1
Valmiki e Narada
Una volta, tanto tempo fa, quando si studiavano i sacri libri Veda, coloro che desideravano la realizzazione spirituale si ritiravano nei luoghi sacri, di cui l'India è ancora oggi ricca. La vita delle persone era suddivisa in varie tappe, ed il culmine era la rinuncia ad ogni attaccamento alle cose materiali, prima che il tempo ineluttabile esercitasse la sua forza portando via tutto con la morte. Il saggio Valmiki, autore dell’opera oggetto del nostro racconto, era una di quelle persone. Trascorso il periodo durante il quale l'ignoranza ottenebrava il suo cuore, egli si ritirò in un eremo nella foresta a studiare e a meditare. Valmiki era diventato un saggio molto famoso e rispettato. Grazie alle sue ascesi aveva sviluppato notevoli poteri mistici.
Un giorno ricevette la visita di Narada Muni, il suo maestro spirituale. Dopo avergli offerto i rispetti dovuti a un guru, i due saggi si sedettero all'ombra di un grande albero di banyano, non distante dall'eremo di Valmiki. Iniziarono la conversazione.
“Sono molto fortunato ad averti conosciuto,” disse Valmiki, “e grazie a te sono stato iniziato al canto dei sacri mantra vedici, grazie ai quali ho ottenuto un grande progresso spirituale. Inoltre tu hai studiato tutte le scritture e me ne hai insegnato i punti essenziali. Oggi ho una curiosità che ti prego di soddisfare.”
Narada sorrise. Per un maestro è una fortuna avere discepoli che sanno fare le domande giuste; questa era per lui un'opportunità di recitare storie sacre che potevano purificare il cuore. Sapeva che Valmiki era un bravo discepolo. “In questo mondo,” continuò, “ci sono molti re santi e anche grandi saggi che hanno controllato completamente le loro passioni. Ma vorrei sapere: chi è il più grande tra loro? Chi è il più famoso, il più nobile, il più veritiero e il più fermo nei suoi voti? Chi è la più grande personalità di questo tempo?”
Narada non rimase molto tempo a riflettere, come se non avesse dubbi. Era evidente che pensava già a qualcuno in particolare e sorrise ancora, grato al suo discepolo per avergli dato l'opportunità di parlarne. Sembrava particolarmente felice.
“Nella dinastia Ikshvaku,” rispose Narada, “è nato Rama, un uomo così nobile e virtuoso come mai questo mondo ne vide. Le sue qualità non hanno limiti ed è una grande gioia per me e per chiunque altro raccontarne le gesta. Se vuoi posso narrarti la sua sacra storia.”
Valmiki assentì, felice, e il giorno vide i due saggi seduti all'ombra rinfrescante del gigantesco albero che parlavano della sacra storia del re Rama. L'atmosfera tutt'intorno era meravigliosamente serena e dolce, e mentre Narada si apprestava a raccontare la storia di Rama, i discepoli di Valmiki vennero e si sedettero tutt'intorno, attratti da quelle parole e da come si svolgeva la recitazione. Era dolcissima. Una storia così bella non era mai stata narrata prima di allora. Tutti provarono una grande ammirazione per quel re e per l'abnegazione con la quale governava il suo regno, ammirazione per i suoi principi morali, per l'amore che provava per il prossimo fino al punto di rinunciare a tutto ciò cui era più affezionato; e ammirazione per le sue qualità spirituali.
Valmiki non riuscì mai a dimenticarla.
2
L'avvento della poesia
Un giorno, accompagnato dal suo discepolo Bharadvaja, il Rishi Valmiki era andato sulle rive del fiume Tamasa, non lontano dal Gange. L'acqua era cristallina e una gentile brezza rinfrescava l'aria. L'atmosfera era incantevole. Così decise di fermarsi lì per le sue abluzioni giornaliere. Mentre si preparava ammirava la foresta verdeggiante alle loro spalle e che rendeva idilliaco il panorama. Quanta pace! E quanta bellezza! Che artista doveva essere il creatore delle cose tutte!, pensava.
Sul ramo dell'albero c'era una coppia di uccelli che amoreggiavano. Il saggio li guardava, meditando serenamente. All'improvviso la tragedia inaspettata: una freccia scagliata da un cacciatore nascosto trafisse il maschio, che cadde morto. La sua compagna sembrava impazzita dal dolore, tanto che non riusciva neanche a fuggire, e correva il rischio di finire uccisa anche lei. Valmiki guardava la drammatica scena e provò una pena profonda per gli uccelli, così violentemente strappati alla loro felicità. Poi sentì la collera scaturirgli dal cuore, incontrollabile, e decise di maledire il cacciatore. A voce alta, in modo da essere ascoltato, il saggio disse:
“Tu hai colpito due uccelli mentre si accoppiavano, e per quest'atto ignobile mai otterrai alcuna fama.”
Il cacciatore fuggì impaurito, temendo altre maledizioni. Mentre lo guardava fuggire, Valmiki si fermò pensieroso. Qualcosa aveva colpito la sua mente. La maledizione, come l'aveva pronunciata? Come aveva espresso il suo dolore? Involontariamente aveva manifestato la sua collera in versi perfetti, in un'espressione simmetrica e ritmata tale da poter essere recitata anche in musica. Nei giorni che seguirono rifletté a lungo.
“Questa espressione che ho involontariamente creato è meravigliosa. Sembra fatta proprio per recitare poemi anche in musica. Diffonderò il suo uso in tutto il mondo. E siccome è nata dal mio shoka , i suoi versi saranno chiamati shloka.”
Da allora i maggiori testi sacri furono scritti in shloka.
Un giorno, dopo aver terminato i suoi riti religiosi e le sue abluzioni, il saggio tornò all'eremo. E lì, radiante della luce di mille soli, gli apparve Brahma, il primo essere nato, colui che ha progettato e costruito l'universo in cui viviamo. Stupito da quella improvvisa visione, Valmiki si prostrò in terra, offrendogli rispettose preghiere. Con voce profonda il grande Brahma gli rivolse queste parole:
“O Muni, quella maledizione e la maniera con cui l'hai pronunciata, non sono state un caso. É accaduto per mio volere. Tu hai una missione in questo mondo e non devi più indugiare. Devi comporre il poema della vita del re Rama così come l'hai ascoltata da mio figlio Narada.”
A quelle parole Valmiki si sentì il cuore pervaso da una grande gioia, e non solo per il fatto di avere davanti a sé Brahma, il figlio diretto di Vishnu, ma anche per quella richiesta che confermava ciò che già prima sentiva dentro di sé. Brahma non aveva fatto altro che ordinargli espressamente di fare ciò che lui sentiva come un dovere e anche come una precisa necessità interiore. Ma aveva dei dubbi. Ne sarebbe stato capace? E Brahma, comprendendo le sue perplessità, lo rassicurò.
“Non preoccuparti. Non avere dubbi sulle tue capacità. Narra ciò che sai. E tutto ciò che ancora non sai ti sarà rivelato in meditazione. Dalla compilazione di questo poema otterrai fama imperitura, e sii certo che questa storia sarà recitata ed ascoltata fintanto che esisteranno i mari e le montagne.”
“E tu vivrai felicemente e a lungo su questa terra,” continuò Brahma, “e poi godrai delle gioie dei pianeti celesti.”
Dopo aver detto questo Brahma scomparve, e Valmiki si convinse che quella era la sua missione.
3
Composizione e narrazione del Ramayana
Narada gli aveva raccontato solo un riassunto della storia, e Valmiki sentì la necessità di conoscerne tutti i particolari. Così si sedette in posizione yoga e si immerse in una profonda meditazione. E come per miracolo vide l'intera vicenda svolgersi davanti a sé, vera e vivida come se stesse assistendovi di persona. E cominciò a scriverla, a comporre il Ramayana.
Quando Rama tornò sul trono di Ayodhya, Valmiki aveva completato la stesura del poema, composta di 24000 shloka. Dopo averlo terminato, pensò al modo di comunicarlo al mondo intero.
Un giorno vennero a trovarlo i due principi Kusha e Lava che vivevano nella foresta. Essi non erano altri che i due figli di Rama nati dopo l'esilio di Sita. Valmiki quindi insegnò loro il Ramayana, chiedendo che andassero poi a cantarlo in giro per le città del mondo. E i due ragazzi furono felici di soddisfare il desiderio del grande saggio. La fama dei giovani e della storia che cantavano si diffuse velocemente ovunque.
Nel loro peregrinare, un giorno Kusha e Lava arrivarono ad Ayodhya e cominciarono a cantare il Ramayana per le strade della favolosa città. Appena il re Rama venne a sapere che i due cantori erano arrivati nella sua capitale volle vederli, ignaro del fatto che fossero i suoi stessi figli. Li convocò nell'arena dove stava conducendo un grande sacrificio e, quando i due giovani entrarono, ammirò la loro grazia e la loro nobiltà di portamento.
“La fama vostra e della storia che narrate,” disse loro Rama, “è arrivata alla mia conoscenza. Tutti ne parlano con grande entusiasmo. Mi è stato detto che il compositore è il venerabile Valmiki Muni, un saggio tra i più grandi e onorati che ci siano. Potete capire la mia curiosità. Vi prego, recitatela qui, davanti a me; cantate la storia di cui io stesso fui il protagonista.”
E così Kusha e Lava cominciarono a cantare il grande poema, il Ramayana.
4
Ayodhya - il Re Dasaratha
Sulle rive del Sarayu si ergeva la città di Ayodhya, capitale del regno di Koshala. Le opulenze di questo regno erano inenarrabili, in special modo quelle della sua capitale.
Ayodhya misurava 12 yojana in lunghezza (circa 153 chilometri) e tre in larghezza (circa 38 chilometri) ed era la più bella città mai esistita. Con tutte quelle opulenze i cittadini erano completamente soddisfatti e felici.
Il re si chiamava Dasaratha, un raja pio e dotato di ogni virtù, in tutte le qualità simile ai più grandi re della tradizione vedica, così valoroso in combattimento che mai conobbe sconfitta. Dasaratha era assistito da due famosi brahmana che si chiamavano Vasishtha e Vamadeva. I brahmana a quel tempo erano le guide spirituali, coloro che provvedevano non solo all'educazione spirituale, ma anche ad ogni altra educazione necessaria alla vita terrena. I brahmana erano i saggi, gli intellettuali, i sacerdoti, tenuti in grande riguardo da tutti i re del tempo. Dasaratha aveva numerosi altri consiglieri, tutti famosi e rispettati per la loro integrità, come Suyajna, Javali, Kasyapa Muni, Gautama, Markandeya e Katyayana. E aveva otto ministri, fra cui il più conosciuto era Sumantra.
5
Il problema di Dasaratha
Tuttavia, nonostante avesse tutte le opulenze che un uomo e un re potessero desiderare, Dasaratha non era felice. La ragione: non riusciva ad avere figli. Lui aveva tre mogli, Kausalya, Sumitra e Kaikeyi, tre donne di nascita nobile e dal cuore virtuoso, ma che senza alcun motivo apparente non riuscivano a dargli figli. Un giorno il re convocò i suoi consiglieri.
“Miei cari, voi conoscete il problema che mi assilla da tanto tempo. É come una spina nel fianco che non dà pace né a me né alle mie mogli. E non sono riuscito a capire il perché io non riesca ad avere figli. Il tempo corre ed io non vorrei avvicinarmi troppo alla vecchiaia prima di aver colto i frutti della vita. Vorrei sapere da voi se nei Veda sono previsti dei sacrifici al fine di propiziare i Deva. É possibile fare qualcosa per risolvere questo problema? Voi siete tutti eruditi e avete studiato le scritture in tutti i loro particolari. Sono certo che se qualcosa può essere fatto voi ne sarete a conoscenza.”
“Buon re,” disse Vasishtha, come portavoce di tutti gli altri, “certamente esiste un sacrificio che può propiziarti i Deva, e sono sicuro che essi soddisferanno il tuo desiderio. Questo sacrificio è l'Asvamedha. Sono certo che se lo farai, presto otterrai un figlio che corrisponderà esattamente ai tuoi migliori desideri.”
Ne discussero a lungo. Alla fine tutti furono concordi sulla necessità di celebrare l'Asvamedhayajna.
Il giorno dopo Sumantra, rivolgendosi al re mentre discutevano della preparazione del sacrificio, volle raccontare una storia.
“Vorrei raccontarti la vecchia storia di come Sanat- Kumara predisse che un grande re sarebbe apparso nella tua dinastia e che sarebbe stato tuo figlio. Sanat- Kumara disse:
“Kasyapa ha un figlio, Vibhandaka, il quale a sua volta avrà un fi- glio che si chiamerà Rishyasringa. Il giovane sarà un gioiello di eremita, con tutte le migliori qualità di un rinunciato, e osserverà con precisione e devozione tutti i più severi voti della vita di un brahmacari. E ci sarà un re chiamato Lomapada che commetterà delle atrocità, e a causa di queste il suo regno sarà colpito da una terribile siccità. I suoi sudditi patiranno molti stenti. La calamità, gli sarà detto, sarebbe cessata solo se il giovane saggio Rishyasringa fosse venuto a visitare il suo regno. Così il re sarà costretto a mandare nell'eremo delle bellissime donne, esperte nell'arte della seduzione, per convincerlo a venire con loro, a seguirle fino alle terre di Lomapada.
“I saggi generalmente non amano visitare città affollate e chiassose, per cui Lomapada non vedeva altra soluzione che quella di attirarlo con l'inganno. E nel momento in cui Vibhandaka non sarà presente, le ragazze sedurranno l'ignaro asceta. Così Rishyasringa verrà nel regno di Lomapada e la siccità terminerà. E per placare la rabbia del padre, Lomapada darà sua figlia Shanta in sposa a Rishyasringa.”
(Sanat Kumara continuò la narrazione).
“Nella linea di Ikshvaku nascerà un re pio di nome Dasaratha, che sarà un grande amico di Lomapada. Egli avrà difficoltà ad avere figli, ma se farà eseguire il sacrificio Asvamedha a quello stesso Rishyasringa, vedrà soddisfatto il suo desiderio.”
“Convoca dunque quel rispettabile santo,” concluse Sumatra, “e sii sicuro che grazie alla sua purezza otterrai certamente l'oggetto del tuo desiderio.”
Dasaratha fu felice di sentire che anche prima della propria nascita Sanat- Kumara aveva parlato di lui, e si convinse che quella era la strada da seguire.
6
Il sacrificio Asvamedha
Gli esperti cominciarono le preparazioni e dei veloci messaggeri furono inviati per invitare tutte le più grandi personalità del tempo. Il re non badò a spese, l'opulenza che fu vista in quel sacrificio era inenarrabile.
E cominciò. Dasaratha e le sue regine al bordo dell'arena erano ansiosi e preoccupati per la riuscita finale, ma la fiducia verso il famoso asceta che guidava lo yajna era totale. Al cenno di Rishyasringa, Dasaratha e le regine si sedettero di fronte al fuoco e il re disse a voce alta:
“Questo sacrificio è stato celebrato con la precisa intenzione da parte mia di avere figli, giacché un destino misterioso mi ha condannato a non averne. La mia dinastia non può interrompersi, per cui è necessario per me avere un successore.”
“O re virtuoso,” rispose Rishyasringa, “il tuo desiderio sarà esaudito.”
7
La riunione dei Deva
Nei pianeti celesti, quei mondi dove la vita è priva degli affanni di cui invece è piena la nostra, in quel periodo c'era molta preoccupazione. Gravi problemi assillavano la loro lunga e fortunata esistenza. In coincidenza con lo svolgimento del sacrificio di Dasaratha, Brahma ricevette la visita dei Deva principali. Sembravano preoccupati, quasi ansiosi. Era evidente che un grave problema li assillava e che venivano a chiedere aiuto al loro padre.
“Oramai non c'è più limite ai soprusi che il terribile Rakshasa Ravana sta infliggendo all'umanità intera. Regni distrutti, città rase al suolo, mucche e saggi trucidati, donne rapite e violentate. E molto di più. Noi non possiamo nulla contro la potenza di quell'essere malvagio, che tu hai reso invincibile. Ti preghiamo, intervieni e ristabilisci la pace e la serenità.”
“Voi sapete come io,” rispose Brahma, “abbia benedetto Ravana a essere praticamente invulnerabile, realmente invincibile. Egli non può essere ucciso da nessuno. Questo è dunque un grave problema sul quale ho già meditato a lungo, ma non sono ancora riuscito a trovare una soluzione. Solo un essere della specie umana potrebbe ucciderlo, ma non esiste un uomo tanto potente. E nessuno di noi Deva può fare niente contro di lui. Ma bisogna trovare una soluzione. L'emergenza è della massima gravità. Ho quindi preso la decisione di rivolgermi a Vishnu, il Signore Supremo. Sono certo che Egli ci aiuterà a porre fine a questo incubo.”
Brahma si chiuse in una profonda meditazione: aveva un aspetto così solenne e imperturbabile che sembrava che nulla potesse scuoterlo. Non molto tempo dopo Vishnu apparve.
“Io so quante angherie state subendo dal malvagio Rakshasa. Proprio per porre fine alle sue malefatte io, diviso in quattro personalità, apparirò come figli di Dasaratha. In questo modo porrò fine alla carriera sciagurata di Ravana.”
8
Vishnu si incarna
Non appena Vishnu ebbe finito di parlare, una figura celestiale emerse dal fuoco del sacrificio che ardeva ad Ayodhya e parlò, rivolgendosi al re.
“Dasaratha, sono stato mandato dai Deva per soddisfare il tuo grande desiderio e necessità. Brahma in persona mi ha incaricato di darti questo succo divino chiamato payasa. Ascoltami: fallo bere alle tue spose ed esse concepiranno delle incarnazioni di Vishnu.”
Dasaratha si alzò e prese il recipiente dalle mani dell'inviato dei Deva, che immediatamente scomparve. E lo porse alla sua prima moglie Kausalya e le disse di berne metà. Poi lo dette alla sua seconda moglie Sumitra e le chiese di bere metà del rimanente. Ciò che rimase lo porse alla terza moglie, chiedendole di fare lo stesso, e cioè di bere la metà di ciò che era rimasto. E l'ultima metà la fece bere ancora a Sumitra. Questo fu il criterio con cui Dasaratha distribuì il succo divi- no consegnatogli dal messaggero celeste.
Chiari segni di gravidanza furono visibili istantaneamente nelle regine: Narayana, Vishnu, era già entrato nei loro corpi.
9
I Deva si incarnano
Vedendo tutto ciò dall'alto dei pianeti celesti, Brahma riunì tutti i Deva e disse loro:
“Vishnu vuole aiutarci. A questo scopo è già sceso sulla Terra, e voi dovete aiutarlo nella sua missione. Scendete nel mondo degli uomini e incarnatevi anche voi in forme diverse. Dal ventre delle Apsara producete una razza di Vanara veloci come il vento e invincibili in guerra, e che siano estremamente forti e intelligenti. Agite così, dunque, senza nessun indugio, per il bene della popolazione dell'universo.”
Brahma dette l'esempio: fu il primo e generò Jambavan, il re degli orsi, nato da uno sbadiglio. Indra produsse Vali, che era alto come una montagna; e Vivasvan procreò Sugriva; e Brihaspati l'intelligente Taraka; e Kuvera generò Gandhamadana. Da Visvakarma nacque Nala; e da Agni, Nila; dai due Asvini Kumara, Mahinda e Dvivida; da Varuna, Sushena; e da Paijanya, Sarava. Vayu, il Deva del vento, generò il grande devoto Hanuman. Tutti i grandi Deva e saggi celesti procrearono potenti scimmie e orsi, dai corpi duri come il diamante e valorosissimi in guerra, che velocemente cominciarono a discendere sulla Terra. Quando il sacrificio Asvamedha fu terminato, tutti si apprestarono a tornare nei loro rispettivi paesi e città. Anche il puro Rishyasringa lasciò Ayodhya, ricoperto di onori e ricchezze.
10
La nascita di Rama e dei suoi fratelli
I bambini nacquero. Kausalya fu la prima a partorire e suo figlio fu chiamato Rama. Poi Kaikeyi, e suo figlio fu chiamato Bharata. Infine Sumitra, che dette alla luce due gemelli, ai quali furono dati i nomi di Lakshmana e Satrughna. I bambini crescevano giorno dopo giorno, pieni di tutte le buone qualità. Erano belli, forti, abili, coraggiosi, gentili, virtuosi e devoti ai princìpi della religione. Tutte queste qualità erano presenti nei figli di Dasaratha, che non sapeva nascondere la sua gioia e il suo amore verso i ragazzi. In particolare Rama era il più amato, e non soltanto dal padre, ma anche da chiunque lo conoscesse. Fin dall'infanzia Lakshmana sentì un amore spontaneo verso il fratello maggiore e i due non si separavano neanche per un momento. Satrughna, invece, sviluppò un sentimento particolare per Bharata. Ma non ci furono invidie o competizioni fra di loro: i quattro si amavano tutti di un profondo amore fraterno.
11
L'arrivo di Visvamitra
Quando i ragazzi furono in età da matrimonio, il re cominciò a considerare differenti possibilità. C'erano innumerevoli principesse nobili e stupende, e tutte sarebbero state liete di sposare i suoi figli. Proprio in quel periodo arrivò ad Ayodhya il grande Visvamitra, il saggio dalla fama immortale, che aveva raggiunto le più alte vette della perfezione ascetica. Le sue austerità furono così severe che i Deva si spaventarono più volte, pensando che volesse distruggerli col fuoco della sua potenza. Entrò nel palazzo reale e si annunciò, chiedendo di essere ricevuto dal re. Appena Dasaratha seppe del fortunato arrivo, balzò dal trono e si precipitò a dargli il benvenuto, portando con sé tutto il necessario per onorare il santo. Quando il puja fu terminato, tutti si sedettero, e fu Dasaratha a rompere il silenzio.
“O grande Rishi, santi come te purificano ogni luogo che visitano. Io sono felice del tuo arrivo e voglio prometterti di soddisfare qualsiasi tua necessità, anche se so che asceti del tuo calibro non hanno alcuna esigenza. Tuttavia voglio sperare che tu sia venuto qua con qualche richiesta. Ne sarei felice, così potrei impegnarmi al tuo servizio.”
Il saggio aveva un'espressione grave, ma una vivida luce di santità e di misericordia emanava dai suoi occhi scuri. Era visibilmente soddisfatto per la completa disponibilità del re. Senza fretta alcuna parlò:
“In realtà sono venuto qua con una richiesta precisa,” disse Visvamitra, “che nasce da problemi che ostacolano la mia tranquillità e quella degli altri eremiti con i quali vivo. Sono venuto a chiederti assistenza.”
Dasaratha si sentì contento di poter fare qualcosa per un saggio così famoso.
“Qualunque sia l'ostacolo, fa conto che non esista già più,” rispose Dasaratha con entusiasmo. “Niente in questo mondo deve ostacolare la vita di chi lavora nel proprio spirito per il beneficio di tutti. Dimmi, qual è il tuo problema?”
“In questo periodo,” disse l'asceta, “stiamo svolgendo delle cerimonie sacrificali di grande importanza, ma due Rakshasa ci impediscono di portarle avanti, disturbando la procedura prevista. Essi gettano cose sporche e contaminate nell'arena che invece deve sempre essere tenuta pura. Io vorrei che i due malvagi, Maricha e Subahu, siano uccisi e che la pace torni nelle nostre vite.”
“O Visvamitra,” disse Dasaratha, “io stesso partirò oggi per porre fine alla vita dei due malfattori. Non temere. Presto i vostri yajna potranno riprendere tranquillamente come prima.”
Ma il Rishi non sembrava contento.
“No, re virtuoso. Non voglio che tu venga. Ti chiedo di affidarmi i tuoi figli Rama e Lakshmana. Saranno loro a distruggere i Rakshasa.”
“Rama e Lakshmana?” esclamò Dasaratha. “Ma sono poco più di due ragazzi.”
Visvamitra lo guardò leggermente irritato.
“Lo so. Ma ho motivi validi per chiederti loro, e non te in persona o altri.”
Dasaratha cominciò a sentirsi agitato. La missione era pericolosa, non voleva esporre a quei pericoli
i suoi giovani figli, che amava teneramente.
“O saggio, io non sono mai stato sconfitto in battaglia. Non puoi dubitare che io sia capace di
ottenere il risultato. Non temere: io con il mio esercito distruggerò i due Rakshasa.”
Vedendo Dasaratha agitato, Visvamitra aggrottò le sopracciglia, infastidito dalla mancanza di fede
del re. La sua voce diventò ancora più cupa e profonda.
“Non pensi che io sia in grado di proteggere i tuoi figli? Io ho chiesto Rama e Lakshmana. Se non
vuoi affidarmeli, dimmelo e me ne andrò all'istante.”
Vedendo il saggio deciso nell'intento e pensando al grave pericolo che correvano i suoi figli,
Dasaratha si sentì mancare. I suoi ministri accorsero per sorreggerlo. Si riebbe in tempo per sentire
la voce grave di Visvamitra che tuonava.
“Quando sono entrato mi hai promesso che mi avresti dato qualsiasi cosa. Ma vedo che non vuoi
mantenere la promessa!”
Si alzò e fece l'atto di andarsene col volto visibilmente irato, quando il sapiente Vasishtha lo
chiamò, fermandolo.
“Grande Visvamitra, non essere adirato con il nostro re. Egli vuole sinceramente renderti servizio,
ma ha paura per i ragazzi. Attendi ancora un momento, io gli parlerò. Lo convincerò ad avere fede
nella protezione che saprai dare loro.”
Il Rishi si fermò e Vasishtha si rivolse al re.
“Rama e Lakshmana non corrono alcun pericolo,” lo ammonì. “Ricordati che Rama è nato per la
distruzione di tutti i Rakshasa e che inoltre è protetto da Visvamitra, il quale potrebbe uccidere egli
stesso Maricha e Subahu se non fosse impegnato in quel sacrificio. Non preoccuparti. Manda con
lui i tuoi figli a cuor sereno e presto li vedrai tornare vittoriosi e radianti gloria.”
Dopo mille incertezze, Dasaratha acconsentì.
12
Nella foresta
In giornata Visvamitra, Rama e Lakshmana lasciarono Ayodhya e si addentrarono nella foresta. Gli uccelli, il vento, persino i colori sembravano cantare la stessa canzone di pace e di serenità. La foresta era di una bellezza straordinaria, celestiale, che conduceva con naturalezza a pensieri di virtù. I due fratelli erano sereni e seguivano il saggio con rispetto. In compagnia di quel Muni così erudito il viaggio si rivelò piacevole e istruttivo. Visvamitra raccontò molte storie e mostrò loro svariati luoghi santi, narrando sul posto storie avvincenti. Dopo qualche giorno di cammino, i tre giunsero in un'altra parte della foresta. L'aria non era più la stessa, si respirava un'atmosfera tesa e demoniaca; Rama avvertì subito che erano entrati in un luogo diverso, non sereno e tranquillo come gli altri. Qua e là giacevano le ossa di vari animali e anche di uomini. L'aria vibrava e metteva a disagio. Rama vide che anche Visvamitra aveva perso la sua allegria e la sua loquacità.
“Vedo che c'è qualcosa che ti preoccupa,” gli chiese. “Io vedo chiaramente sul tuo viso i segni del disagio. In questa parte della foresta l'atmosfera non è più la stessa, non sento più gli uccelli cinguettare e non vedo neanche tanti animali. Dimmi. C'è qualcosa di particolare in questo luogo?”
“Si, è vero,” ammise Visvamitra. “Questa foresta non è come tutte le altre perché da molti anni qui vive Tadaka, una terribile Rakshasi. Tu sai che generalmente questi esseri sono molto malvagi e provano piacere nel mangiare carne, specialmente quella umana, e nel bere sangue. Oltre a questo hanno molti poteri mistici e in combattimento sono valorosi.”
“Mi sembra di capire,” replicò Rama, “che la presenza di costei è fonte di sofferenza per molte persone. Vuoi che io faccia qualcosa a proposito?”
“Guarda queste ossa e senti il tanfo che c'è nell'aria,” fu la risposta. “Neanche gli animali passano più per questi sentieri. Una volta questa era una foresta piacevole e piena di gioia. Tadaka l'ha fatta diventare un deserto squallido e orrendo. Per questo è bene che tu la uccida.”
“Ho già sentito parlare di Tadaka,” disse Rama incuriosito, “e vorrei sapere qualcosa a suo riguardo. Raccontami la storia della sua vita.”
Fermandosi sul posto, il Rishi guardò Rama e Lakshmana e con calma raccontò.
“Una volta Tadaka non era l'orribile demone che è ora. É diventata tale in seguito. Ascolta:
“Una volta c'era uno Yaksha di nome Suketu. Era una persona dal cuore puro e gentile, ma non aveva figli e se ne rattristava. La sua divinità era Brahma e la serviva con grande devozione. Brahma fu soddisfatto della sua devozione e gli concesse una figlia dotata di una grande forza fisica. Questa era Tadaka.
“Lei sposò Sunda ed ebbe un figlio di nome Maricha. In seguito Sunda fu ucciso dal Muni Agastya e i due decisero di vendicare la morte del familiare. Venendo a conoscenza delle loro intenzioni, il saggio lanciò una potente maledizione e Tadaka e suo figlio Maricha diventarono Rakshasa crudeli e orribili.
“Sia Tadaka sia Maricha sono un pericolo continuo per la gente pacifica. Il tuo dovere di kshatriya, quindi, è quello di ucciderla e di alleviare così le sofferenze degli indifesi.”
Intenzionato ad agire come Visvamitra desiderava, con grande decisione Rama cominciò a fare rumore scuotendo i rami degli alberi, per attirare l'attenzione di Tadaka. Sentendo quei rumori molesti la demone, che non era lontana, si mise ad ascoltare cercando di capire quale potesse esserne la causa. Non riuscendo a capire cosa potesse fare così tanto fracasso, corse sul posto per vedere di persona. Lì vide i tre. Con voce che sembrava provenire da una caverna profonda disse:
“Chiunque tu sia, uomo temerario, sei arrivato nell'ora giusta. Ho fame e oggi la placherò con le tue carni.”
Con grande irruenza Tadaka attaccò. Ma Rama si difese e dopo un breve combattimento la uccise. Appena la Rakshasi ebbe esalato l'ultimo respiro, Visvamitra abbracciò Rama e gli insegnò l'uso di certe armi celestiali. Con queste Rama divenne ancora più forte nei confronti di qualsiasi nemico.
Durante il viaggio i tre arrivarono nell'eremo di Vamadeva e Visvamitra narrò la sua storia.
13
Combattimento con Maricha e Subahu
Finalmente Visvamitra, Rama e Lakshmana arrivarono nello stupendo luogo dove il saggio viveva e svolgeva le sue austerità e i suoi sacrifici. Lì c'erano molti asceti impegnati nei servizi più disparati, e tutti emanavano una luce di purezza e di serenità. Quasi tutti vestiti di semplici stoffe di cotone arancione, avevano i capelli raggruppati in cima alla testa. La scena era idilliaca e Rama si sentì felice e risollevato. Quanta spiritualità emanava da quel luogo! Quando un uomo stanco delle illusioni della vita materialistica desiderava volgersi dentro di sé per trovare il vero senso della propria esistenza, andava in uno di questi ashrama, o luoghi dove si praticava la vita spirituale. Gradualmente il bruciore dei desideri, della collera e dell'invidia si placava e una nuova coscienza sorgeva dal cuore. Era la coscienza di Dio, quella che rendeva realizzati nel sé. Nell'ashrama di Visvamitra si respirava una forte atmosfera spirituale.
Visvamitra non voleva indugiare ancora e cominciò i preparativi per lo yajna. In poco tempo tutto fu pronto e la cerimonia ricominciò. Rama e Lakshmana si misero in guardia con attenzione, guardandosi intorno costantemente. Non mangiarono né dormirono per sei giorni e sei notti.
Al sesto giorno si udì un sordo brontolio provenire dal cielo. E mentre gli asceti continuarono imperterriti a recitare i mantra vedici e a gettare ghi nel fuoco sacro, Rama e suo fratello capirono che i demoni erano in arrivo. Si scambiarono uno sguardo di intesa. E dal cielo cominciarono a cadere oggetti immondi: pezzi di carne, sangue, interiora, urina, escrementi e ogni altro genere di sudiciume. Si udì una violenta e agghiacciante risata e la pioggia demoniaca aumentò. Rama reagì cominciando a scagliare frecce verso l'alto con una tale velocità da creare una gigantesca cupola fatta di frecce attraverso la quale niente poteva filtrare. Maricha e Subahu si stupirono di ciò che stava accadendo e cominciarono a far cadere enormi macigni. Ma Rama respinse anche quelli. A quel punto i Rakshasa capirono di avere a che fare con un avversario degno di seria considerazione e smisero di giocare. Attaccarono dunque i due giovani principi.
Dopo un violento combattimento Rama uccise Subahu e scaraventò Maricha a molti chilometri di distanza, utilizzando l'arma chiamata vayavya- astra, che creava un vento impetuoso. L'ultimo suono che si sentì fu il grido di rabbia di Maricha. I Rakshasa erano sconfitti, da quel giorno in quella foresta la vita dei Rishi sarebbe stata molto più tranquilla.
I santi personificano i principi della religione e quando questi sono in pericolo Vishnu si incarna e li protegge. Questa è la sua solenne promessa.
14
L'arco di Shiva
Rama e Lakshmana erano contenti della riuscita del loro compito e quando il sacrificio fu terminato si presentarono davanti al saggio.
“Quegli esseri malvagi sono stati sconfitti e non vi recheranno più alcun disturbo. Dicci, cosa possiamo fare ancora per te?”
Visvamitra sorrise e chinò la testa in avanti esprimendo la sua felicità per il successo ottenuto e approvazione per l'atteggiamento umile dei principi.
“Sapete, il re di Mithila, Janaka, sta per eseguire un grande sacrificio. Egli ha un arco che una volta era l'arma personale di Shiva. Poi il Dio la dette al re Devarata, che in seguito lo donò a Janaka. Ma non era un arco normale. Nessuno riesce neanche a impugnarlo, che dire di usarlo. Miei valorosi principi, se volete possiamo andare a Mithila ad ammirare l'arco di Shiva.”
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La liberazione di Ahalya
Di buon grado i due principi accettarono la proposta, e così ripartirono. Passando per favolose foreste, attraversando freschi ed incontaminati fiumi e ruscelli, parlavano di antiche storie di saggi e di Deva. Visvamitra raccontò vicende del suo albero genealogico e la stupenda storia della sua vita. Una notte raccontò anche la storia del fiume Gange e della sua discesa nei pianeti mediani e inferiori. Poi il piccolo gruppo arrivò nell'eremo dove viveva ancora Ahalya. Visvamitra raccontò la sua storia.
“Molto tempo fa questo eremo apparteneva al santo Gautama che, assistito dalla moglie Ahalya, praticava severe austerità. A quei tempi non esisteva donna più bella di lei, tanto che persino Indra, il re dei pianeti celesti, se ne invaghì. Un giorno in cui Gautama si era allontanato dall'eremo, Indra decise di prendere le sue sembianze pensando di ingannare Ahalya, ed entrò nella capanna.
“Indra chiese alla donna di giacere con lui. Ahalya lo guardò. Si era accorta che non era suo marito, e aveva anche capito che si trattava di Indra, ma accettò. Dopo il rapporto sessuale Indra si sentì preso dal panico per paura che Gautama potesse tornare e trovarlo lì. Si alzò velocemente e fece per fuggire, ma inutilmente: Gautama era tornato, era già lì, dietro la porta. Vedendo Indra fuggire, capì l'accaduto e lo maledì con violenza:
“Tu sei entrato nel mio ashrama e prendendo le mie sembianze hai goduto del corpo di mia moglie. Per questo atto vile tu diventerai impotente.”
“Mentre Indra fuggiva, Gautama si volse verso la moglie che tremava come una foglia per la paura. Guardandola intensamente, disse:
“E tu, cara moglie, tu non mi sei stata fedele. Tuttavia il mio sentimento per te non è mutato. Ti purificherai dal tuo peccato vivendo per molti anni in questo eremo con un corpo invisibile agli occhi degli uomini e mangerai solo aria. Dormirai in un letto di cenere e soffrirai di un rimorso senza limiti. Ma quando Rama, il figlio di Dasaratha, visiterà questo luogo tu sarai libera dalla mia maledizione e torneremo a vivere insieme.”
“Ahalya fu felice di poter purificare così la sua colpa,” continuò Visvamitra, “e di poter tornare un giorno a vivere felicemente con il marito. Indra riacquistò la capacità sessuale dopo molto tempo e fatica, ma Ahalya ancora aspetta di essere liberata dalle sue pene. Spetta a te ridarle la pace. Entra quindi nell'eremo.”
Appena Rama fu entrato vide davanti a sé una stupenda donna che lo guardava con occhi riconoscenti. Pochi istanti dopo apparve il saggio Gautama, che ringraziò di cuore il principe e poi, insieme, scomparvero.
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L'incontro con Sita
Non erano trascorsi molti giorni dalla partenza quando entrarono a Mithila, decorata e pervasa da una grande aria di festa.
Visvamitra li condusse subito all'arena del sacrificio del re Janaka e si annunciarono. Pochi istanti dopo videro Janaka, accompagnato dai suoi ministri più importanti, uscire per riceverli personalmente. Offrì un puja al santo Visvamitra e gli lavò i piedi con grande umiltà. Dopodiché furono fatti accomodare. Janaka si rivolse a Rama.
“Caro giovane principe, tu conosci la storia dell'arco di Shiva?”
Rama assentì.
“Sì. Visvamitra me ne ha parlato e sono anzi curioso di vederlo”, rispose.
“Questo arco è così pesante,” raccontò Janaka, “che nemmeno i re più potenti della terra sono stati neanche in grado di spostarlo. Io sono deciso a dare mia figlia Sita in sposa a chi riuscirà a impugnarlo e a porgli la corda.”
Il re raccontò in breve la storia della nascita della figlia e poi la fece chiamare. Quando Sita entrò, Rama la guardò, come folgorato. Aveva già sentito parlare di lei, ma non si aspettava una donna simile. Sita risplendeva di una bellezza che non era di questo mondo, ma che proveniva dal mondo dove le forme non hanno difetti o limitazioni. Non aveva mai visto una donna tanto bella. Oltre alla bellezza fisica, da Sita emanava una luce profonda di castità e di santità e questo la rendeva ancora più irresistibilmente attraente.
E Sita guardò Rama; e appena lo vide il suo cuore cominciò a battere impetuosamente. Il principe era meraviglioso: aveva gli occhi simili ai petali dei fiori di loto, i capelli neri e lunghi che gli scendevano lungo le spalle, e ogni sua fattezza era un inno alla bellezza. Come i loro sguardi si incontrarono l'amore eterno che li legava si risvegliò e inondò i loro cuori. Vishnu e Lakshmi si incontravano in un'altra circostanza, in un'altra situazione, uniti dallo scopo divino che era il fine di quella loro incarnazione. Castamente, Sita abbassò la testa e arrossì. In cuor suo sperò che Rama desiderasse provare a sollevare l'arco e che ci riuscisse. Rama contemplava colei che era la sua compagna eterna e non riusciva a distogliere lo sguardo.
“Se me lo concedi vorrei vedere il sacro arco di Shiva,” disse poi.
Janaka ordinò che l'arco fosse portato nel salone. Dopo poco, l’arma fu introdotta su un gigantesco carro tirato da dieci uomini.
“Guarda, o figlio di Dasaratha,” proclamò Janaka. “Io ti ripeto l'offerta che ho già annunciato a tanti prima di te: se riuscirai a impugnarlo e a fissare la corda, io ti darò mia figlia Sita in sposa.”
Rama cercò con lo sguardo il permesso di Visvamitra, il quale sorridendo mosse la testa affermativamente. Il principe si avvicinò all'arco, lo guardò, lo toccò, gli offrì rispettosi omaggi e poi lo afferrò. Tutti trattennero il respiro. E tra lo stupore di tutti, Rama lo sollevò senza alcuno sforzo apparente. Nei pianeti celesti Shiva danzò in estasi e tutti i Deva manifestarono la loro gioia. Poi, per mettergli la corda, lo piegò in modo così energico che con un boato assordante l'arco si spezzò in due. Tutti persero coscienza, eccetto i saggi presenti, Janaka, Rama e Lakshmana.
Con grande felicità il re concesse Sita a Rama.
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Il matrimonio di Sita e Rama
La notizia dell'accaduto arrivò presto ad Ayodhya. Dasaratha fu felice che suo figlio sposasse la bellissima e casta Sita, famosa in tutto il mondo per le sue qualità, e fu anche felice di allearsi con un re potente e virtuoso come Janaka. Con le sue mogli, i suoi figli, i suoi ministri e con molti soldati, Dasaratha partì per Mithila.
Così Rama sposò Sita, e Lakshmana sposò la sorella di Sita. Janaka aveva un fratello di nome Kusadhvaja, il quale aveva due figlie. Bharata e Satrughna si unirono alle due figlie di Kusadhvaja.
Dopo che il matrimonio fu celebrato, Dasaratha salutò calorosamente Janaka e ripartì con il suo seguito, i suoi figli e le loro rispettive spose.
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Incontro con Parasurama
La giornata era bella e il sole era alto nel cielo. Tutto sembrava esprimere felicità e assenza di problemi. Sita e Rama, contemplandosi l'un l'altra, parlavano di mille cose. Ma anche in quel momento di gioia un pericolo era in agguato. É probabilmente la natura stessa di questo mondo: l'innocenza di ogni passo cela un pericolo potenziale. All'improvviso si levò un forte vento e il cielo si oscurò: i cavalli, spaventati, nitrirono forte. Dasaratha guardò Sumantra.
“Questa non è una normale tempesta. La giornata è calma e pochi istanti fa non c'era un filo di vento. Ci sono molti segni che fanno presagire un pericolo.”
Anche Sumantra sentiva l'ansietà crescere in sé.
“Sì, è vero. Qualcosa sta per accadere. Vigiliamo.”
D'un tratto si fece buio. Si udì un tuono e tornò la luce del giorno. Illuminato da una luce di gloria, Parasurama, l'incarnazione divina che sterminò ventuno volte l'intera razza degli kshatriya, era davanti a loro, e teneva saldamente la sua ascia nella possente mano. I suoi occhi erano di fuoco, la sua figura e il suo stesso nome incutevano terrore a ogni guerriero. Parasurama si era fermato in mezzo al sentiero e impediva loro di proseguire il cammino. I soldati di Dasaratha tremavano di paura, perché ben conoscevano la fama dell'invincibile Parasurama. I brahmana mormorarono:
“Cosa vorrà da noi il figlio di Jamadagni? Vorrà forse ricominciare lo sterminio degli kshatriya? La sua vendetta è stata compiuta molto tempo fa; cosa potrà volere da noi?”
Prontamente Dasaratha scese dal carro e offrì tutti gli onori al brahmana che un giorno adottò la vita del guerriero. Ma era evidente che Parasurama aveva uno scopo ben preciso per fermare la colonna del re. E si sentì la sua voce, risoluta, solenne.
“Dov'è tuo figlio Rama?”
Rama fece un passo avanti e chinò la testa in segno di rispetto. Pa- rasurama lo guardò.
“Tu hai commesso il sacrilegio di rompere l'arco di Shiva e io devo punirti per questo.”
Dasaratha era terrorizzato. Cercò di parlare al potente brahmana, ma egli lo ignorò: aveva occhi solo per Rama.
“C'è un arco simile a quello che tu hai spezzato,” riprese Parasurama. “Quei due archi furono fatti da Visvakarma e servirono nel combattimento che doveva decidere chi fosse il più forte tra Vishnu
e Shiva. Io non capisco come tu possa aver rotto quell'arco, ma voglio vedere se riesci a tenere anche solo nella mano l'altro.”
Con un boato assordante l'arma di Vishnu comparve nella mano di Parasurama. Lo porse al principe, sereno nonostante l'incombente pericolo. Rama lo prese senza sforzo alcuno, guardandolo con aria tranquilla, priva di qualsiasi ansietà. Parasurama era stupito: come poteva quel giovane principe, dopo aver rotto l'arco di Shiva, tenere nella mano quello di Vishnu? Poi capì: solo Vishnu stesso poteva fare una cosa del genere. E i due scomparvero alla vista di tutti.
“Tu sei il Dio Supremo, Vishnu incarnato sulla terra,” pregò Parasurama con le mani giunte.
“Perdona la mia impudenza: non sapevo chi fossi tu in realtà.”
Rama pose una freccia sull'arco e tese la corda.
“Una volta incoccata, questa freccia non può più essere ritirata. Deve colpire e distruggere qualcosa.
Dimmi, cosa vuoi che distrugga?” disse Rama con fermezza.
“Distruggi i pianeti che ho meritato con le mie austerità,” fu la risposta.
E la terribile freccia partì e distrusse quei pianeti. Offrendo i suoi omaggi a Rama, il brahmana scomparve.
Finalmente Dasaratha vide ricomparire suo figlio, ma non riusciva a capire come fosse scampato a un simile pericolo. Poco dopo ripartirono, e giunsero ad Ayodhya, festeggiati dal popolo che li aspettava.
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Gli anni di felicità
Qualche anno dopo Dasaratha mandò Bharata e Satrughna a Kekaya a trovare Yudhajit, lo zio materno. Il glorioso principe Rama passò così dodici anni di felicità con la moglie Sita. I due erano inseparabili, mai potevano essere visti l'uno senza l'altra. In realtà non potevano sopportare neanche un momento di separazione. Come Lakshmi e Vishnu aumentavano la loro felicità e la loro bellezza stando l’uno accanto all'altra, Rama e Sita risplendevano sempre più non separandosi mai, neanche per un momento.
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