Rama gettò contro il nemico migliaia di frecce e Kumbhakarna reagì alla stessa maniera. Il duello fu violentissimo. Ma nel libro divino dove sono scritte le vite di ognuno, sulle pagine riguardanti il Rakshasa stavano scorrendo le ultime parole. Erano gli ultimi istanti della sua vita. Rama mirò una freccia possente al braccio destro, staccandolo di netto. Ma il valoroso Kumbhakarna continuò il combattimento come se nulla fosse successo. Rama gli scagliò contro una freccia simile che gli recise il braccio sinistro. Il braccio cadendo da quell'altezza schiacciò sotto il suo peso molti alberi, Vanara e Rakshasa. Ma lui continuò ad avanzare, così, senza braccia, schiacciando i nemici sotto i piedi. Freddamente, Rama gli tagliò anche le due gambe. Ma neanche in quella condizione, così mutilato, il glorioso Kumbhakarna si arrestava. Si trascinava in avanti con la bocca spalancata e divorò molti Vanara, schiacciandoli fra i denti. Procedette verso Rama.
Vedendo vicina la pericolosa bocca spalancata, il principe la riempì di frecce fiammeggianti. Sentendosi oramai prossimo alla vittoria, Rama pose sull'arco una grossa freccia e recitò con grande devozione il mantra di Indra: con rabbia e con grande forza la scagliò contro il collo del nemico. E la testa del glorioso Kumbhakarna si separò dal corpo e rimbalzò sul campo di battaglia, causando gravi perdite in entrambi gli eserciti. Rimbalzando diverse volte, piombò nel mare e sprofondò. Così il grande Kumbhakarna, che era come una spina nel fianco della gente pacifica, fu sconfitto e ucciso da Rama.
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La battaglia continua - La furia di Indrajit
Quando la testa di Kumbhakarna sprofondò nel mare, il cielo si rasserenò e un'atmosfera di pace si diffuse ovunque. Dall’alto si udirono le voci dei Deva e dei saggi che si congratularono con il vincitore e lo ringraziarono per quell'atto virtuoso. I Vanara tirarono un grande sospiro di sollievo. Quel mostro era diventato il loro incubo e ora che era stato ucciso la vittoria finale sembrava più vicina e più probabile.
Vedendo il corpo mutilato e privo di vita di Kumbhakarna, i Rakshasa si ritirarono e sospesero la battaglia. La brutta notizia fu portata a palazzo: Ravana non riusciva a crederci. Il suo caro fratello, il grande, invincibile Kumbhakarna ucciso? Non riusciva a capacitarsene.
“Come hanno potuto ucciderlo? Dove hanno trovato la potenza necessaria? Mio fratello non poteva essere sconfitto. Ha incontrato i più grandi Deva dell'universo e ha sempre vinto. Come è potuto succedere?”
Sconvolto dal dolore per la perdita del suo caro fratello, Ravana si lamentò pateticamente. Era il suo guerriero più valoroso. Per incoraggiarlo, i suoi figli decisero di uscire personalmente in combattimento, accompagnati da numerosi battaglioni. Ma ciò che sembrava impossibile continuava ad essere amara realtà. Il destino di chi è nel torto spesso si volge contro ogni logica. Angada uccise uno dei figli di Ravana, Narantaka, e Hanuman Devantaka, suo fratello. Nila uccise il grande Mahodara e Rishabha Mahaparsva. Decimati e umiliati i Rakshasa, guidati dal figlio di Ravana, Atikaya, lanciarono un'ennesima offensiva. La battaglia divampò ancora, furiosamente; i combattimenti corpo a corpo erano spietati. Lakshmana affrontò il prode Atikaya e lo uccise.
Senza sosta, le notizie delle sconfitte e delle morti dei suoi cari continuavano ad arrivare alle orecchie di Ravana, che si lamentava per la loro perdita. Temendo per la sicurezza di Lanka, Ravana in persona organizzò la difesa della città nei suoi punti nevralgici.
E Indrajit tornò sul campo di battaglia. Il modo in cui combatteva era mirabile. Poteva muoversi liberamente in cielo e in terra con grande velocità, poteva apparire e scomparire a suo piacimento quando e come voleva, e aveva ricevuto da Brahma armi micidiali. Avendo appena celebrato un sacrificio che lo rendeva ancora più forte, Indrajit comparve sul terreno dove i combattimenti infuriavano. E cominciò la sua opera di distruzione. Massacrati a centinaia dalle terribili frecce del Rakshasa, i Vanara cominciarono a cadere senza vita. Persino i soldati più forti non erano in grado di stare neanche un momento di fronte al figlio di Ravana. Indrajit aveva bisogno di guadagnare tempo: afferrò una freccia, la caricò con un mantra dedicato a Brahma e la scagliò contro i nemici. Si udì un’esplosione: migliaia di Vanara caddero svenuti sul terreno. Persino Rama e Lakshmana persero coscienza. Vittorioso e ottimista, Indrajit si ritirò per portare le buone notizie a suo padre.
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Hanuman alla ricerca di erbe medicinali
Era una notte fresca. Spirava una leggera brezza e la luna era piena. Non sembrava di essere nel mezzo di una delle più terribili guerre mai combattute. Dopo l'esplosione dell'arma di lndrajit tutto si fece quieto e silenzioso. I Rakshasa si erano ritirati, intimoriti dal pensiero di poter essere vittime loro stessi di quell'arma. Calò il silenzio. La guerra, la violenza: ci sono ragioni, giustificazioni per la loro esistenza? Quella volta si combatteva per una giusta causa, quella volta si combatteva per la pace, per la giustizia, per dare una vita più serena a tanta gente che da troppo tempo subiva le angherie di quei Rakshasa. Non c'era tempo per distendersi e godere del fresco venticello. Quella guerra doveva essere vinta.
I Vanara che non erano stati colpiti dall'arma si guardarono intorno, stupefatti. Quanti di loro giacevano sul terreno morti o privi di sensi? Tanti, troppi. La violenza di quell'arma era inaudita. Videro anche Rama e Lakshmana in terra, e si precipitarono in loro aiuto. Ma nessuno trovò il rimedio per rianimare i due fratelli. Vibhisana era tra coloro che non avevano subito danni. Corse sul luogo e vide ciò che era successo.
“Perché siete tristi e scoraggiati?” disse a voce alta. “Indrajit ha ottenuto quell'arma da Brahma stesso: come potevano Rama e Lakshmana mancarle di rispetto e non farsi sopraffare? Non sono morti, guardateli bene, respirano ancora.”
Hanuman era chino sui loro corpi e massaggiava le loro membra.
“Saggio Vibhisana,” chiese con voce triste, “come possiamo ora far riavere Rama e Lakshmana? E anche tutti questi cari compagni che sono caduti, feriti da questa terribile arma? Dicci: cosa possiamo fare?”
“Dov'è Jambavan?” replicò Vibhisana. “É il figlio di Brahma. Saprà sicuramente come neutralizzare quest'arma che appartiene a suo padre. Cercatelo, e pregate che sia ancora vivo.”
Era notte, non si vedeva quasi nulla. Non era facile cercare una persona in mezzo ai milioni di corpi distesi sul terreno. Alla luce delle torce, Hanuman cercò con grande ardore. Il suo cuore era così triste nel vedere anche Sugriva, e Angada, e Nila, e Sharabha e molti altri compagni distesi in terra, sanguinanti e privi di coscienza. Dopo un po’ trovarono Jambavan, anche lui gravemente ferito, simile ad un fuoco che sta per estinguersi. Vibhisana lo chiamò dolcemente.
“Venerabile signore, amico caro,” supplicò. “Spero che a causa delle frecce del terribile lndrajit la tua vita non sia alla fine. Come ti senti?”
“I miei occhi sono ottenebrati,” rispose Jambavan con un filo di voce, “e non sento più le mie forze. É stato terribile. Ma ditemi se Hanuman è ancora vivo. Se lui è ancora fra di noi ci sono ancora speranze di vittoria; ma se è morto, allora possiamo considerarci sconfitti.”
E Jambavan chiese ripetutamente se Hanuman fosse ancora vivo. Umilmente Hanuman si avvicinò e lo chiamò, facendo sentire la sua voce. Jambavan sorrise e scosse la testa.
“Hanuman, valoroso figlio del Deva del vento, tu devi salvare il nostro esercito e la vita di Rama e Lakshmana. L'arma di Brahma, lanciata da un guerriero del calibro di Indrajit, è incontrastabile. Tu solo, ora, puoi aiutarci. Vai sull'Himalaya e cerca le erbe medicinali che ora ti descriverò. Queste erbe hanno un forte potere curativo e possono far svanire l'effetto dell'arma di Indrajit. Ma fai presto. Il nostro destino dipende solo da te.”
Jambavan descrisse ad Hanuman la montagna e le erbe. In gran fretta Hanuman partì e attraversò ancora una volta l'oceano. Presto arrivò sulle montagne Himalaya.
Appena le erbe che regnavano su quelle montagne lo videro avvicinarsi si ritirarono dal suolo e scomparvero dalla sua vista. Non riuscendo a trovarle, Hanuman si irritò e sradicò la montagna. E il figlio di Vayu portò la montagna Rishabha a Lanka. Con quelle erbe i Vanara furono curati e le loro ferite si cicatrizzarono subito.
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L'invasione di Lanka
I Vanara passarono la notte a curare i feriti. Risollevati ed entusiasmati per lo scampato pericolo, la mattina seguente sferrarono un attacco veemente alle mura della città, e in più punti riuscirono a penetrare all'interno. La battaglia fu feroce: migliaia di corpi mutilati lastricarono il terreno. I Vanara entrarono nella città ed iniziarono l'opera di distruzione. Il fuoco divampò ovunque, bruciando centinaia di case. Devastata dal fuoco e dai numerosi e potenti Vanara, Lanka assunse un aspetto spettrale. Molti Rakshasa cominciarono a fuggire, tentando di salvarsi la vita.
Ravana, sempre più fuori di sé dalla frustrazione, mandò avanti i suoi più forti guerrieri, ma furono tutti sconfitti. Angada uccise Kampana e Prajangha, Dvivida Sonitaksha. Mainda uccise Yupaksha e Sugriva Kumbha. Dopo un feroce duello, Hanuman riuscì ad eliminare uno dei figli di Kumbhakarna, il poderoso Nikumbha. La battaglia continuò feroce e violenta. Trascinati dal destino ineluttabile, i Rakshasa erano puntualmente sconfitti.
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La morte di Indrajit
Le ultime notizie che arrivarono a Ravana erano intollerabili. E chiamò allora il figlio maggiore. Indrajit traeva gran parte della sua forza da malefici sacrifici neri che celebrava giornalmente. Dopo aver terminato una delle sue cerimonie, ricomparve sulla scena. Vedendolo, i Vanara furono terrorizzati e fuggirono. Rama guardò suo fratello.
“Non c'è nulla da fare. Fintanto che Indrajit è vivo non possiamo vincere questa guerra,” gli disse. “Guarda: dopo aver fronteggiato guerrieri fortissimi, tutti fuggono quando Indrajit si mostra. Incute terrore a tutti. Dobbiamo trovare la maniera di sbarazzarcene subito.”
E proprio mentre Rama parlava, in un colpo solo migliaia di Vanara caddero morti, e gli stessi fratelli furono feriti gravemente. Ordinarono una ritirata per cercare la maniera di porre fine alla continua minaccia che Indrajit rappresentava.
In realtà Indrajit, che ancora non aveva ultimato un diabolico sacrificio che lo avrebbe reso praticamente invincibile, voleva guadagnare tempo. Per scoraggiare i suoi nemici creò un’immagine vivente di Sita e di fronte a tutti la decapitò. I Vanara, vedendo quella scena crudele e sentendo i terribili ruggiti di Indrajit, fuggirono da ogni parte. Hanuman riunì l'esercito in fuga e rilanciò l'offensiva. Ma Indrajit non c'era più: si era defilato, aveva rapidamente raggiunto il santuario di Nikumbhila e si preparava a procedere con le sue cerimonie.
La notizia della morte di Sita arrivò a Rama. Non poteva crederci. Sita uccisa da Indrajit? Rama
credette che fosse arrivata la fine.
Lakshmana, fuori di sé, gettò un grido di rabbia.
“Oggi io distruggerò tutti i Rakshasa dell'universo!”
E preparò le sue armi. Ma Vibhisana, aiutando Rama a riaversi, lo fermò.
“Rama, Lakshmana, non cadete nel tranello,” disse ai due fratelli. “Quella forma che è stata uccisa
non era Sita. Ravana non permetterebbe mai una cosa simile. Indrajit ha escogitato questo trucco
diabolico solo per guadagnare tempo. Sono sicuro che in questo momento si trova a Nikumbhila per
terminare qualche sacrificio. Ascoltatemi: non dobbiamo lasciarglielo terminare. Se riusciamo ad
interromperlo potremo ucciderlo. Manda Lakshmana con me, io gli mostrerò la strada per il
santuario. Poniamo fine alla vita di questo essere malvagio.”
Rinfrancato, Rama mandò Lakshmana a Nikumbhila, accompagnato da un'ingente forza. Guidati da
Vibhisana che faceva strada, arrivarono rapidamente. E come sospettavano, lì videro le truppe di
Indrajit che montavano la guardia. Vedendo il nemico avvicinarsi in un momento non propizio,
tentarono di impegnarli in combattimento affinché il loro comandante potesse terminare il
sacrificio. Con furia, Hanuman piombò tra le truppe dei Rakshasa e le decimò. Poi chiamò Indrajit a
venire fuori e lo sfidò in un duello. E il figlio di Ravana uscì dal santuario. Lakshmana lo vide per
primo.
Sfidato da Lakshmana, Indrajit gli corse incontro impetuosamente. Il suo aspetto era terribile, la sua
forza incomparabile. Un tempo il suo valore e la sua intelligenza gli avevano permesso di
sconfiggere persino Indra, il re dei pianeti celesti. Quando vide Vibhisana a fianco di Lakshmana,
Indrajit lo rimproverò aspramente.
“Tu sei un traditore della tua razza. Non ti vergogni a farti vedere a fianco dei nostri nemici mentre
uccidi i tuoi fratelli e amici? Vergognati! Sei solo un vile traditore che mira al trono del fratello.”
“Tu sei un ragazzo senza giudizio né esperienza,” replicò Vibhisana, “e la tua crudeltà non ha limiti.
Mi sono schierato dalla parte di coloro che tu chiami nemici perché io non sono della tua stessa
natura e non godo delle attività empie. Ho preso la loro parte per liberare il mondo dalla gente
malvagia come te. Guardalo bene, questo mondo: oggi è il tuo ultimo giorno.”
Pur cosciente di non aver terminato il sacrificio, Indrajit fissò Lakshmana e si lanciò contro di lui.
Lo scontro fu feroce. Mentre Lakshmana era personalmente impegnato contro il nemico, Vibhisana
prese il comando dei Vanara contro i soldati. Ben presto Indrajit perse il carro e l'auriga, e si ritrovò
in una posizione svantaggiosa. Qualcuno gli portò velocemente un nuovo carro e un altro guidatore,
e il duello riprese. E mentre Vibhisana e Hanuman massacravano le truppe dei Rakshasa,
Lakshmana vide l'opportunità di porre fine all'esistenza di Indrajit. Un momento di disattenzione gli
fu fatale: una freccia carica di mantra decapitò il prode figlio di Ravana.
Era fatta. Tutti tirarono un sospiro di sollievo. L'incubo era finito. I pochi superstiti tra i Rakshasa
fuggirono, in preda al panico.
84
Ravana combatte
Tra i Vanara ci furono grandi festeggiamenti per la morte di Indrajit. Rama abbracciò affettuosamente Lakshmana e gli fece curare le numerose ferite da Sushena.
Ravana di certo non gioiva. Indrajit era il suo figlio più caro e lo amava come niente altro. In un impeto di rabbia Ravana decise di uccidere Sita, causa di tutte le sue disgrazie: ma il Rakshasa Suparsva lo convinse a rinunciare all'ignobile atto.
Nel frattempo la battaglia continuava. Rama e i Vanara continuavano nell'opera di distruzione delle truppe nemiche. Pur nel gran clamore della battaglia, a Lanka si udivano i pianti accorati delle Rakshasi che piangevano amaramente la perdita dei mariti, dei figli, dei padri e dei nipoti. Era una scena che spezzava il cuore. Ormai sembrava che non ci fossero più speranze. Ovunque regnava il caos, il dolore, la morte. Vedendo la situazione compromessa e le truppe decimate e terrorizzate, Ravana scese personalmente sul campo di battaglia. E l’effetto per i Vanara fu devastante: migliaia di teste, di braccia, di mani e di gambe saltavano in aria simultaneamente, la velocità e la precisione di Ravana in combattimento erano inconcepibili.
Da un'altra parte del campo di battaglia Sugriva combatteva valorosamente: uccise due famosi generali di nome Virupaksha e Mahodara. Infine Rama e Ravana si trovarono di fronte, l'uno contro l'altro, faccia a faccia.
Dopo uno scambio di parole furiose, lo storico duello cominciò, molto simile ai combattimenti tra Vishnu e i più grandi Asura. A un certo momento, vedendosi di fronte Lakshmana, colui che aveva ucciso suo figlio Indrajit, Ravana gli scagliò contro la lancia che aveva ricevuto in dono da Maya Danava. Colpito da quella lancia fatata, Lakshmana cadde sul terreno, come morto. Rama vide il fratello gravemente colpito, scese dal carro ed estrasse la lancia dal suo petto, incurante della pioggia di frecce che Ravana gli scagliava addosso. Furibondo, Rama guardò Sugriva che non era lontano.
“Amico Vanara,” disse a denti stretti, “che tu mi sia testimone di questo voto: oggi questo mondo resterà senza Ravana o senza Rama. E sii certo che non sarò io a perdere. Oggi darò felicità a tutti distruggendo questo mostro malvagio.”
Lakshmana era in condizioni precarie. Respirava a fatica. La ferita era molto profonda. Rama affidò il fratello all'esperto medico Sushena e tornò a combattere. Hanuman fu mandato nuovamente sull'Himalaya a prendere le erbe dalla montagna Mahodaya, ma non fu capace di riconoscerle e compì di nuovo lo sforzo sovrumano di estirpare l'intera montagna e di portarla a Lanka. Quando Lakshmana fu guarito Hanuman riportò la montagna al suo posto originale.
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La morte di Ravana
Nei pianeti superiori i Deva osservavano con apprensione. Rama aveva già riportato delle vittorie importanti e c'erano buone speranze che tutto andasse per il meglio. Ma ora a combattere c'era Ravana in persona. Conoscevano bene le capacità del Rakshasa. Indra si preoccupò e pensò di aiutarlo. Vedendo Rama impegnato in un feroce combattimento contro l’acerrimo nemico, il condottiero celestiale mandò il suo carro per aiutarlo.
Matali, il guidatore del carro di guerra di Indra, si presentò di fronte a Rama e gli offrì il suo aiuto. Rama accettò gioiosamente e montò sul leggendario carro. E la battaglia continuò a lungo, nessuno dei due si risparmiava e provarono colpi possenti: Rama colpiva Ravana, Ravana colpiva Rama, ma nessuno sembrava poter avere la meglio sull'altro. In una circostanza Ravana fu ferito da Rama e svenne sul proprio carro, e fu portato fuori dal campo di battaglia. Quando riprese i sensi, il Rakshasa rimproverò aspramente il suo auriga e tornò impetuosamente indietro.
Il combattimento riprese e si protrasse per molto tempo. Rama era affaticato e preoccupato. Non riusciva ad avere la meglio. Sentiva affievolirsi il desiderio di combattere. Tra i saggi che dal cielo assistevano al duello c'era anche Agastya.
“Rama, recita costantemente la preghiera al Deva del sole conosciuta come aditya- hridaya,” gli suggerì con voce eterea. “Grazie al potere di questo mantra sarai in grado di uccidere Ravana.”
Incoraggiato dal suggerimento del famoso santo, Rama riprese il combattimento con vigore, mettendo il suo nemico in grave difficoltà. E presagi favorevoli furono visti tutt'intorno a lui e se ne scorsero di cattivi dalla parte di Ravana. Rama ne era certo: quei segni indicavano che la vittoria era vicina. Lo scontro tra i due guerrieri fu il più feroce di tutti, ma il momento fatale arrivò.
Scagliando contro i colli del nemico potenti frecce, Rama staccò una dopo l'altra le dieci teste di Ravana. Ma appena mozzate, quelle ricrescevano istantaneamente. Ravana sembrava invulnerabile. Così Rama decise di usare l'arma di Brahma. Recitando con somma devozione le migliori preghiere a Brahma, il principe fissò una freccia nel suo arco e la scagliò contro il cuore del Rakshasa. Si udì un fragore assordante: la freccia colpì il bersaglio, il cuore del Rakshasa si spezzò in due. Ravana cadde sul terreno senza più vita.
E fu così che Rama, il figlio di Dasaratha, restituì la pace e la serenità a tutti uccidendo il più grande e crudele demone che esisteva.
86
Il lamento delle donne La liberazione di Sita
Vedendo Ravana morto, i Rakshasa superstiti si arresero. Tutto si calmò: scese il silenzio.
Pian piano, con circospezione, dalle case e dai rifugi uscirono le prime donne, i bambini, gli anziani. I Vanara si ritirarono e li lasciarono uscire. Ovunque si vedevano scene di dolore. Chi era china sul corpo di un figlio, chi di un marito o di un padre: la scena che si presentava alla vista era pietosa. Persino Vibhisana si lamentò amaramente per la perdita di così tanti cari. Rama lo confortò e lo invitò a presenziare i funerali. E man mano che la sera calava il campo di battaglia assumeva sempre più un aspetto spettrale. Particolarmente patetico fu il lamento di Mandodari sui corpi del marito e del figlio Indrajit.
Il giorno stesso dei funerali di Ravana, Rama che era stato il maggiore artefice della vittoria incoronò Vibhisana re di Lanka. Tutti attendevano solo una cosa: di vedere Rama riunito a Sita.
“Sita ha sofferto per tanto tempo,” disse poi Rama ad Hanuman, “ed è giusto che venga avvertita al più presto del successo della nostra missione. Vai dunque da lei, e dille che ora Vibhisana è il re di Lanka e che egli desidera vederla.”
Rama era serio, controllato, quasi se la gioia della vittoria non lo toccasse. Tutti lo guardarono. C'era qualcosa di strano nelle sue parole. Perché aveva detto che Vibhisana voleva vederla? Hanuman corse da Sita. La trovò sconsolata, seduta sotto lo stesso albero nello stesso giardino. Quando lo vide il suo viso si illuminò. Gli occhi ansiosi interrogavano.
“Sono venuto a portarti le notizie degli ultimi avvenimenti,” disse Hanuman sorridente. “La tua sofferenza è finita. Questa ingiusta prigionia è giunta a termine. Sei finalmente libera. Lanka è stata conquistata e Ravana è stato ucciso insieme ai suoi parenti e ai suoi generali. Ora è Vibhisana il Signore di Lanka e desidera vederti. Preparati, dunque. Ti accompagnerò da lui.”
Tanta era la gioia che sentiva nel cuore che non poté proferire parola. Hanuman gettò uno sguardo alle guardiane che tentavano di nascondersi, terrorizzate.
“Principessa,” disse Hanuman con cipiglio severo. “Se vuoi posso uccidere queste Rakshasi che per così tanto tempo ti hanno causato dolore.”
“No, valoroso Hanuman,” disse Sita con un dolce sorriso, “non far loro del male. Non erano che delle schiave e agivano solo perché costrette dagli ordini di Ravana, che ha già ricevuto la giusta punizione. Non voglio altre vendette, non voglio altro sangue. Non far loro del male.”
E concesse a tutte la libertà. Poi si preparò incontrare Rama.
87
La prova della purezza
Nel frattempo Vibhisana e Rama, aspettando l'arrivo di Sita, parlavano fra loro.
“Finalmente è arrivato il momento in cui potrai rivedere la tua Sita,” disse Vibhisana.
Ma Rama non rispondeva: con lo sguardo fisso, assorto in pensieri profondi, non rispondeva. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
Sita montò sul palanchino per essere portata di fronte a Rama, e i Rakshasa tenevano alla larga la folla che voleva vederla. Rama sentì che fuori della porta c'era un certo clamore e si affacciò dalla finestra. Vide che tutti si erano allontanati per far passare il palanchino e la cosa non gli piacque. Ordinò che Sita venisse fatta venire a piedi di fronte a lui. Quando dissero a Sita del desiderio del marito, lei scese senza fare alcun commento. Vibhisana capì che c'era qualcosa di strano nella mente di Rama: far venire Sita a piedi facendola passare tra la folla era un segno di mancanza di rispetto nei suoi confronti. Janaki entrò nella grande sala che era stata di Ravana. Quando vide Rama non poté dire nulla. Poteva solo guardare quel viso così bello, tanto simile alla luna.
“Oggi noi festeggiamo questa importante vittoria,” le disse Rama, “con la quale sei stata liberata. Così ho vendicato il mio onore. Tutto ciò è stato possibile grazie al valore di Hanuman, di Vibhisana, di Sugriva e di tutti gli altri. Sei libera, ora, puoi fare ciò che vuoi. Ma sappi che io non posso accettarti come moglie, perché ci sono dubbi sulla tua purezza. Se ti accettassi, nel popolo crescerebbe il malcontento e non mi rispetterebbero più. Quando un re non è rispettato tutto va in rovina, e la gente soffre. Io voglio che tutti siano felici, invece. Fai ciò che vuoi, quindi, ma senza una prova della tua purezza io non posso accettarti.”
Sita non credeva a ciò che ascoltava. Si chiese se mai le sue sofferenze avrebbero avuto fine. Perché doveva subire un destino così crudele?
“Se vuoi puoi chiedere protezione a Lakshmana,” continuò Rama, “o a Bharata, o a Vibhisana, o a Sugriva, o a chiunque altro. Ma io senza una prova chiara della tua purezza, non posso riprenderti con me.”
Erano parole dure, quelle. Così dure che solo per poco non spezzarono il cuore di Sita. Si sentì come colpita da un fulmine. Lacrime calde e copiose uscirono da quegli occhi così belli, così tanto simili ai petali del fiore di loto. Ci volle qualche minuto prima che Sita riuscisse a parlare.
“Perché dici queste parole così crudeli?” chiese. “Non basta quello che ho sofferto finora? La mia purezza negli atti e nei pensieri è sempre rimasta intatta. Chi non sa che sono rimasta nella casa di Ravana perché costretta?”
Ma non c'era molto da discutere. Rama la guardava con occhi pieni d'amore ma fermo nei principi che erano il filo conduttore della sua esistenza. E Sita capì che doveva dare la prova della sua purezza. O mai più vedere Rama. Si rivolse a Lakshmana.
“Prepara una pira,” gli chiese. “Io sono casta e pura e senza la minima macchia: entrerò in quelle fiamme. Una donna veramente casta non può essere toccata neanche dal fuoco. Se Agni mi risparmierà vorrà dire che sono sempre rimasta fedele a mio marito e che non ho mai pensato a nessun altro. Se invece morirò, quella sarà la prova della mia infedeltà.”
Rama non disse nulla. Il suo volto era immobile. A malincuore, secondo il desiderio di Sita, Lakshmana preparò una pira e vi appiccò il fuoco. Dopo aver offerto rispetti a suo marito e agli dei, Sita vi entrò con decisione. La folla gridò, creando un tumulto che scosse la città.
Mentre Sita era avvolta dalle fiamme, Rama sembrava di pietra; non si muoveva, non diceva niente, guardava il fuoco e pensava. E in quel momento, all'improvviso, si udirono delle voci celestiali: e i Deva con Brahma a capo apparvero davanti a tutti.
“O Rama,” disse Brahma, “perché ti stai comportando come se voi foste comuni mortali? Tu sai che tutti noi siamo tuoi subordinati e che la tua essenza spirituale pervade la creazione intera. Non fare questa ingiustizia a Sita, che è la più casta delle donne.”
Rama sembrava stupito da quelle parole.
“O creatore dell'universo,” chiese Rama con umiltà, “io sono Rama, il figlio di Dasaratha, e per nascita sono un uomo. Ciò che mi stai dicendo mi sorprende. Allora chi sono veramente io? Qual è la mia vera identità?”
“Tu sei l'incarnazione del Signore Supremo Narayana,” rispose Brahma, “il Dio glorioso che tiene in mano il disco Sudarshana. Tu sei l'eterno e invincibile Signore Vishnu, che è eternamente trasportato da Garuda. Tu appari in innumerevoli incarnazioni per proteggere i tuoi devoti e distruggere gli empi. E mediante esempio personale stabilisci gli eterni principi della religione e del comportamento umano.”
Così Brahma svelò pubblicamente la vera identità di Rama. E appena Brahma ebbe terminata la sua preghiera, Agni emerse dalle fiamme con Sita accanto a sé.
“Davanti a tutti testimonio che Sita è pura e incontaminata,” proclamò il Deva del fuoco.
Rama prese gioiosamente Sita per la mano e le sorrise. Sita pianse per la felicità.
88
Rama rivede suo padre
Fra i Deva c'era anche Shiva. Facendosi avanti, si rivolse al glorioso re.
“O Rama, grazie a te il crudele Ravana è stato ucciso e questo ha restituito la serenità a tutti i popoli. Qui, fra di noi, c'è tuo padre, Dasaratha, che stava solo aspettando il completamento del periodo promesso a Kaikeyi per accedere ai pianeti celesti. Il tempo oggi è terminato. Dasaratha tornerà con noi nei pianeti delle gioie che ha ben meritato.”
A quelle parole Rama guardò meglio tra i numerosi esseri celesti che erano di fronte a lui e scorse Dasaratha. Rama e suo fratello gli offrirono rispettosi omaggi.
“Mio caro figlio,” gli disse Dasaratha, “grazie alla tua rettitudine ora io posso raggiungere i pianeti dove la vita è lunga e gioiosa. Chi ha un figlio come te è davvero fortunato.”
Indra sorrideva a Rama.
“O Indra,” gli chiese Rama. “Se uccidendo Ravana ti ho soddisfatto, per favore, restituisci la vita ai Vanara caduti sul campo di battaglia.”
Il re dei Deva acconsentì. In quel giorno di gioia suprema tutti festeggiarono e furono immensamente felici.
89
Il ritorno ad Ayodhya
Rama aveva promesso al padre di restare in esilio per quattordici anni. Il tempo era quasi scaduto, e
Rama si preparò a tornare ad Ayodhya. Salì sul carro Pushpaka, che era stato di Ravana e prima
ancora di Kuvera. Prima della partenza, Vibhisana onorò i Vanara con ricchi doni. Poi partirono.
Rama invitò a salire sul carro Sugriva, lo stesso Vibhisana che aveva manifestato il desiderio di
accompagnarlo e altri Vanara. Poi la partenza, verso la tanto agognata Ayodhya.
Mentre il carro sorvolava i luoghi che avevano visto lo svolgersi dei diversi avvenimenti, Rama
raccontava tutto a Sita: gli additò il campo di battaglia, il luogo dove Hanuman era atterrato,
l'oceano attraversato con un balzo da Hanuman e via dicendo. Dopo qualche ora sorvolarono
l'eremo di Bharadvaja, e Rama volle andare a salutare il grande saggio.
Felice di rivederli dopo il successo della loro missione, il saggio benedisse Rama e tutti gli altri, che
risalirono sul carro e ripartirono.
Quando Ayodhya fu vicina, Rama chiese ad Hanuman di andare avanti per avvertire Bharata del
loro arrivo. Il glorioso Vanara entrò nella città e incontrò Bharata.
“O principe, ti porto una buona notizia. Tuo fratello Rama, sua moglie Sita e il virtuoso Lakshmana
stanno arrivando. Non sono molto lontani da qui e domani l'incontrerai.”
Bharata non credeva alla meravigliosa notizia. Fuori di sé dalla gioia, riempì Hanuman di ricchezze
e chiese notizie di Rama. Hanuman si sedette e raccontò tutta la storia, della quale Bharata era
completamente all'oscuro.
Lo stesso giorno la città venne pulita, profumata e preparata per il ritorno di Rama, e dopo aver dato
le necessarie disposizioni Bharata volle partire per andare ad incontrare Rama nell'accampamento.
E quando i due fratelli si rividero, gioirono e si abbracciarono con trasporto.
Il giorno dopo Rama, che desiderava tornare nello stesso carro in compagnia di Bharata, chiese al
carro celestiale Pushpaka di tornare da Kuvera. Dopo poche ore, nel momento esatto in cui
terminarono i quattordici anni di esilio, Rama rientrò nella sua capitale.
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Rama re di Ayodhya
Appena furono entrati nella sala reale, Bharata giunse le mani in segno di obbedienza e invitò Rama a sedersi sul trono reale. Dopo che fu seduto gli parlò di fronte a tutti.
“Tu mi affidasti questo regno per le ragioni che tutti conosciamo. Ma ti spetta di diritto. Ora che hai mantenuto la promessa fatta a nostro padre passando quattordici anni della tua vita nella foresta, ti prego, riprendi la guida del regno.”
Rama sorrise ed accettò. Avendo ritrovato il suo regno, Rama fu incoronato e sfilò in processione per le strade della città. I cittadini di Ayodhya, che lo rivedevano dopo tanto tempo, lo acclamarono con entusiasmo. Tutti sembrarono aver ritrovato nuova vita. Tutti furono contenti del ritorno di Rama.
Dopo pochi giorni Rama congedò i suoi cari amici Sugriva, Vibhisana, Hanuman e tutti gli altri, che a malincuore partirono.
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Epilogo
Rama governò il regno di Ayodhya per undicimila anni e le glorie di quel periodo sono descritte nel Ramayana di Valmiki. La gente non conosceva malattie, sofferenze o miserie: tutti furono felici per tutta la vita. Nessuno mai ebbe da lamentarsi e il cibo fu sempre abbondante. E neanche gli animali soffrirono sotto il regno di quel re santo. Durante il suo regno nessuno parlava di niente altro che delle glorie di Rama.
Il Ramayana di Valmiki consiglia a coloro che desiderano trovare la prosperità nella vita di ascoltare e recitare i racconti delle gesta del Signore con regolarità, in particolare quando narrate da persone sagge dal cuore completamente purificato.
Bala Kanda Ayodhya Kanda Aranya Kanda Kiskindha Kanda
Sundara Kanda Yuddha Kanda Uttara Kanda Glossario