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L'arrivo dei saggi
Passarono gli anni. Rama governava con giustizia e virtù, e tutti erano felici del suo governo. I tempi bui dell'esilio e del conflitto con i Rakshasa sembravano non essere mai accaduti. Sita e Rama vissero insieme felicemente.
Un giorno alcuni famosi saggi, tra i quali Agastya, andarono a trovare Rama per congratularsi con lui dell'importante vittoria ottenuta contro Ravana. Appena seppe del loro arrivo in città, Rama andò loro personalmente incontro e li ricevette con grandi onori. Dopo aver celebrato il puja , Rama si sedette per ascoltarli.
“La tua vittoria è stata una grande fortuna per tutti,” disse Agastya. “Hai ucciso il mostro Ravana che era come una spina nel fianco del mondo. E grazie a te, oltre a Ravana, altri esseri malvagi sono morti: l'invincibile Kumbhakarna, Mahodara, Prahasta e molti altri.”
Agastya guardò gli altri saggi e sorrise.
“Ma tutto ciò per noi non è stato sorprendente quanto il fatto che tu sia riuscito ad uccidere Indrajit, il figlio di Ravana. Lui era quello che ci preoccupava più di tutti: per lui avevamo dei dubbi circa la vittoria finale.”
Rama era curioso di sapere come mai i saggi dessero tanta importanza a Indrajit. Chiese loro le ragioni.
“A Lanka c'erano grandi e potentissimi Rakshasa che possedevano poteri sovrannaturali,” domandò. “Ma mi è sembrato di capire che a vostro avviso Indrajit avesse un'importanza e un potere particolare. Potete dirmi perché? E i Rakshasa, potete raccontarmi come questa stirpe di esseri sia venuta ad esistere?”
“Sì,” Agastya Muni replicò, “ti racconterò la storia di Ravana e della discendenza dei Rakshasa.”
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Il saggio Pulastya
“Nell'età dell'oro viveva un grande santo di nome Pulastya, che era figlio di Brahma. Pulastya era un saggio esemplare e risiedeva in un incantevole eremo sulle pendici del monte Meru. In quel luogo pacifico e silenzioso vivevano molti altri eremiti, fra cui il re Trinavindu, che aveva rinunciato al trono ed era diventato un asceta.
“In quel luogo santo, dove la recitazione dei versi sacri dei Veda era il suono principale, le figlie degli eremiti giocavano fra di loro, suonavano strumenti musicali, cantavano e danzavano. La ragazze facevano tutto ciò con innocenza, non certo con l'obiettivo di importunare nessuno, ma di fatto il saggio Pulastya era disturbato dal rumore di quei giochi frivoli. Le meditazioni e le austerità erano rese talvolta difficili. Quando un giorno il frastuono si fece assordante, il saggio perse la pazienza e disse a voce alta, in modo che le ragazze potessero sentirlo:
“La prossima di voi sulla quale si poseranno i miei occhi resterà incinta.”
“Le ragazze fuggirono spaventate, promettendo che mai più sarebbero tornate nei paraggi. Poco dopo, ignara dell'accaduto, passò di là la figlia di Trinavindu alla ricerca delle sue amiche. Non le trovò, ma mentre le cercava sentì il saggio Pulastya che recitava i versi dei Veda. Quelle vibrazioni erano così attraenti che la ragazza si avvicinò all'eremo e incantata rimase ad ascoltare. Finché il saggio la vide. Per effetto della maledizione, chiari segni della gravidanza si manifestarono sul suo corpo. La ragazza non capiva cosa le stesse succedendo e, impaurita, corse dal padre. Trinavindu vide che la figlia era incinta e, rassicurato sul fatto che non avesse avuto rapporti sessuali con nessun uomo, si chiese cosa potesse essere successo. Nella meditazione comprese tutto. Presa per mano sua figlia, andò dal venerabile Rishi Pulastya.
“Mia figlia genererà presto un figlio che è tuo. Accettala come sposa. Lei ti aiuterà nella tua vita.”
“Pulastya accettò, contento di aver ottenuto una buona moglie.
“Giacché questo figlio è nato a causa dell'attrazione della madre per l'ascolto dei sacri Veda,” dichiarò il saggio, “il suo nome sarà Vishrava.”
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Vishrava - Nascita di Kuvera
“Il bambino nacque. Man mano che cresceva si potevano notare in lui le stesse grandi qualità del padre. Quando Vishrava arrivò all'adolescenza, il saggio Bharadvaja gli offrì sua figlia in moglie e Vishrava accettò. Quella ragazza si chiamava Devavarnini . “Vishrava ebbe un figlio al quale impose il nome di Vaishravana. Egli sarebbe diventato Kuvera, il Deva delle ricchezze, il quarto guardiano dell'universo.”
“Dopo aver compiuto grandi austerità e dopo aver soddisfatto Brahma, Vaishravana fu benedetto. Divenne il Deva delle ricchezze e Brahma gli conferì, insieme a Yama, Indra e Varuna, la responsabilità di proteggere una parte del creato. Brahma gli donò anche un carro celestiale straordinariamente bello che si chiamava Pushpaka. Dopo aver ottenuto ciò che desiderava, Vaishravana andò a trovare il padre.
“Brahma mi ha dato ciò che volevo,” lo informò, “ma non mi ha assegnato un posto dove vivere. Dimmi tu quindi dove posso andare ad abitare.”
“C'è una città meravigliosa,” rispose Vishrava dopo aver riflettuto, “che fu costruita da Visvakarma e dove i Rakshasa avevano vissuto. Ma molto tempo fa, per paura di Vishnu, la abbandonarono per fuggire a Rasatala. La città si chiama Lanka, ed è la giusta dimora per te. Vai quindi a prenderne possesso.”
“Kuvera andò a Lanka, ne prese possesso e regnò con grande rettitudine.”
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La stirpe originale dei Rakshasa
Rama fu colpito da un particolare nella narrazione di Agastya, e gli chiese spiegazioni.
“Tu hai detto che Vaishravana occupò Lanka, una città che era stata occupata dai Rakshasa. Ma a
quel tempo Ravana non era ancora nato. Era esistita forse un'altra razza Rakshasa precedente a
Ravana?”
Agastya si preparò a rispondere all'osservazione di Rama.
“All'inizio della creazione Brahma creò le acque dell'oceano e alcune entità viventi che le
proteggessero. Ma questi esseri furono afflitti dalla fame e dalla sete. Non riuscendo più a tollerarle,
andarono da Brahma. E il grande architetto dell'universo disse:
“Il vostro dovere è quello di proteggere queste acque.”
“Alcuni di coloro che avevano fame e sete dissero:
“Noi le proteggeremo.”
“E altri dissero:
“Noi mangeremo.”
“E Brahma replicò:
“Chi di voi intendeva obbedire alle mie istruzioni e ha detto ‘noi le proteggeremo’ diventeranno
potenti Rakshasa, e chi di voi voleva cedere alla fame e ha detto ‘noi mangeremo’ diventeranno
Yaksha.”
“Da allora iniziarono queste due differenti stirpi di esseri.
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La genealogia dei Rakshasa
“I potenti capi dei Rakshasa erano Heti e Praheti. Quest'ultimo si ritirò nella foresta per dedicare la sua vita alle pratiche ascetiche, mentre Heti volle trovare una brava moglie. Di propria iniziativa sposò Bhaya, la sorella di Kala, ed ebbero un figlio chiamato Vidyutkesha.
“Quando raggiunse l'adolescenza, Vidyutkesha sposò Salakantaka, la figlia di Sandhya. Quando la Rakshasi partorì il primo figlio, non lo volle e lo abbandonò in una foresta del monte Mandara. Il bambino era luminoso come il sole, ma vedendosi abbandonato piangeva piano per la paura. In quel momento Shiva e Parvati passavano di là e sentirono il vagito di un bimbo. Così Parvati volle fermarsi e vedere chi fosse. Vedendo il neonato, Parvati sentì una profonda compassione per quel bambino abbandonato, e chiese al marito di aiutarlo. Così Shiva lo fece crescere immediatamente fino all'età della madre e lo rese immortale. Inoltre gli donò una città incantata che poteva andare ovunque senza restrizioni. Scorgendo nei loro cuori una particolare predisposizione verso le gioie della vita materiale, Parvati dette a tutte le Rakshasi il potere di partorire nel giorno stesso del concepimento e concesse che i loro figli sarebbero cresciuti subito fino all'età della madre. Il bambino nato da Vidyutkesha e Salakantaka si chiamò Sukesha. “Quando il Gandharva Grahmani seppe che Sukesha era stato benedetto da Shiva, gli offrì sua figlia Devavati in sposa. Ed ebbero tre figli: Malyavan, Sumali e Mali.
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I Rakshasa a Lanka
“Erano, questi, tre mostri malvagi che praticarono grandi austerità e causarono grandi sofferenze a chiunque incontrassero. Dopo molto tempo Brahma accordò loro le benedizioni che desideravano. I tre Rakshasa sapevano di essere invincibili e che potevano essere distrutti solo se avessero litigato fra loro. La benedizione che chiesero, quindi, fu quella di essere sempre pieni d'amore fraterno l'uno per l'altro. Brahma così li rese ancora più forti e li benedisse a godere di una lunga vita.
“Vittoriosi, cominciarono a viaggiare, uccidendo e saccheggiando. Un giorno si recarono da Visvakarma, l'architetto dei Deva, e gli chiesero di costruire una città proporzionata alla loro grandezza. Visvakarma rispose:
“Per volere di Indra ho costruito una città chiamata Lanka. Io penso che sia adatta alla vostra gloria. Andate a prenderne possesso.”
“Così fecero.
“E nei pressi della città di Lanka viveva una Gandharvi di nome Narmada, la quale aveva tre figlie. Volontariamente le offrì in spose ai tre Rakshasa.
“Malyavan sposò Sundari ed ebbe i seguenti figli: Vajramusti, Virupaksha, Dunmukha, Suptaghna, Yajnakopa, Matta e Unmatta. Ebbero anche una figlia di nome Anala.
“Sumali sposò Ketumati ed ebbe i seguenti figli: Prahasta, Akampana, Vikata, Kalikamukha, Dhumraksha, Danda, Suparsva, Samhradi, Praghasa e Bhasakarna. Ebbe anche le seguenti figlie: Raka, Puspotkata, Kaikasi e Kumbhinasi.
“Mali sposò Vasuda ed ebbe i seguenti figli: Anala, Anila, Ilara e Sampati. Tutti questi erano ministri di Vibhisana.
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Vittorie e sconfitte
“Aiutati dai loro numerosi figli e nipoti, i tre fortissimi Rakshasa si inebriarono del loro potere e divennero ancora più crudeli. Quindi dichiararono guerra ai Deva, ai Naga e agli Yaksha, e molestarono i saggi impedendo loro i sacrifici. Sconfitti in battaglia, i Deva chiesero aiuto a Shiva ma egli, ricordando l'affetto per il loro padre, non se la sentì di ucciderli.
“Andate da Vishnu,” disse ai Deva. “Sicuramente vi aiuterà.”
“I Deva si recarono da Vishnu e ottennero il suo favore e la promessa di un aiuto.
“Andate sicuri,” li rassicurò, “al momento giusto io interverrò.”
“Nel frattempo i Rakshasa vennero a sapere che i Deva avevano chiesto aiuto a Vishnu e ne furono fortemente contrariati. Per questo decisero di distruggere tutti i pianeti celesti con i loro abitanti. Seguiti da un grosso esercito, lascia- rono Lanka e si diressero verso i mondi superiori. Durante il viaggio scorsero cattivi presagi, ma erano troppo arroganti e sicuri della loro forza per preoccuparsi.
“Nel frattempo Vishnu era venuto a conoscere le intenzioni dei Rakshasa e intervenne. Trasportato da Garuda, il Signore li attaccò e li massacrò a migliaia: molti fuggirono. Anche Sumali fu sconfitto. Poi il coraggioso Mali attaccò il suo nemico, ma fu ucciso, decapitato dal Sudarshana- Chakra. Mali era il più giovane dei tre, ma era anche il più forte. Vedendo Mali morto, gli altri Rakshasa si persero d'animo e fuggirono verso Lanka, inseguiti da Vishnu. Dopo molto tempo, gli spaventati Rakshasa decisero di abbandonare l'isola e di rifugiarsi a Rasatala.
“O Rama,” disse Agastya, “devi sapere che quei Rakshasa erano molto più forti di Ravana.”
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I Rakshasa della stirpe di Pulastya
“Ora conosci l'origine della stirpe dei Rakshasa,” riprese Agastya dopo una breve interruzione. “Ora ti racconterò la storia dei Rakshasa che provengono dalla linea di Pulastya e come le due linee si congiunsero. Ascoltami attentamente.
“Passarono anni di tormento per Sumali che, terrorizzato al solo pensiero di Vishnu, abitava in una città del pianeta Rasatala. In quel periodo Kuvera aveva preso possesso di Lanka.
“Un giorno Sumali, portando con sé la sua bellissima figlia, tornò su questo pianeta e prese a vagare senza meta. E gli capitò di vedere Kuvera che andava a trovare Vishrava, suo padre. Sumali, che non lo aveva mai visto prima di allora, rimase incantato dallo splendore di Kuvera e anche quando fu tornato a Rasatala non riusciva a dimenticare tutte quelle opulenze. Sumali, che voleva assicurare un futuro ai suoi discendenti, pensava a come ottenere la stessa ricchezza di Kuvera. Escogitò un piano.
“Sumali pensò di dare sua figlia Kaikasi in sposa a Vishrava, con la speranza che i figli nati da lei avrebbero avuto lo stesso potere di Kuvera e avrebbero risollevato le sorti della loro stirpe. Istruita su ciò che doveva fare, Kaikasi andò nell'eremo di Vishrava e vi entrò proprio mentre il saggio era impegnato in alcuni sacrifici. Ignorando che il momento non era affatto propizio, si presentò al saggio. Vedendo la casta ragazza, Vishrava le chiese cosa desiderasse, ma lei non rispose.
“Capendo tutto da solo, disse:
“Io ti accetto come moglie, ma sappi che sei arrivata in un momento sfavorevole, e che quindi i nostri figli causeranno a tutti molta sofferenza.”
“Kaikasi ebbe paura e disse:
“Signore, non voglio figli empi.”
“E Vishrava rispose:
“C'è un preciso disegno divino oltre il quale nessuno può andare. Ma i primi tre figli saranno in accordo al carattere della tua famiglia, mentre il quarto sarà in accordo alla mia.”
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Nascita di Ravana e dei suoi fratelli
“Nel corso del tempo nacque il primo figlio, un terribile Rakshasa con dieci teste e venti braccia. Per questo motivo Vishrava chiamò il primogenito Dasagriva, che in seguito sarebbe stato conosciuto come Ravana. Il secondo figlio di Kaikasi fu Kumbhakarna, un altro terribile mostro. Il terzo fu una femmina e fu chiamata Surpanakha. Il quarto il virtuoso Vibhisana.
“Qualche anno dopo, mentre Kaikasi sbrigava alcune faccende nell'eremo con i suoi quattro figli, Kuvera andò a trovare suo padre. Al suo arrivo tutto sembrò illuminarsi di splendore e di opulenza, sotto gli occhi stupiti dei ragazzi.
“Guarda, Dasagriva, le ricchezze del tuo fratellastro,” disse Kaikasi. “Tu sai come i Rakshasa vivano in povertà e si nascondano perché hanno paura di essere uccisi da Vishnu. Non credi sia il tuo dovere di cercare opulenze simili? E non solo per te, ma anche per il benessere e la prosperità della tua razza.”
“Dasagriva guardava Kuvera intensamente e provò una fortissima invidia. Il giorno stesso, prendendo con sé Kumbhakarna e Vibhisana, partì per Gokarna, deciso a ottenere i favori di Brahma. Aveva solo un pensiero fisso nella mente: diventare più potente di Kuvera.
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Le loro austerità
“Kumbhakarna eseguì austerità insopportabili per chiunque, che durarono diecimila anni e così fece anche Vibhisana. Ravana non mangiò per tutti quegli anni e al termine di ogni millennio offriva al fuoco del sacrificio una delle sue teste. Alla fine, visto che Brahma non appariva, decise di offrire la sua ultima testa. Allora il glorioso Brahma comparve e lo fermò.
“Cosa vuoi da me?” chiese Brahma.
“Ho compiuto tutte queste austerità perché voglio l'immortalità,” rispose il Rakshasa.
“Non posso darti l'immortalità. Chiedi qualcos'altro.”
“Voglio che nessuno abbia il potere di uccidermi, né i Suparna, né i Naga,” replicò allora Ravana,
“né gli Yaksha, né i Daitya, né i Danava, né i Rakshasa e neanche i Deva...”
“Ravana non menzionò la razza umana perché pensava di essere troppo forte per essere sconfitto da un semplice uomo. Questa arroganza fu la causa della sua fine. “Questo te lo posso accordare,” dichiarò Brahma. “Inoltre riavrai le teste che hai tagliato durante questi anni e ti conferirò il potere di assumere qualsiasi forma a piacimento.”
“Dasagriva si sentì soddisfatto. Poi Brahma andò da Vibhisana e gli chiese:
“Cosa vuoi da me?”
“Voglio che la mia mente sia sempre assorta in pensieri spirituali,” rispose lui. “Inoltre desidero possedere l'arma suprema, il brahmastra.”
“Brahma fu così compiaciuto da Vibhisana che gli conferì la sua stessa durata di vita.
“Poi andò da Kumbhakarna per chiedergli cosa desiderasse, quando i Deva allarmati lo fermarono e
gli dissero:
“Signore, Kumbhakarna è il mostro più potente e malvagio che sia mai esistito. Se tu gli conferisci altri poteri, sarà impossibile controllarlo. Sarebbe capace di divorare tutti gli esseri del creato.” “Allora Brahma chiamò sua moglie Sarasvati e la pregò di manifestarsi nella bocca di Kumbhakarna. Quindi Brahma chiese: “Cosa desideri da me?”
“Confuso da Sarasvati, il Rakshasa rispose:
“Voglio dormire per molto tempo.”
“Così il benessere dell'universo fu protetto.
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Ravana riconquista Lanka
“Appena Sumali venne a sapere che il nipote aveva ottenuto benedizioni da Brahma, riprese coraggio e tornò sulla terra con tutti i Rakshasa. Insieme andarono da Ravana e si felicitarono con lui.
“Abbiamo saputo del successo ottenuto grazie alle tue austerità,” gli dissero. “Ora utilizza la potenza che hai accumulato per riconquistare Lanka e guadagnare grandi ricchezze. Sii la nostra guida e governa su tutti noi.”
“Riconquistare Lanka significava far guerra contro Kuvera. Dapprima Ravana sembrò titubante, considerato il vincolo di parentela che li univa, poi la sua natura malvagia e grossolana ebbe il sopravvento. Per prima cosa andò da suo padre, Vishrava, e gli chiese il permesso di riprendere Lanka per i Rakshasa.
“Vuoi ridare Lanka ai Rakshasa?” chiese Vishrava allarmato. “No, non farlo. È ingiusto ed empio. Ti proibisco di farlo.”
“Ma Ravana insistette. Rifiutò di obbedire all'ordine del padre. Che lo maledisse.
“Giacché tu non vuoi obbedire a tuo padre, sappi che nei momenti di maggiore bisogno perderai il buon senso.”
“Questa maledizione gli sarebbe stata fatale, perché Ravana, avendo perso la concezione del giusto e dello sbagliato, rapì Sita, commettendo il più grave errore della sua vita.
“Quindi Prahasta fu mandato come messaggero da Kuvera, il quale offrì di dividere l'isola con il fratellastro. Ma la convivenza sarebbe stata impossibile: ben lo sapeva Vishrava che gli consigliò di abbandonare la città e andare a vivere a Kailasa. Obbediente agli ordini del padre, Kuvera così fece.
“Ravana entrò trionfalmente a Lanka e fu incoronato re dei Rakshasa.
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Il matrimonio di Ravana
“Dopo qualche tempo Ravana organizzò il matrimonio della sorella Surpanakha con Vidyujjihva, capo dei Danava. Poi andò a caccia nella foresta e lì incontrò Maya Danava, il figlio di Diti, con sua figlia. Era depresso, triste, sembrava infelice.
“Perché sei così triste? Cosa ti succede?” gli chiese.
“Mia moglie si chiama Hema,” raccontò Maya Danava, “una stupenda Apsara. Da lei ho avuto tre figli: questa ragazza di nome Mandodari, Mayavi e Dundubhi. Un giorno lei volle tornare nei pianeti superiori e mi abbandonò. Io l'amavo molto, e senza di lei non sono felice. Per questo sono triste. Inoltre ho un altro problema: mia figlia è in età da marito e non riesco a trovarne uno adatto. Vuoi prenderla tu come moglie?”
“Mandodari era una ragazza stupenda e Ravana accettò. In pochi giorni il matrimonio fu celebrato. In quel giorno Maya Danava gli regalò una lancia speciale, infallibile, con la quale in battaglia avrebbe potuto uccidere chiunque. Poi Ravana fece sposare Kumbhakarna con Vajrajvala, nipote di Bali che a sua volta era nipote di Prahlada. Infine Vibhisana sposò Sarama, figlia del Gandharva Sailusha.
“E arrivò il primo figlio. Mandodari ebbe un maschio che chiamò Meghanada. Questo bambino in futuro sarebbe stato soprannominato Indrajit. Invece di piangere come tutti gli altri bambini, al momento della nascita egli ruggì come un leone, rivelando la sua straordinaria natura guerriera.
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La guerra contro Kuvera -
Ravana si sottomette a Shiva
“Passò molto tempo. Un giorno, per effetto della benedizione di Brahma, Kumbhakarna fu preso da un sonno irresistibile e chiese al fratello di far costruire un palazzo dove avrebbe potuto dormire senza essere disturbato. Dopo che il palazzo fu ultimato, Kumbhakarna vi entrò e dormì per molti anni.
“In quel periodo Ravana viaggiò e combatté contro chiunque gli capitasse a tiro. Ovunque andava la scena era la stessa: morte, saccheggiamenti, desolazione, dolore. Essendo venuto a sapere di tutti questi misfatti, Kuvera intervenne e gli mandò un messaggio, invitandolo a non comportarsi più in quella maniera. Ravana si arrabbiò per l'impudenza del fratello, uccise il messaggero e marciò contro Kuvera stesso. La battaglia fu terribile: alla fine Ravana vinse e si impossessò del meraviglioso carro Pushpaka.
“Con quel prestigioso trofeo di vittoria, continuò a viaggiare; e visitò il luogo dove era nato Kartikeya.”
“Un giorno i Rakshasa arrivarono alla collina Kailasa: lì inspiegabilmente il carro Pushpaka si fermò e non fu possibile farlo ripartire. Ravana scese e cercò di capirne le ragioni. D'un tratto vide davanti a sé Nandi, l'assistente principale di Shiva, che aveva preso le fattezze di una scimmia. Capì che Pushpaka non voleva ripartire per rispetto al più grande dei Deva.
“Nandi guardò con severità il Rakshasa e disse:
“In questa collina vive il Signore Shiva in compagnia di sua moglie Parvati. Nessuno può passare di qui. Scegli un'altra strada. Neanche tu puoi trasgredire questa legge.”
“Mentre Nandi parlava, Ravana scoppiò a ridere, trovando buffa la sua faccia di scimmia.
“Tu hai riso nel vedere la mia faccia di scimmia,” riprese Nandi, “e mi hai così schernito. A causa di quest’offesa, sappi che la distruzione del tuo popolo avverrà per mano di una razza di scimmie.”
“Incurante della maledizione, Ravana, considerandosi superiore a Shiva stesso, di colpo sollevò la collina Kailasa. Tutti tremarono dallo spavento e dovettero reggersi per non cadere. Persino Parvati dovette aggrapparsi al collo del Signore per non cadere.
“Chiunque sia stato a causare questo disturbo,” sentenziò adirata la dea, “lo maledico a essere distrutto da una donna.”
“Shiva non sembrava disturbato dall'incidente; solenne e assorto in meditazione, non si mosse e non disse nulla. Ma pose il suo alluce sinistro sul terreno. A causa di quell'alluce la pressione fu così forte e repentina che Ravana non riuscì più a sostenere il peso e la collina ricadde giù con fragore, imprigionando le sue braccia. E nonostante esercitasse tutta la sua forza non riuscì a liberarsi. Allora Ravana gridò con grande furia e quel grido riecheggiò per tutto l'universo, terrorizzando le entità viventi.
“Quando vide che i suoi tentativi erano inutili, capì chi fosse Shiva e cercò di propiziarselo, recitando molte preghiere in sua lode. Ravana rimase in quella dolorosa posizione per migliaia di anni. Ma alla fine Shiva lo perdonò e lo liberò.
“Il tuo grido ha spaventato tutti i popoli dell'universo,” gli disse. “Per questo da oggi sarai conosciuto col nome di Ravana e ti regalerò anche la mia spada personale, Candrahasa.”
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L'offesa a Vedavati
“Anche dopo quell’esperienza il Rakshasa non cambiò la sua mentalità crudele. Appena fu libero riprese a viaggiare e a compiere le stesse malefatte di sempre. Un giorno passava per una delle vette himalayane, quando vide una bellissima donna che stava compiendo delle austerità. Ne fu così attratto che non si preoccupò di pensare che lei fosse un'asceta e che quindi dovesse essere rispettata, ma decise di farla sua.
“Chi sei, e cosa fai in luoghi così inospitali per una ragazza così giovane e bella come te?” le disse.
“Mio padre si chiamava Kushadvaja,” rispose lei, “ed era figlio di Brihaspati. Io sono nata come un'incarnazione dei Veda e per questo il mio nome è Vedavati. Mio padre non voleva darmi in sposa a nessun altro all'infuori di Vishnu e per anni ha tentato di ottenere il suo favore. Un giorno Sambu, il re dei Daitya, mi chiese in sposa e mio padre rifiutò. Per vendetta lui lo uccise. Ora sono orfana e sto compiendo queste ascesi al medesimo scopo, quello di ottenere Narayana come marito.”
“Ravana discese dal carro. Un orgoglio smisurato riempiva il suo cuore: non si riteneva inferiore a nessuno.
“Oh bellissima ragazza, sappi che io sono Ravana, il potente re dei Rakshasa. Non c’è essere superiore a me in tutto l'universo. Diventa mia moglie; io sono superiore a Vishnu.”
“Così dicendo l’afferrò per i capelli e la tirò a sé. Vedendosi oltraggiata da quell'essere vile, Vedavati s'infuriò e trasformò la propria mano in una spada. Con un colpo netto tagliò i capelli che Ravana teneva nella mano e si separò da quella presenza così contaminante.
“Tu mi hai preso per i capelli,” disse lei, per nulla pacificata, “e quindi mi ritengo contaminata per tutta la vita. In questo stato io non potrò ottenere i favori di Vishnu. A cosa serve allora questo mio corpo? Perciò lo abbandonerò.”
“Vedavati accese un fuoco. Poi si volse verso il Rakshasa.
“Io rinascerò ancora e la missione della mia vita sarà di distruggerti. E non nascerò dal ventre di una donna come una qualsiasi bambina.”
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Vedavati rinasce come Sita
“Vedavati rinacque su un fiore di loto. Non sospettando chi fosse quella bellissima bambina, Ravana stesso la prese e la portò a Lanka. Ma i suoi astrologi gli predissero che quella bambina sarebbe stata la causa della sua distruzione. Allora Ravana la fece gettare nell'oceano. Sospinta dalle onde la bambina giunse a riva.
“A quel tempo il re Janaka stava facendo preparare l'arena sacrificale per il suo Asvamedha- yajna e mentre faceva arare il terreno vide la neonata in uno dei solchi. Stupito, la prese con sé e la adottò.
Poiché era stata trovata in un solco fu chiamata Sita.
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Altri episodi
“Ravana continuava a perpetrare le sue malvagità. Un giorno capitò nella radura di una foresta dove il potente re Marutta stava svolgendo un sacrificio, al quale partecipavano anche Yama, Indra, Varuna e Kuvera. Appena i quattro Deva lo videro avvicinarsi, si nascosero nei corpi di alcuni animali. L'arrogante Rakshasa entrò nell'arena e cominciò a cantare le proprie glorie. Marutta voleva dargli una lezione ma non poté, essendo nel pieno svolgimento del sacrificio. Quando Ravana fu ripartito, i Deva uscirono dai loro nascondigli. Indra, che si era nascosto nel corpo di un pavone, conferì a tutti i pavoni il privilegio di aver dipinti sulla coda tanti occhi. E Yama benedisse i corvi, Varuna i cigni e Kuvera i camaleonti.
“Dopo aver riportato vittorie su tutti i re della terra, Ravana arrivò ad Ayodhya, e lì sfidò il re Anaranya, che sconfisse e ferì a morte. Prima di morire, il re pronunciò una maledizione:
“Nella mia dinastia nascerà un re chiamato Dasaratha. Suo figlio Rama ti ucciderà.”
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La guerra contro i Deva
“Un giorno Narada Muni, vedendo che il Rakshasa stava mietendo troppe vittime tra gli esseri umani, pensò di dirigerlo verso un combattimento con i Deva.
“Oh grande Rakshasa,” gli suggerì il saggio, “perché perdi il tuo tempo combattendo contro questi uomini che non possono neanche lontanamente competere con te? Dichiara guerra ai Deva. Il tuo gusto per il combattimento sarà così soddisfatto.”
“Ravana si diresse con tutto il suo esercito contro Yamaraja, il figlio di Vivasvan, ma fu sconfitto. Nel momento in cui Yama stava per ucciderlo, Brahma lo fermò e glielo impedì, ricordandogli che Ravana non avrebbe dovuto morire per mano di alcun Deva. Per rispetto a Brahma, Yamaraja si ritirò dal combattimento.
“Scampato al pericolo, per nulla intimidito dall'esperienza della sconfitta, Ravana combatté contro i Naga e li sconfisse. Fece amicizia con i Nivata- kavacha e si scontrò con i Kalakeya, uccidendo per sbaglio il marito di sua sorella Surpanakha. Poi Ravana incontrò Surabhi e le offrì rispettosi omaggi.
“Poi marciò contro Varuna. Dopo aver sconfitto i suoi figli, Ravana apprese che il Deva delle acque non era presente nella sua capitale.
“Durante le sue scorribande, il terribile Rakshasa rapì molte donne. E tutte lo maledissero a perdere la vita a causa di una donna.
“In quella campagna militare passarono anni. Poi Ravana tornò a Lanka. Lì lo aspettava la sorella Surpanakha, profondamente addolorata per la perdita del marito. Il fratello la consolò e la affidò alle cure di Khara, che risiedeva a Dandaka con quattordicimila potenti Rakshasa. Contento di aver sistemato anche questo problema, Ravana entrò nella foresta Nikumbhila con i suoi collaboratori più intimi. Lì trovò suo figlio Meghanada che stava svolgendo un sacrificio in compagnia di alcuni asceti.
“Figlio mio,” disse, sorpreso di trovarlo lì. “Cosa stai facendo? Perché stai svolgendo quel sacrificio? Per chi è quell'offerta?”
“Meghanada non rispose.
“Tuo figlio ha fatto il voto del silenzio,” gli rispose il saggio Ushana, “non può risponderti. Questo è un importante e complicato sacrificio che ha lo scopo di propiziare Indra e di ottenere le sue armi. Con quelle tuo figlio diventerà invincibile.”
“Ravana divenne rosso di rabbia.
“Sacrifici ai Deva?” gridò. “A che serve fare sacrifici a chi è più debole? Cosa possiamo ottenere? Noi siamo più forti dei Deva. Mio figlio non ha bisogno di queste cose per diventare invincibile. Noi siamo già più forti di tutti.”
“Così dicendo prese Meghanada e lo portò via con sé, senza lasciargli terminare quel sacrificio. Solo per questa ragione voi avete potuto sconfiggerlo.
“Lo stesso giorno Ravana seppe che un Rakshasa di nome Madhu aveva rapito sua cugina Kumbhinasi. Deciso a vendicare l'onore della famiglia, inseguì Madhu. Dopo averlo raggiunto stava per ucciderlo, ma Kumbhinasi intercedette a suo favore e Ravana lo perdonò. Unirono i loro eserciti e decisero di andare a sfidare Indra. Quella notte l'enorme esercito si accampò a Kailasa. Agitato, il re dei Rakshasa non riusciva a dormire e passeggiò per la foresta. E vide una stupenda Apsara, Rambha, e non riuscì a controllare il desiderio sessuale. La chiamò.
“O bellissima fanciulla, dove stai andando a quest'ora di notte? Chi sei? La tua bellezza ha risvegliato in me il desiderio sessuale.”
“Mi chiamo Rambha,” rispose la fanciulla, “e sono un'Apsara. Sto andando da Nalakuvera, tuo nipote, il figlio di Kuvera. Come sai, le Apsara non hanno marito e quindi non avrei difficoltà a soddisfare i tuoi desideri, ma sono stata chiamata da Nalakuvera e in questo momento sono considerata sua moglie. Quindi ora non posso soddisfarti.”
“Ravana guardò ancora quella stupenda fanciulla, che sembrava la bellezza personificata. Era di una dolcezza indicibile: non poteva rinunciare a lei. Insistentemente le chiese di giacere con lui, ma lei rifiutò, impaurita dalla prospettiva della maledizione del saggio.
“No,” lo pregò Rambha, “il padre di colui che ora considero mio marito è tuo fratello, perciò tu sei come un padre per me. Non posso giacere con mio padre. E non è propizio neanche per te.”
“Ma a nulla valsero le parole e le preghiere di Rambha: Ravana non riusciva a controllare il desiderio e la prese con la forza. Quando ebbe soddisfatto i suoi sensi, Ravana la lasciò andare. Spaventata, lei corse da Nalakuvera e gli raccontò tutto. Il saggio perse la calma e pronunciò una maledizione:
“Se Ravana prenderà ancora una donna non consenziente, le sue teste si spezzeranno in sette parti.”
“Venuto a conoscenza della maledizione, da quel giorno Ravana non tentò più di violentare nessuna donna. Solo per questo egli non tentò mai di prendere Sita con la forza.
“Dopo molto tempo giunsero ad Amaravati, la città di Indra e la capitale dei pianeti celesti. Quando i Deva videro arrivare lo sterminato esercito, corsero a chiedere aiuto a Vishnu.
“Non temete,” rispose il Signore, “quando sarà arrivato il momento io distruggerò Ravana e tutta la sua stirpe di malvagi Rakshasa.”
“La battaglia si accese. Sumali venne ucciso dall'ottavo Vasu, e il figlio di Indra venne sconfitto da Meghanada. Durò molti giorni. I Rakshasa erano potentissimi. Alla fine, dopo una feroce battaglia, anche Indra fu sconfitto e fatto prigioniero da Meghanada: in quel frangente si avverò la maledizione di Gautama Muni. Vedendo la situazione critica, Brahma intervenne personalmente e Meghanada rilasciò Indra. Così Brahma pensò di ricompensare il figlio di Ravana per la sua obbedienza.
“Oggi tu hai conquistato Indra, e per questo sarai conosciuto come Indrajit. Chiedimi una benedizione: cosa desideri da me?”
“Voglio essere immune dalla morte fintanto che sono sul mio carro di guerra e fintanto che riesco a completare le mie preghiere giornaliere,” chiese Indrajit dopo aver riflettuto.
“Brahma glielo concesse. Come ricordi, Lakshmana colpì Indrajit quando egli non era sul carro e in un giorno in cui non poté completare i suoi riti.”
109
Le sconfitte di Ravana
Rama ascoltava il racconto con grande attenzione e interesse. Poi gli venne in mente una domanda.
“Ho ascoltato questo racconto e sono sorpreso dal fatto che quasi nessuno fu mai in grado di sopraffare Ravana. É mai possibile,” chiese, “che a quel tempo non esistessero re valorosi che potessero sconfiggerlo? Se ce ne fu qualcuno mi piacerebbe ascoltare le sue gesta.”
Agastya riprese il racconto.
“Il re degli Haihaya si chiamava Kartavirya Arjuna ed era famoso per la sua forza fisica. Ravana aveva sentito parlare di questo re e, desideroso come sempre di combattere, si recò a Mahismati, la sua capitale. Appena arrivò chiese di incontrare il reggente. Gli ufficiali di palazzo lo informarono che era assente ma che poteva trovarlo al fiume Narmada. Ansioso di sfidarlo, Ravana si diresse velocemente verso il fiume Narmada e lo fece cercare. Nel frattempo si accampò e raccolse dei fiori per iniziare un sacrificio propiziatorio a Shiva.
“Più a valle, Kartavirya Arjuna stava facendo il bagno in compagnia delle sue donne. Per gioco volle mostrare ad alcune di loro la forza delle sue mille braccia, che aveva ottenuto grazie a una benedizione di Shiva. Si immerse nell'acqua e fermò il corso del fiume, che a monte straripò in più punti. Il fiume uscì dagli argini anche in prossimità dell'accampamento di Ravana e spazzò via i fiori dell'offerta. Stupito da ciò che era accaduto, Ravana mandò i suoi consiglieri a scoprirne le cause. I due fratelli Shuka e Sharana videro il re degli Haihaya e compresero ciò che era successo. Ravana corse a sfidarlo e fu sconfitto. Fatto prigioniero, fu portato a Mahismati e Arjuna lo fece rinchiudere in una prigione inaccessibile. Pulastya venne a conoscenza dell'accaduto e volle intercedere a favore del nipote. Così Ravana fu liberato e ripartì subito.
“Per nulla umiliato o scoraggiato da quell'esperienza, Ravana continuò a perpetrare le più basse nefandezze. Ma il destino gli riservava un'altra amara esperienza.
“Un giorno arrivò a Kiskindha, la capitale dei Vanara, e sentì parlare di Vali e della sua forza. Desideroso di combattere anche contro di lui, chiese dove fosse. Ma anche Vali in quel momento era assente e Ravana si informò dove potesse trovarlo. Avuta l'informazione, corse sul posto. Vali era sulle rive dell'oceano, assorto nelle sue meditazioni giornaliere. Ma anche in quella posizione si accorse dell'arrivo di Ravana, che si avvicinava minacciosamente. Appena gli fu sufficientemente vicino, Vali lo strinse saldamente sotto le ascelle e spiccò un prodigioso salto in cielo. Nonostante la sua straordinaria forza, Ravana non poteva neanche muoversi, imprigionato da quella stretta ferrea. Pienamente tranquillo, come se con sé non avesse nulla, Vali visitò tutti i tre mari. Ravana capì che Vali era straordinariamente potente e fece amicizia con lui.”
110
La storia della vita di Hanuman
Terminato il racconto delle gesta di Ravana, Rama pensò di porre altre domande, stavolta su Hanuman.
“Da ciò che ho capito, Ravana era molto potente, ma Hanuman gli era superiore. Perché quando Vali cacciò via Sugriva, Hanuman non si ribellò e non cercò di proteggere il suo caro amico?”
Il saggio Agastya raccontò:
“Una volta viveva un Rishi di nome Keshari e sua moglie si chiamava Anjana. Una volta lei era nella foresta a raccogliere della frutta e dei fiori, quando il Deva del vento la notò. Vedendola così bella e pura, Vayu se ne invaghì e penetrò in essa. Come risultato un figlio fu generato nel suo ventre, Hanuman.
“Fin dai primi giorni della sua vita era chiaro che il bimbo aveva caratteristiche speciali. Era ancora neonato quando un giorno sua madre lo mise in terra per sbrigare delle faccende. Ma il bimbo aveva fame e pianse disperatamente. La madre, troppo lontana, non lo sentì. Era l'alba, il sole stava sorgendo ed egli pensò che quello fosse un frutto dorato. Era così bello e colorato che pensò che dovesse anche essere molto buono. Decise di andarlo a prendere e di mangiarlo. Così spiccò un gran salto e si diresse verso il sole. Era un giorno di eclisse e Rahu si apprestava ad ingoiare l'astro lucente, quando vide Hanuman avvicinarsi a grande velocità. Spaventato da quell'inattesa presenza, Rahu corse a chiedere aiuto a Indra e gli riferì cosa stava accadendo. Il re dei Deva pensò che fosse cosa saggia andare a vedere personalmente e, accompagnato da Rahu, si recò sul posto. Nel frattempo Hanuman si era avvicinato di molto al Sole e si apprestava ad inghiottirlo. Vivasvan, che predomina l’astro lucente, lo guardò e non lo bruciò: sapeva che Hanuman sarebbe stato necessario all'incarnazione di Vishnu che avrebbe eliminato Ravana. Ma Rahu, senza attendere Indra, vedendo Hanuman che si era avvicinato troppo, impulsivamente lo attaccò. Il neonato scambiò anche Rahu per un frutto e si precipitò verso di lui, a bocca spalancata. Gridando ‘Aiuto Indra!’ Rahu fuggì terrorizzato. E il re dei pianeti celesti scagliò contro Hanuman la sua arma prediletta, il fulmine. Colpito duramente alla mascella, il piccolo cadde su una montagna. E Vayu vide che suo figlio era stato colpito e corse sul posto. Lo trovò morto. Piangendo addolorato, prese il corpo in braccio e andò via. Si ritirò in una caverna e non fece più circolare l'aria in tutto l'universo.
“Ci fu un periodo di grande difficoltà, e tutti soffrivano e rischiavano di morire. I Deva andarono da Brahma per chiedergli aiuto e così Brahma, accompagnato da tutti gli altri, andò a cercare Vayu. Quando lo trovarono furono messi al corrente delle ragioni del suo dolore.
“O re, conosciamo il motivo che ti rende così triste,” disse Brahma. “Tuo figlio è stato ucciso ingiustamente. Io lo farò tornare in vita. Il suo nome sarà Hanuman, perché la sua mascella è stata rotta dal fulmine di Indra. Non essere più addolorato, ora, e riprendi a soffiare in tutti i mondi.”
“Il piccolo si risvegliò come dopo un sonno. Fu benedetto ad essere praticamente immune da ogni pericolo, persino dalle maledizioni dei saggi.
“Hanuman divenne estremamente potente. Quando fu cresciuto, la consapevolezza dei suoi poteri lo rese arrogante e dispettoso, e prese l'abitudine di scherzare e di prendersi gioco dei saggi della foresta, disturbandoli nei loro sacrifici. Un giorno i venerabili asceti unirono la loro energia per fargli dimenticare la grandezza dei suoi poteri: li avrebbe potuti ricordare solo quando ne avrebbe avuto bisogno. In preda a una profonda amnesia, Hanuman cominciò a comportarsi come un Vanara qualsiasi, inconsapevole della sua potenza. Per questo non difese Sugriva nella sua disputa contro Vali: credeva di non poterlo fronteggiare.”
111
La partenza dei saggi - Sita in attesa di un figlio
Dopo qualche giorno i saggi vollero ripartire. Rama, a cui piaceva sentirli parlare, si dispiacque molto.
“Fra poco celebrerò il sacrificio Rajasuya,” li informò. “Spero che parteciperete anche voi.”
I saggi risposero affermativamente e partirono.
Dopo la partenza dei Rishi, Rama congedò tutti gli amici che avevano voluto venire ad ascoltare quelle affascinanti storie, e anche loro partirono. I Vanara e i Rakshasa tornarono nei loro rispettivi regni. Prima della partenza, Bharata descrisse le glorie del governo di Rama osservante delle leggi divine.
Un giorno Rama vide il carro Pushpaka tornare verso di lui.
“Dopo aver sconfitto Ravana,” disse il carro fatato, “tu mi hai mandato dal mio padrone, Kuvera, ma lui ha detto:
“O Pushpaka, Rama ti ha conquistato sconfiggendo il re dei Rakshasa. Sei di sua proprietà, ora. Servilo con fedeltà.”
“Io vorrei restare qui con te.”
Rama lo accettò con gioia.
I giorni tristi sembravano passati. Tutto era gaiezza, gioia, anche la natura sembrava partecipare alla loro felicità. Un giorno in cui Rama era nei suoi meravigliosi giardini in compagnia di Sita, la vide particolarmente felice e distesa. Aveva una bella notizia da dare al marito.
“Mia cara,” la anticipò lui, “io vedo nel tuo corpo chiari segni. Tu stai aspettando un figlio, non è vero?”
“Sì, è vero. E ne sono immensamente felice. Avremo dei figli: non è meraviglioso?”
Rama sentì una gioia immensa nel cuore.
“Oh, Sita, non immagini quanto questo mi faccia felice. In questo giorno fortunato io vorrei donarti qualcosa. Cosa vorresti?”
“Sento un po’ di nostalgia di quegli eremi silenziosi e meditativi. Mi piacerebbe molto tornare a visitarli,” rispose lei con un sorriso.
“Ciò che vuoi. Puoi partire domani stesso. Lakshmana e alcuni brahmana ti accompagneranno.”
112
La drammatica decisione
Ma non era tutto finito. I giorni tenebrosi sembravano stessero ripresentandosi. Rama aveva sentito varie voci, di critiche, sul suo conto. A causa di quelle, convocò una riunione con i suoi ministri. Fra le altre cose parlarono dell'immagine che un re deve avere di fronte al popolo.
“É di grande importanza,” disse Rama, “che il re non abbia macchie nel proprio carattere e nella propria vita privata, nel presente come nel passato. Cosa dice di me la gente? Mi amano e mi apprezzano ancora? Sono tutti felici sotto il mio regno? O vedono difetti in me? Vorrei sapere se mi criticano per qualche ragione.”
Bhadra, uno dei ministri più fidati, aveva fatto un sondaggio in incognito per conoscere l'umore della gente.
“I cittadini ti amano, ti rispettano, e sono felici sotto il tuo regno. Ma qualcuno ha visto in te una macchia: che nonostante tua moglie Sita sia stata nella casa di un altro per lungo tempo, e che quindi la sua castità possa essere messa in dubbio, tu l'hai ripresa con te. Qualcuno dice che questo tuo comportamento potrebbe giustificare o almeno non scoraggiare l'infedeltà delle loro mogli. In altre parole pensano che il tuo comportamento in questo caso non sia stato esemplare. Questo è ciò che dicono.”
A queste parole Rama si incupì. Per tutto il giorno fu triste e pensieroso. Poi mandò a chiamare i suoi fratelli.
“Voi sapete cosa dice la gente di me. Parlano di questa macchia nel mio carattere esemplare, di questo mio passato nel quale ho ripreso mia moglie dopo che lei era stata per molti mesi nella casa di Ravana. Io sono il re e devo essere di esempio per tutti, al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica. Dicono che sono troppo affezionato a lei e che un re troppo attaccato non può dare benefici duraturi ai suoi sudditi. Io non posso permettere che queste critiche facciano presa nel popolo. Ho deciso, quindi, di esiliare Sita.
“Lakshmana, domani accompagnala all'eremo di Valmiki. Lì sarà felice e al sicuro.”
Dette queste parole, Rama corse nei suoi appartamenti e pianse.
113
L'esilio di Sita
Quando il giorno tornò e il sole cominciò a inondare la terra di Koshala con i suoi caldi raggi Lakshmana, col cuore indicibilmente addolorato, invitò Sita a prendere posto sul carro per andare a visitare l'eremo di Valmiki Muni. Sita salì sul carro e partirono. Nell'aria c'era qualcosa di strano, Sita non si sentiva felice e vedeva cattivi presagi tutt'intorno a sé. Ma Lakshmana la rassicurò che tutto andava bene, che non c'era alcun problema e lei, pur senza riuscirci, cercò di calmarsi. Presto arrivarono al Gange e lo attraversarono. Attraversato il fiume, Lakshmana diede a Sita la terribile notizia. Dopo che Lakshmana le aveva spiegato tutta la situazione, Sita si disperò e pianse a dirotto.
Giunsero in quello stato d’animo all'eremo e Lakshmana la affidò a Valmiki. Poi ripartì. Una tristezza infinita era nel suo cuore. Sapeva che il fratello avrebbe sofferto tanto quanto Sita. Il saggio fu d'accordo di offrirle protezione e la fece accompagnare nell'ashrama delle donne eremite.
114
La storia di Brighu e Vishnu
Quando fu dall'altra parte del fiume, Lakshmana si fermò a guardare l'eremo e vide Sita entrare nell'ashrama delle donne. Il fido Sumantra era con lui.
“Sumantra,” disse Lakshmana, “guarda: Sita è entrata nell'ashrama. Non è strano questo suo destino? Lei è la donna più casta e santa che ci sia, eppure è stata esiliata dal marito. Il destino è stato crudele con lei. Cosa avrà fatto per meritarsi tanto dolore?”
“Non ti affliggere,” replicò Sumantra, “perché a tutto c'è una spiegazione e un motivo di essere. In realtà era stato previsto: io sapevo che sarebbe successo.”
Lakshmana lo guardò con sorpresa e lo interrogò con gli occhi.
“Ora ti racconterò una storia che solo io e tuo padre conoscevamo,” riprese Sumantra.
“Un giorno accompagnai il re Dasaratha a trovare il saggio Vasishtha. Era il periodo di chaturmasya e lo volle trascorrere con Vasishtha. Lì c'era anche il grande Durvasa, con il quale passammo i quattro mesi. Dasaratha gli chiese:
“Che futuro avranno i miei figli? Saranno felici o dovranno soffrire?”
“Durvasa rispose:
“Ho una storia da raccontarti. Ascoltala con attenzione. Un tempo ci fu una grande battaglia fra Deva e Asura, e questi ultimi furono sconfitti. Non sapendo a chi altri rivolgersi, chiesero protezione alla moglie di Brighu, che li fece nascondere. Ma Vishnu vide l'atto della donna e le lanciò il disco Sudarshana, decapitandola.
“Quando Brighu venne a conoscenza del fatto e di come era accaduta, non riuscì a controllare la rabbia e maledisse Vishnu in questi termini:
“Un giorno anche tu sperimenterai il dolore della separazione dalla tua amata.”
“Caro Dasaratha, Rama è Vishnu incarnato e in questa incarnazio- ne subirà la potenza della maledizione di Brighu. Quando Rama avrà terminato la propria missione sulla Terra si riunirà a Sita, che è Lakshmi incarnata, la sua compagna eterna.”
“Fedele Lakshmana,” concluse Sumantra, “queste furono le cose che Durvasa disse a tuo padre. Non ti addolorare. Tutto ciò è un piano divino preciso. Torniamo ad Ayodhya, ora.”
Lakshmana sentì il dolore alleviato dal racconto di Sumantra. I due tornarono ad Ayodhya.
115
La storia di Nimi
Rama passava molto tempo in compagnia di Lakshmana, l'unico che potesse alleviargli il dolore della separazione da Sita. Un giorno Rama raccontò la vecchia storia del re Nriga e dei brahmana che lo maledissero a vivere nel corpo di una lucertola per molti millenni.
Terminato il racconto, Lakshmana chiese di ascoltare qualche altra storia. Rama narrò quella del re Nimi.
“Nimi visse molti anni fa ed era il dodicesimo figlio di Ikshvaku. Un giorno decise di celebrare un grande sacrificio e considerò chi potesse essere un brahmana qualificato a dirigerlo. Pensò al famoso saggio Vasishtha, e andò a chiedergli l’approvazione.
“O re, dovresti attendere qualche mese,” rispose Vasishtha. “Ora sto presiedendo il sacrificio di Indra e non posso venire da te. Ma sarei molto felice di dirigere il tuo sacrificio. Attendi un poco.”
“Nimi dapprima assentì, poi ci ripensò. Non gli piaceva l'idea di aspettare. Perciò andò dal saggio Gautama e gli disse di dirigere lui il suo sacrificio. Gautama accettò di buon grado e i preparativi iniziarono. Poi cominciò il sacrificio stesso. Vasishtha venne a sapere che Nimi non lo aveva aspettato e si adirò, pensando che il re gli avesse mancato di rispetto. Furibondo, si precipitò nel luogo dove il sacrificio era in corso e appena vide il re gli gridò:
“Tu morirai presto!”
“Vistosi maledetto, Nimi maledisse Vasishtha allo stesso modo. Il saggio rimase stupito: non si aspettava la reazione del re. Considerando che nessuno dei due era riuscito a controllare la rabbia, Vasishtha si considerò colpevole e andò da Brahma.
“Venerabile Signore,” disse Vasishtha, “Nimi mi ha maledetto a morire. Oltre a essere un grande re, egli ha acquisito anche poteri ascetici e quindi la sua maledizione avrà sicuramente effetto. Ma vorrei chiederti: dopo la mia morte come posso assumere un altro corpo adatto al continuamento delle mie ascesi?”
“Caro Vasishtha,” rispose Brahma, “puoi entrare nell'energia seminale di Mitra e di Varuna.”
“A questo punto devi sapere che a quel tempo Mitra e Varuna erano molto amici e vivevano insieme. Un giorno la bellissima Urvashi andò a trovarli. Colpito da tanto splendore, Varuna le chiese il suo amore.
“Io vorrei venire da te,” rispose la fanciulla che provava per Varuna un sentimento d'amore, “ma Mitra ha chiesto la mia compagnia prima di te e non posso, dopo aver accettato, rifiutarmi.”
“Quando ti ho vista,” replicò il deluso Varuna, “ho sentito un impulso sessuale così forte che ho perso il seme. Lo porrò in un'ampolla divina e ti aspetterò.”
“O Varuna,” disse lei, “il mio corpo appartiene a Mitra, ora, ma il mio cuore è tuo.”
E Urvashi andò da Mitra. Ma presto venne a sapere del sentimento tra i due e si sentì offeso. La maledisse a cadere sulla Terra e a rimanerci per un certo tempo. Sulla Terra Urvashi sposò Pururava, il figlio di Budha. Da Pururava nacque Ayu e da Ayu Nahusha, che sostituì Indra nei pianeti celesti quando questi fu stanco dopo la battaglia contro Vritra.
“Ma quando aveva visto Urvashi per la prima volta anche Mitra aveva perso il seme e l'aveva messo nella stessa ampolla celeste. Dalla mistura nacquero due grandi saggi. Il primo fu Agastya, il secondo Vasishtha, che così riprese un corpo.
“Ti ho raccontato, quindi, cosa successe a Vasishtha dopo essere stato maledetto. Ora ti dirò cosa successe a Nimi. Poco tempo dopo Nimi morì, ma i saggi non interruppero il sacrificio che stavano conducendo. Quando fu terminato, Brighu richiamò il re dai mondi dove era andato e gli dette la capacità di parlare. Tutti erano soddisfatti di come il sacrificio era stato organizzato e vollero aiutarlo.
“Dicci cosa vorresti essere e dove vorresti vivere. Noi esaudiremo il tuo desiderio.”
“Voglio vivere nella forma di aria negli occhi di tutti gli esseri viventi,” chiese Nimi.
“A quei tempi gli occhi degli uomini non battevano continuamente come succede oggigiorno. Essendo stato esaudito dai saggi, Nimi si trasformò in aria e le palpebre degli occhi presero a battere continuamente.
“Ottenuto questo, Nimi scomparve. I saggi considerarono che il regno era rimasto senza un re e Nimi non aveva avuto figli. Quindi pensarono di crearne uno. Sfregando il corpo morto del re fecero nascere un bimbo che fu chiamato Mithi, ma ebbe anche altri nomi, come Janaka e Vaideha, che significa nato da un corpo morto. Costui fu il padre di Sita.”
116
La missione di Satrughna
Dopo la storia di Nimi e Vasishtha, Rama raccontò anche la storia di Yayati. In questa maniera il tempo passava piacevolmente.
Un giorno il saggio Cyavana arrivò ad Ayodhya e venne ricevuto con tutti gli onori.
“Siamo molto onorati dalla tua visita,” disse Rama. “Una ragione precisa ti ha spinto a venirci a trovare? C'è qualcosa che possiamo fare per te? Siamo pronti a soddisfare qualsiasi tua richiesta.”
“C'è un motivo alla mia visita,” rispose Cyavana. “Un grosso problema assilla me e altri eremiti. Tu puoi aiutarci.”
Rama assentì, sorridendo, ben felice di poter fare qualcosa per gli uomini di virtù.
“Ti racconto una storia,” riprese Cyavana.
“In Satya- yuga viveva un Daitya virtuoso che si chiamava Madhu. Grande devoto di Shiva, lo soddisfò così tanto con la sua devozione che Shiva gli donò una lancia terribile, inarrestabile in battaglia. Nessuno poteva sopravvivere quando questa era scagliata. Madhu chiese a Shiva che anche i suoi discendenti potessero beneficiare di quell'arma, ma Shiva disse che ciò non era possibile. Ma concesse l'uso al figlio. Madhu generò il malvagio Lavana, che crebbe ben differente da suo padre. Il crudele Rakshasa ora sta terrorizzando tutto il mondo, specialmente gli eremiti delle foreste.
“Rama,” concluse Cyavana, “sollevaci da questo assillo. Uccidi Lavana.”
“Grande saggio,” rispose Rama, “è preciso dovere di ogni re proteggere i saggi e gli indifesi. Non preoccuparti più. Considera il malvagio Rakshasa già morto. Ma dove posso trovarlo?”
“Abitualmente vive a Madhuvana. Lo troverai sicuramente lì.”
Rama si rivolse a Satrughna e gli affidò la missione.
“Vai a distruggere il Rakshasa. Ma non combattere contro di lui mentre è in possesso della lancia. E dopo averlo ucciso fonda una città e governala.” Satrughna partì per Madhuvana con un grande esercito.
117
La nascita dei figli di Rama
Durante il tragitto si fermarono presso l'eremo di Valmiki per riposarsi. Satrughna fu intrattenuto dal saggio con la recitazione di meravigliose storie dai Purana. Proprio quella notte Sita partorì due gemelli, che furono chiamati Kusha e Lava. Satrughna ne fu molto felice.
118
Satrughna uccide Lavana e fonda Mathura
La mattina dopo Satrughna ripartì ed in pochi giorni arrivò a Madhuvana. Sorpreso in un momento in cui non aveva la lancia di Shiva con sé, il Rakshasa fu sconfitto e ucciso da Satrughna. Lì il fratello minore di Rama fondò una meravigliosa città che venne poi chiamata Mathura.
119
Satrughna ascolta il Ramayana
Passarono dodici anni. Solidamente stabilita la città, Satrughna desiderò tornare ad Ayodhya a trovare i fratelli.
Durante il viaggio si fermò ancora presso l'eremo di Valmiki che lo ricevette con affetto. Dopo aver pranzato Valmiki disse:
“Ho composto un poema che si chiama Ramayana. É la storia di tuo fratello Rama e della sua vita. Vuoi ascoltarlo?”
Satrughna assentì con gioia. Accompagnandosi con strumenti musicali, i discepoli di Valmiki cantarono il Ramayana. La poesia e la musica erano così belle, così dolci, che Satrughna desiderò che la storia non finisse mai. E non c'erano manipolazioni o travisamenti: tutto era recitato esattamente come era successo nella realtà.
La notte Satrughna non poté dormire; quei suoni gli erano rimasti nella mente e non riusciva a dimenticarli. All'alba ripartì. Dopo pochi giorni arrivò ad Ayodhya.
Satrughna raccontò a Rama ciò che aveva fatto in quegli anni, dandogli la notizia della nascita dei suoi figli. Poi gli chiese il permesso di non tornare a Mathura, ma di restare con lui ad Ayodhya. Rama gli ricordò i doveri della casta dei guerrieri e gli concesse di rimanere solo un po’. A malincuore dopo sette giorni Satrughna ripartì.
120
Agastya racconta - La casta guerriera
Nel regno di Rama la sofferenza era sconosciuta perché il re era ben attento a proteggere i cittadini dalle influenze della degradazione materialistica. Proprio per questo un giorno punì un shudra di nome Samvuka che si impegnava in attività non consone alla sua classe. Nel momento in cui Rama dette quella punizione, i Deva apparvero e gli chiesero di accompagnarli da Agastya che stava completando un sacrificio durato dodici anni.
Rama e i Deva andarono nell'eremo di Agastya che li ricevette con tutti gli onori. Agastya sapeva bene quanto gloriosamente Rama stesse governando il suo paese, e volle fargli dono di alcuni ornamenti per mostrargli apprezzamento.
“Ti ringrazio per questi bellissimi ornamenti che vuoi donarmi,” disse Rama, “ma tu sai che solo i brahmana possono accettare doni, e che gli kshatriya dovrebbero rifiutarli. Come posso accettare ciò che mi offri?”
“Ti spiegherò il motivo,” disse Agastya, “per cui tu dovresti accettarli. Ascolta questa storia. In Satya- yuga non esistevano re perché non ce n'era bisogno. Poi si presentò la necessità e il problema fu esposto a Brahma. Mentre ascoltava, Brahma starnutì e dal suo naso scaturì una persona. Costui fu chiamato Kshupa . Egli fu designato come primo re della terra, e ricevette lo spirito di Indra per il governo della terra, lo spirito di Varuna per il mantenimento del corpo, lo spirito di Kuvera per l'accumulo delle ricchezze e lo spirito di Yama per l'amministrazione del castigo. Nello spirito di Indra tu devi accettare questi doni.”
Rama li prese con sé e li osservò attentamente.
“Questi ornamenti hanno qualcosa di speciale. Chi te li ha dati? O dove li hai trovati?” chiese.
“Tempo fa,” raccontò Agastya, “entrai in una foresta dove non ero mai stato e volli visitarla. Lì praticai molte austerità. Una notte entrai in un eremo abbandonato e vi passai la notte. Quando il sole sorse, mi svegliai e mi accorsi che vicino a me c'era il corpo di un uomo morto, disteso. Ero stupito: la sera prima non c'era. Lo guardai e vidi che aveva delle fattezze corporee molto attraenti. Mentre cercavo di capire cosa potesse essere successo e chi avesse messo quel cadavere lì dentro, vidi un essere celeste che proveniva dal cielo, ed era accompagnato da altri bellissimi personaggi che cantavano e danzavano. E mentre guardavo quel glorioso essere, lo vidi che prendeva a mangiare il corpo che quella mattina avevo trovato vicino a me. Mi stupii. Tutto ciò che lo circondava era di una bellezza e di una gloria evidenti: mi sembrò strano che si cibasse di un cadavere.
“Perché mangi un cibo così abominevole?” gli chiesi. “Tu mi sembri una grande personalità; cosa ti induce a comportarti così?”
“Grande saggio,” rispose lui con una voce soave, ma triste. “Il mio nome è Sveta e come premio per le mie ascesi riuscii ad andare a Brahma- Loka. Ma quando vi arrivai sentii che avevo fame e ne fui stupito, giacché sapevo bene che in quel pianeta la fame non esisteva. Così andai a chiedere spiegazioni a Brahma stesso.
“Hai fatto austerità,” mi rispose lui, “ma non carità. Ed è questa la ragione per cui hai sentito i morsi della fame. Dovrai cibarti di carne umana per scontare questa mancanza. Un giorno incontrerai Agastya e dovrai fargli la carità. Questo ti permetterà di accedere definitivamente nel mio pianeta.”
“Accetta questi ornamenti celestiali dalle mie mani,” concluse Sveta, “e permettimi così di accedere al mondo di Brahma.”
“Io accettai quegli ornamenti, che sono gli stessi che ti ho regalato.”
121
La storia della foresta di Dandaka
Agastya raccontò un'altra storia.
“Molto tempo fa, durante Satya- yuga, viveva un re chiamato Manu, che aveva un figlio di nome Ikshvaku. Quando Manu si ritirò nella foresta, Ikshvaku, con i suoi cento figli, governò il regno. I suoi figli erano tutti buoni e virtuosi, tranne il più giovane che si chiamava Danda, una persona dal carattere empio e crudele. Il giovane fondò un regno e la sua capitale fu la stupenda Madhumantra. Il grande Shukra era il suo maestro e la sua guida spirituale.
“Un giorno Danda andò a trovare il guru nel suo eremo e lì vi trovò, sola, la sua stupenda figlia. Danda fu colpito da tanta bellezza e, nonostante le sue resistenze, la prese con la forza. Poi tornò in città. Venuto a conoscenza del vile atto, Shukra pronunciò una terribile maledizione:
“Un giorno Indra devasterà il regno di Danda e nessuno degli abitanti si salverà.”
“La maledizione si avverò e quel regno, una volta così florido, si trasformò in una terribile foresta piena di Rakshasa. Fu poi chiamata Dandakaranya, la foresta di Dandaka.”
122
Rama ascolta la sua storia
La notte, in quella foresta idilliaca, trascorse piacevolmente. La mattina seguente Rama tornò ad Ayodhya.
Qualche tempo dopo il re pensò di celebrare il sacrificio Rajasuya, ma i brahmana di corte gli consigliarono invece l’Asvamedha. Dopo aver ascoltato differenti storie sulle glorie di quel sacrificio, Rama decise di seguire il loro consiglio. I preparativi vennero celermente avviati.
E fu durante quel sacrificio che Valmiki Muni arrivò con tutti i suoi discepoli. Durante la cerimonia chiamò i suoi cari studenti Kusha e Lava.
“Se Rama vi chiama,” disse loro a voce bassa, “recitategli tutto il Ramayana, cominciando dal Bala Kanda. Ma all'inizio non ditegli che siete suoi figli: ditegli solo che siete miei discepoli.”
A questo punto ci ritroviamo all'inizio della nostra narrazione, quando Rama chiese ai due giovani eremiti di narrargli la sua storia.
Per giorni e giorni Rama ascoltò quella storia meravigliosa, finché venne a sapere che i due cantori erano i suoi figli nati da Sita dopo l'esilio. Con le lacrime agli occhi, Rama li abbracciò amorevolmente e poi si rivolse a Valmiki.
“O grande e misericordioso saggio,” pregò, “se Sita è veramente rimasta casta e pura come dice il tuo poema, conducila qui e fa in modo che dia un'altra prova pubblica.”
Valmiki acconsentì e mandò a prendere Sita. Venne la sera.
“Domani rivedrò Sita,” pensava Rama.
Non riusciva a pensare ad altro. Non chiuse occhio per tutta la notte.
123
La scomparsa di Sita
Finalmente il sole sorse e Rama entrò puntualmente nell'arena del sacrificio, ansioso di rivedere Sita. La più casta delle donne entrò e lanciò uno sguardo d'amore in direzione del marito. Valmiki si alzò.
“O Rama,” proclamò, “che le mie austerità vengano distrutte in questo preciso momento se Sita ha mai anche solo pensato ad un altro uomo in tutta la sua vita. Io posso testimoniare la sua purezza con certezza assoluta.”
“Io accetto come verità indubitabile ciò che mi dici,” replicò Rama a voce alta per farsi sentire da tutti, “solo perché lo dici tu. Ma la gente con poca fede potrebbe dubitare ancora. Lascia che sia lei stessa a darne la prova.”
Sita ripensò a tutta la sua vita e lacrime calde di dolore le scesero lungo le guance. Voleva vivere con il suo Rama, ma il disegno della loro incarnazione su questa terra prevedeva diversamente. Ora doveva dare la prova definitiva della sua purezza.
“Se è vero che non ho mai pensato neanche per un istante a nessun altro oltre che a te,” disse Sita con voce alta e rotta dall'emozione, “se è vero che sono pura e incontaminata da ogni desiderio di piacere materiale, se è vero che sono stata casta per tutta la mia esistenza, che la Dea della Terra, dalla quale provengo, venga in questo momento e mi riprenda con sé.”
In quel momento il cielo si rischiarò e i Deva apparvero per assistere alla prova di Sita. Subito dopo una lieve brezza profumata si levò e la terra tremò leggermente. All'improvviso vicino Sita si aprì una grossa fenditura e, seduta su uno splendido trono d'oro, apparve la dea Bhumi. Prendendola per mano invitò Sita a sedersi sullo stesso trono e, sorridendo a tutti, sprofondò nel crepaccio, che si richiuse subito dopo. E una pioggia di fiori celestiali piovve dall'alto dei pianeti paradisiaci. E voci diafane cantarono preghiere a Sita e alle sue illimitate qualità spirituali.
Vedendola scomparire sotto la terra, Rama capì che Sita se ne era andata per sempre e si appoggiò al trono per non cadere a terra svenuto. L’emozione era fortissima: Rama cominciò a piangere amaramente, con disperazione. Chiamò Sita a voce alta e, in preda a una furia incontrollabile, impugnò l’arco e minacciò la Dea della Terra di distruggere lei e tutto il suo pianeta se non gli avesse immediatamente restituito Sita. Ma una voce solenne lo fermò.
“Rama, non dimenticare che tu sei Vishnu stesso: presto ritroverai la tua compagna e vi riunirete. Il vostro amore è spirituale ed eterno, e non può mai essere interrotto. Sii paziente, dunque, non distruggere la Terra.”
Rama si calmò e passò la notte in compagnia dei suoi figli e di Valmiki. In pochi giorni il sacrificio Asvamedha fu completato.
124
Il ritorno di Rama a Vaikuntha
Il grande re Rama governò a lungo. Sua madre Kausalya fu la prima a morire. Poi Sumitra e Kaikeyi. Tutte e tre si riunirono a Dasaratha nei pianeti celesti.
Qualche tempo dopo i Deva mandarono un messaggio a Rama. Un giorno un asceta alto e solenne venne ad Ayodhya e chiese di poter parlare con lui. Avvertito dell'arrivo, il rispettoso re venne subito.
“Dimmi, sant'uomo, cosa vuoi da me? Cosa mi devi comunicare?” gli chiese.
“Ho un messaggio importante da comunicarti, ma non posso dartelo in pubblico. Il nostro incontro deve essere privato. É molto importante.”
“Certamente. Vieni con me. Andiamo in un posto dove nessuno ci interromperà.” replicò Rama.
Ma il saggio non sembrava soddisfatto.
“Non voglio essere disturbato da nessuno durante il nostro incontro. Prometti che se qualcuno dovesse entrare e interromperci per qualsiasi motivo sarà condannato a morte.”
Rama accettò la condizione e, accompagnato da Lakshmana, andarono in una stanza privata.
“Mettiti di fronte alla porta,” disse Rama a Lakshmana, “e non far entrare nessuno per nessun motivo.”
Entrarono nella stanza. Il messaggero disse di essere Kala, la personificazione del tempo eterno.
“O Rama,” disse Kala, “tu sei Vishnu incarnato. É tanto tempo che sei su questo pianeta e i Deva sono ansiosi di riaverti tra loro. Tutti ti pregano di ritornare nel tuo mondo. I compiti che ti eri prefissato sono stati assolti: Ravana è stato ucciso e anche tanti altri demoni. Hai insegnato agli uomini come si deve comportare un re e un uomo ideale, e hai dato tanta gioia ai tuoi fedeli devoti. Sita, l'incarnazione di Lakshmi, ti sta aspettando con ansia e così tanti altri. Ti preghiamo, torna al più presto.”
Mentre Rama parlava con Kala, arrivò ad Ayodhya Durvasa Muni, che chiese di parlare subito con Rama. Lakshmana intervenne e pregò il saggio di attendere qualche minuto, perché Rama era impegnato in un'importante discussione e aveva detto che nessuno avrebbe dovuto disturbarlo. Ma Durvasa non voleva attendere.
“Lakshmana, e tutti voi,” tuonò Durvasa, “ascoltatemi. Io voglio parlare subito con Rama, non intendo aspettare. Questo è un segno di mancanza di rispetto. Se non ci parlerò subito, maledirò tutta la vostra dinastia. Vi distruggerò definitivamente.”
Lakshmana cercò in tutte le maniere di pacificare il saggio, ma non ci riuscì. Doveva entrare nella stanza ed avvertire Rama dell'arrivo di Durvasa, anche se questo avrebbe causato la sua morte: chi ci avrebbe disturbato dovrà essere giustiziato - aveva chiesto Kala. Ma non poteva permettere la distruzione di tutta la sua dinastia. Allora entrò nella stanza. Rama spalancò gli occhi.
“Lakshmana,” gridò, “che hai fatto? Perché sei entrato?”
Lakshmana annunciò l'arrivo del saggio. Rama, che aveva terminato in quel momento, corse fuori a ricevere Durvasa. Poi corse da suo fratello minore, sconvolto.
“Signore,” gli disse Lakshmana per rincuorarlo, “non dispiacerti per me. utto questo è un preciso disegno divino, ineluttabile. Tu lo sai, presto ci ritroveremo nella nostra dimora eterna.”
Lakshmana si recò sulle rive del Sarayu e si sedette in posizione dello yoga. Poi sospese il respiro. E tutti videro Indra scendere per accompagnare il grande e virtuoso Lakshmana nei pianeti celesti.
Il dolore della perdita di Lakshmana fu insopportabile. Rama chiamò tutti i suoi familiari, ministri e saggi di corte per comunicare delle decisioni importanti.
“Ho deciso di lasciare il trono a Bharata e ritirarmi nella foresta,” fu il tremendo comunicato. “Il tempo che dovevo trascorrere su questa terra è oramai terminato e sento un grande desiderio di tornare nella mia dimora originale.”
Ma Bharata non sembrava felice dell'idea.
“Io non voglio né il regno, né le glorie, né le gioie di questo mondo,” disse Bharata. “Preferisco seguirti e prepararmi alla partenza da questo mondo illusorio.”
Rama allora nominò reggenti i suoi figli Kusha e Lava. E quando Satrughna venne a sapere della scomparsa di Lakshmana e della decisione degli altri fratelli di abbandonare la loro manifestazione terrena, nominò reggente suo figlio Suvahu e decise di seguirli. Presto la notizia corse fino a Kiskindha e anche Sugriva decise di seguire Rama, lasciando il regno nelle mani di Angada.
Ad Ayodhya continuarono ad arrivare fiumane di persone che volevano assistere alla scomparsa del grande re. Rama ordinò ad un addoloratissimo Hanuman di continuare a vivere finché il Ramayana sarebbe esistito, e a Jambavan e a Mainda di vivere fino all'era di Kali. A Vibhisana disse di continuare a vivere fino alla distruzione dell'universo.
Il mattino seguente Rama uscì dal suo palazzo e, seguito da una moltitudine di persone, si diresse verso il Sarayu. E in quel momento la voce di Brahma, che tutti udirono e che proveniva dai pianeti celesti, risuonò: “Oh Signore Supremo! Oh eterno Vishnu! Torna tra di noi!”
Così Rama, seguito da Bharata, Satrughna e Sugriva, abbandonò questo pianeta, lasciando un grande vuoto nei cuori dei suoi devoti.
Nel corso del tempo Ayodhya diventò una città deserta e spopolata e restò in questa condizione per molto tempo finché il re Rishabha venne e la fece rifiorire.
Valmiki concluse la sua storia dicendo: “Chi legge anche un solo verso di questo poema è fortunato e la sua vita sarà felice.”
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