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Nella foresta di Dandaka - Viradha
Quella foresta infestata da terribili Rakshasa si chiamava Dandaka. Durante il cammino incontrarono le capanne di tranquilli asceti sempre sereni, sorridenti, in possesso di una profonda conoscenza delle cose spirituali. Erano sempre disponibili al dialogo e rispondevano a ogni domanda. Le loro glorie erano le austerità e lo studio dei sacri Veda, ed era grazie alla loro vita santa che esisteva pace sul pianeta. A quei tempi godevano di un grande rispetto da parte dei monarchi. Rama offrì ad ognuno di loro rispettosi omaggi e si informò sul loro benessere. Trovò che le risposte erano abbastanza simili tra di loro.
“Tutto procede bene nella pratica delle nostre austerità, ma purtroppo siamo sempre disturbati dai Rakshasa che infestano questa foresta. Per favore, proteggici da questi esseri malvagi. Eliminandoli faciliterai le nostre discipline.”
Rama promise a tutti la protezione. I principe e i suoi cari si addentrarono ancora di più nella terribile foresta alla ricerca dei Rakshasa.
Un giorno ne incontrarono uno. Era un mostro orribile, grande come una montagna e con una voce paurosa. Aveva delle braccia lunghissime ed era coperto di peli rossastri Appena li vide attaccò immediatamente, allungando a dismisura le braccia. Rapido come la folgore, afferrò Sita e la rapì. Ma Rama lo seguì e dopo un breve combattimento lo colpì a morte. Mentre stava per esalare l'ultimo respiro, tra lo stupore dei principi il Rakshasa parlò.
“Io sono chiamato Viradha. Ora mi vedete come un mostro spaventoso, ma nella mia vita precedente ero un Gandharva di nome Tumvuru. Sono stato condannato a stare in questa forma disgraziata per una maledizione. Un giorno dovevo compiere un importante servizio per Kuvera, quando vidi l'Apsara Rambha. Attratto dalla sua bellezza la seguii, trascurando il mio dovere. Fu per quella ragione che Kuvera mi maledisse, e diventai così un terribile Rakshasa. Ma prima mi disse che avrei riguadagnato il mio stato originale quando sarei stato ucciso dal figlio di Dasaratha di nome Rama. Grazie a te ora ritornerà a Svarga- loka.”
Così Viradha abbandonò il suo corpo.
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Il Rishi Sarabhanga
Dopo aver ucciso Viradha, Rama volle andare a visitare l'eremo del saggio Sarabhanga. Quando arrivò nelle vicinanze vide Indra che parlava con il saggio.
Indra lo vide arrivare e si nascose, pensando di non essere stato visto. Rama e i suoi compagni offrirono umili rispetti a Sarabhanga e parlarono a lungo; poi Rama, curioso di sapere cosa facesse lì il re degli esseri celesti e fingendo di non averlo riconosciuto, chiese:
“Grande saggio, chi era quel nobile personaggio che ho visto mentre arrivavo?”
“Era Indra, il re dei pianeti celesti,” rispose, “venuto per convincermi a lasciare questo mondo e andare a Brahma- loka. Da molto tempo, grazie alle mie austerità, ho guadagnato l'accesso a quei pianeti celestiali, però sapevo che tu saresti arrivato qua e ho sempre rifiutato di lasciare questo mondo senza averti visto. Volevo prima parlare con te. Ora il mio desiderio è soddisfatto. Posso andare tranquillamente sul pianeta di Brahma.”
Così detto il saggio preparò una catasta di legna e vi appiccò fuoco. Dopodiché entrò nelle fiamme. La scintilla spirituale che abbandonò il corpo fu visibile ad occhio nudo e Rama gli offrì rispettosi omaggi. Sarabhanga aveva raggiunto la perfezione delle sue austerità.
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L'incontro con Agastya
Durante il loro peregrinare Rama, sempre accompagnato da Sita e Lakshmana, incontrò altri eremiti. Anche loro gli chiesero protezione contro i Rakshasa che infestavano Dandaka. A tutti Rama diede la stessa risposta:
“Non preoccupatevi più. Io distruggerò quegli esseri malefici. Il mondo deve essere liberato da tutti coloro che commettono atti empi.”
I tre decisero di andare a trovare Agastya, uno dei saggi più potenti che la storia ricordi. Quando lo videro capirono come aveva potuto compiere tante imprese prodigiose. Lo ammirarono seduto nella posizione yoga detta del loto, ricoperto di cenere, che brillava di un'intensa energia spirituale. Dopo avergli offerto gli omaggi di dovere, Rama volle intrattenersi a parlare con lui, godere della sua compagnia e assimilare la sua profonda coscienza spirituale, Alla fine del colloquio, Agastya gli donò varie armi celestiali e lo iniziò al loro uso.
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Verso Panchavati
Stavano viaggiando da troppo tempo. Rama pensò che fosse meglio fermarsi in qualche luogo bello come lo era stato Citrakuta. Sita, poi, era stanca e aveva bisogno di un periodo di riposo. Pensò di chiedere ad Agastya qualche consiglio.
“Sto pensando,” disse il principe, “di fermarmi da qualche parte. Mia moglie è stanca e una donna non è adatta a un continuo peregrinare. Dove potremmo trovare un luogo bello e pacifico per passare felicemente un periodo del nostro esilio?”
“Non lontano da qui,” rispose il saggio, “c'è un luogo chiamato Panchavati. É un luogo stupendo.
La natura è generosa lì, e sarete al sicuro da qualsiasi pericolo. Sì, andate a Panchavati e sono sicuro che vi troverete bene. Vi piacerà.”
Seguendo il consiglio di Agastya, Rama, Lakshmana e Sita andarono a Panchavati. Mentre si dirigevano verso la loro meta, incontrarono un gigantesco avvoltoio che li guardava minacciosamente. Era così grosso che Sita si mise a tremare dalla paura. Ma Rama fermò il fratello che stava per afferrare la spada e si rivolse all'enorme animale.
“Chi sei tu? Sei forse un Rakshasa? Io sono il principe Rama e sono nato per la distruzione di tutti i demoni. Se sei dunque uno di quegli esseri malvagi, preparati a morire.”
L'animale, sentendo il nome di Rama, sembrò cambiare espressione e riempirsi di felicità.
“Rama! Tu sei Rama? Oh, il figlio di Dasaratha. Il mio nome è Jatayu e vostro padre era un mio vecchio amico.”
Lakshmana si tranquillizzò e staccò la mano nervosa dall'impugnatura della spada.
“Mio padre è Aruna,” proseguì Jatayu, “il fratello di Garuda, e mia madre è Syeni. Ho anche un fratello, Sampati. Sto vagando in questa foresta alla ricerca di un luogo tranquillo dove vivere e non l'ho ancora trovato. Se voi siete i figli di Dasaratha, vorrei costruire la mia casa vicino alla vostra capanna. Vi sarò utile. Quando voi sarete lontani io proteggerò la vostra donna da ogni pericolo.”
Rama sorrise e accettò. Così Jatayu andò a Panchavati insieme a loro.
Panchavati era veramente bella come Agastya l'aveva descritta e Rama visse lì felicemente per lungo tempo, godendo della compagnia di Sita e di Lakshmana, in una capanna abilmente costruita dal fratello.
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L'inizio del conflitto: Surpanakha
Un giorno, lungo il sentiero che costeggiava la capanna di Rama, passò per caso Surpanakha, la sorella di Ravana, il re dei Rakshasa. Surpanakha era un essere mostruoso e malvagio, degna sorella di Ravana. Le sue sembianze erano orrende ed era fisicamente gigantesca. Le accadde di vedere Rama seduto in meditazione. Più bello di un Deva, il suo corpo radiava luce come un secondo sole. La Rakshasi si fermò a guardarlo, rapita, quasi stupita che potesse esistere un uomo così bello, e provò una forte attrazione per lui. Il suo cuore si riempì di lussuria. Pensando di poterlo avere come marito si presentò di fronte a Rama e gli rivolse la parola.
“Meraviglioso giovane, io sono Surpanakha, la sorella dei potenti Rakshasa Ravana e Kumbhakarna. Anche Khara e Dussana, famosi in tutto il mondo, sono miei fratelli. Chi sei tu?
Come ti chiami? E da dove vieni? Tu sei l'uomo più attraente che io abbia mai conosciuto, e sono curiosa di sapere il tuo nome e la tua provenienza.”
Rama guardò la mostruosa donna e intuì subito le sue intenzioni. In un certo senso era abbastanza divertito dalla situazione.
“Il mio nome è Rama,” rispose con tono scherzoso, “e questo giovane è mio fratello Lakshmana. Questa donna è mia moglie Sita. Ci troviamo fuori dal nostro regno perché siamo stati esiliati a causa di un complotto. Il nostro regno è Koshala, che un tempo fu protetto dal celebre re Dasaratha, nostro padre. Ma dimmi, in cosa posso esserti utile?”
La gigantesca Surpanakha aveva il corpo orrendamente deforme, ma era così colpita dalla bellezza di Rama che non se ne rendeva più conto.
“Io desidero solo averti come marito. Da quando ti ho visto ho sentito subito una forte attrazione per te. Ti prego, non rifiutarmi, accetta la mia proposta.”
La situazione era alquanto buffa e imbarazzante. Rama la prese sullo scherzo.
“La tua bellezza è tale che mi riesce difficile rifiutarti,” rispose. “Ma io sono già sposato e ho fatto voto di avere una sola donna in tutta la vita. Però qui c'è mio fratello Lakshmana, che è bello come me, è altrettanto valoroso e saggio. Inoltre non ha fatto voto di castità come me. Rivolgiti a lui, e vedrai che ti accetterà di sicuro.”
Surpanakha prese quelle parole sul serio e non si accorse che Rama si stava prendendo gioco di lei. Così si rivolse a Lakshmana, guardandolo con tenerezza e desiderio.
“Lakshmana, mio bellissimo eroe. Rama non può sposarmi per un voto fatto a sua moglie, ma tu non hai pronunciato alcun voto e sei libero di sposarmi e di godere della vita insieme a me.”
Lakshmana continuò lo scherzo cominciato dal fratello.
“É vero che tu sei una ragazza così bella che è difficile resistenti,” ribatté, “e vorrei accettarti come moglie, ma sappi che io sono solo lo schiavo di Rama. E non vorrai metterti con uno schiavo! Insisti con lui e vedrai che abbandonerà la sua brutta moglie per fuggire con te.”
Ma il gioco era andato troppo oltre. Quanto Rama in seguito si sarebbe pentito di aver scherzato troppo con Surpanakha! E la natura irascibile e aggressiva della Rakshasi divampò all’improvviso, violenta, incontrollabile. Pensando che fosse veramente Sita l'ostacolo che si frapponeva fra lei e la soddisfazione dei suoi desideri, decise di ucciderla e divorarla. Con un grido spaventoso Surpanakha si gettò contro Sita, che urlò di terrore. Lakshmana, velocissimo, si rese conto immediatamente del grave pericolo e fece appena in tempo a sfoderare la spada e a porsi fra il mostro e Sita. Con tre precisi colpi di spada le tagliò il naso e le orecchie. Gravemente ferita, Surpanakha corse via, urlando di dolore e di rabbia.
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La battaglia
Sanguinando e urlando come un'ossessa, Surpanakha corse nella foresta di Janasthana, non lontana da Panchavati, e lì trovò il fratello Khara. Appena la vide arrivare in quello stato, Khara spalancò gli occhi in preda a una violenta ira.
“Che ti è successo? Chi ti ha ridotta così?” gridò.
Con voce affannosa e rotta dai singhiozzi, Surpanakha raccontò ciò che era accaduto. Khara cacciò un urlo simile a un ruggito e immediatamente chiamò quattordici valorosi Rakshasa, ordinando loro di uccidere quegli uomini. Surpanakha condusse i quattordici demoni a Panchavati e mostrò loro la capanna dove vivevano i due fratelli. Troppo fiduciosi della loro forza, i guerrieri affrontarono apertamente Rama e Lakshmana. Ma dopo un breve combattimento Rama li uccise tutti.
Surpanakha, che stava osservando di nascosto, tornò da Khara e gli narrò l'incredibile fatto accaduto. Il potente Rakshasa non riusciva a credere che quattordici dei suoi migliori combattenti fossero caduti per mano di un uomo e decise di scendere personalmente in campo con tutto l'esercito per vendicare l'onore della famiglia. Khara aveva un esercito poderoso, composto di ben quattordicimila possenti Rakshasa. Anche il fratello Dussana volle partecipare al combattimento. Il rumore degli zoccoli dei cavalli assordò tutti coloro che vivevano nelle foreste circostanti.
Rama e Lakshmana sentirono il sordo boato e capirono che un serio pericolo si stava avvicinando. Rama ordinò a Lakshmana di portare Sita in un posto sicuro e si preparò al confronto. Presto le frecce, le lance, le asce, e tanti altri tipi di armi volarono pericolosamente verso Rama, ma dall'arco del principe scaturirono migliaia di potenti frecce che spezzarono tutte quelle armi. E ben presto i Rakshasa cominciarono a cadere, a decine e a centinaia. In poco tempo tutti, compreso Khara e Dussana, giacquero inerti sul terreno. A Panchavati tornò il silenzio. La battaglia era vinta.
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Fuga a Lanka
Un solo Rakshasa riuscì a fuggire. Il suo nome era Akampana e possedeva poteri mistici grazie ai quali poteva viaggiare nell'aria a grande velocità. Fuggì a Lanka, la città di Ravana.
Akampana narrò al re tutto l'accaduto e gli descrisse la sorprendente potenza di Rama e la divina bellezza di Sita.
“Quell'uomo combatte in modo inconcepibile,” disse affannato. “Da solo ha saputo sterminare quattordicimila di noi dalla forza e capacità che tu ben conosci. Era così veloce nel combattimento che si vedevano solo le frecce nell'aria e i corpi dei nostri guerrieri mutilati in più parti. Siamo stati colti di sorpresa, non ci aspettavamo un simile guerriero, né pensavamo che esistesse fra i mortali.”
Akampana si fermò un attimo per riprendere fiato.
“Mentre combattevo,” riprese poi, “vidi nascosta nelle pendici della collina lì vicina una donna dalla bellezza indescrivibile. Capii che era sua moglie: Surpanakha ce l'aveva descritta. Francamente ti dico che in tutto il creato non esiste una donna tanto bella. Mentre fuggivo non potevo smettere di pensare a quella bellezza paradisiaca. E pensavo che sarebbe la compagna degna di te e della tua grandezza! Quando la vedrai comprenderai il significato della bellezza. E quando Rama si vedrà privato della sua amata moglie, noi potremo facilmente ucciderlo e vendicare l'affronto che ci ha fatto. Grande re Ravana, rapisci Sita e distruggi Rama.”
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Il consiglio di Maricha
Ravana rifletté a lungo su quanto era accaduto, e decise di recarsi da Maricha per chiedere consiglio. Si fidava molto di Maricha e quando c'erano situazioni di emergenza si recava sempre da lui. Maricha era il figlio di Tadaka, quello stesso che aveva disturbato i sacrifici di Visvamitra, e si ricorderà che nel corso del combattimento era stato scaraventato a molte miglia di distanza da un'arma di Rama. Da quel giorno il Rakshasa si era convertito a una vita più virtuosa ed era diventato un asceta nella foresta.
Ravana gli raccontò tutta la storia e poi gli chiese cosa ne pensasse dell'idea di rapire Sita. Maricha non sembrò per niente entusiasta del progetto.
“Io ho già avuto l'occasione di incontrare Rama in combattimento,” disse Maricha, “e il consiglio che ti posso dare è questo: non importunarlo per nessuna ragione, perché quando è adirato può distruggere il mondo intero con tutte le creature che vi abitano. Lascialo tranquillo, e anche la moglie e il fratello. Tu hai tutto ciò che si possa desiderare dalla vita. Non rovinare tutto per orgoglio. Torna pacificamente a Lanka e goditi la vita in compagnia delle tue regine e dei tuoi fedeli amici. Te lo ripeto: non importunare Rama.”
Maricha aveva un forte ascendente su Ravana, che si convinse che quella era la cosa migliore da farsi, e tornò a Lanka.
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I cattivi consiglieri
Tornato a palazzo, Ravana trovò Surpanakha che lo aspettava. Quando la vide ferita e piangente sentì il petto gonfiarsi di rabbia e di odio verso colui che aveva ferito la sorella. Surpanakha, che non desiderava altro che la vendetta, piangeva e gridava tra i singhiozzi.
“Tutti sanno che non esiste nessuno più valoroso di te in tutti i mondi, ma sembra che tu non voglia aiutare tua sorella, che è stata umiliata e ferita da due insignificanti esseri umani. Come puoi sperare che la gente continui a rispettarti se non vendichi la morte dei tuoi fratelli Khara e Dussana? Tutti penseranno che hai avuto paura di Rama e nessuno terrà più conto dei tuoi ordini. Se farai così in breve tempo perderai la posizione che hai guadagnato con tanta fatica.”
Vedendo l'indecisione del fratello, Surpanakha pensò di far leva su altri sentimenti.
“E poi ti assicuro che dopo aver visto Sita,” continuò, “capirai che cosa sia veramente la bellezza. Credimi. Rapiscila, falla tua, e vendica l'onore ferito della tua razza.”
Il carattere violento e vendicativo prevalse sulla ragione e Ravana gridò ai suoi assistenti di preparare il carro di battaglia. Con quello tornò da Maricha. Vedendolo arrivare, Maricha capì che un fosco avvenire di tragedie si apriva per la razza nella quale era nato. Stavolta Ravana non era venuto per un consiglio.
“Ho preso la mia decisione,” disse con voce imperiosa. “Io rapirò Sita e distruggerò Rama. Non sono un vigliacco: io sono il monarca della razza più potente del mondo. Niente mi spaventa. Perché dovrei temere un uomo qualsiasi, per quanto valoroso, come è questo Rama?”
Maricha fece l'ultimo tentativo per salvare la situazione. Grazie ai poteri che con le sue austerità aveva ottenuto, poteva vedere la morte e la distruzione che sarebbero state causate dalla stupidità e dalla vanità di Ravana.
“Chi ti ha dato consigli così poco saggi? Un re con cattivi consiglieri, per quanto potente, è destinato alla rovina. Credimi. Toccare Rama è come toccare inavvertitamente un serpente velenoso: la conseguenza di un simile errore è la morte. Non cedere all'orgoglio. Torna alla tua città e goditi la vita.”
Ma Ravana era deciso.
“Maricha, questa volta non sono venuto a chiederti un consiglio, ma per darti un ordine. Tu devi aiutarmi. E sappi che se non lo farai ti ucciderò io stesso. Pensaci bene, quindi, prima di rifiutare.”
Maricha capì che tutto era inutile e che Ravana non poteva essere salvato. Ma ora vedeva che la sua vita era in pericolo comunque, e non aveva scampo. Pensò che era meglio essere uccisi da Rama piuttosto che da Ravana.
“Sono convinto che tu stia commettendo un grave errore, e presto te ne pentirai amaramente. Ma ti aiuterò. Dimmi cosa devo fare.”
Ravana era molto affezionato a Maricha e non gli sarebbe piaciuta l'idea di ucciderlo. Così, soddisfatto della decisione presa dall'amico, sorrise crudelmente.
“Noi andremo da questa gente oggi stesso. Devi trasformanti in un meraviglioso cervo dorato, bello come mai se ne sono visti in questo mondo, e sotto queste sembianze devi farti vedere da Sita, che chiederà a Rama di inseguirti e catturarti. Tu fuggirai facendoti rincorrere per molto tempo. Quando sarai abbastanza lontano devi gridare aiuto, imitando la voce di Rama. Sicuramente Sita si spaventerà e manderà Lakshmana in suo aiuto. Quando sarà rimasta sola io la rapirò e la porterò a Lanka. Maricha, fa questo per me. Non desidero altro, ora, che vedere Sita in mio potere e vendicarmi dell'affronto fatto a mia sorella e ai miei parenti e amici di Janasthana.”
A malincuore Maricha accettò, ma si sentiva come un agnello che entrava nella tana di un lupo.
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Il cervo dorato - Il rapimento di Sita
Presto arrivarono nei pressi della capanna dove vivevano coloro che Ravana considerava le sue ignare e indifese vittime. Era una bella giornata: il sole era alto in cielo e la foresta era piena di fiori e di profumi deliziosi. Questo scenario di bellezza naturale vide Ravana, l'essere che con la sua perfidia terrorizzava il mondo, mettere in atto il suo vile piano. Grazie ai poteri mistici di cui disponeva, Maricha prese le sembianze di un fiabesco cervo dorato, dalla bellezza così incantevole che avrebbe potuto attrarre la fantasia di chiunque lo guardasse. Con lo scopo di farsi notare da Sita, cominciò a correre qua e là nei dintorni della capanna e poi a fermarsi, e poi ancora a correre, mettendo bene in vista le sue forme perfette. Sita lo vide, e non credeva ai propri occhi. Come poteva esistere un animale tanto bello? Chiamò il marito.
“Rama, corri, guarda là quel cervo, che bellezza. Non è meraviglioso?”
Rama e Lakshmana accorsero e ammirarono lo stupendo animale, ma erano visibilmente diffidenti. Sita non aveva nessun sospetto.
“Rama, ti prego, catturalo per me. Lo terremo qui con noi, per far- ci compagnia.”
Lakshmana era il più diffidente.
“Rama, non andare. Quel cervo ha una bellezza irreale, è troppo bello per essere vero. Sono sicuro che è un trucco dei Rakshasa per dividerci e tentare di colpirci.”
Rama non sembrava eccessivamente preoccupato, anzi abbozzò un sorriso.
“Voglio scoprire se quella creatura è veramente un trucco dei Rakshasa. Se lo è lo ucciderò, chiunque sia, ma se è un vero cervo devo catturarlo per Sita. Io vado, ma tu promettimi di non lasciare Sita da sola neanche per un momento e per nessun motivo. Finché tu sei qui lei non corre pericoli, ma se tu la lasciassi sola potrebbe accadere un disastro.”
Rassicurato da Lakshmana, Rama corse verso la preda. Vedendolo arrivare, Maricha fuggì: aveva raggiunto il suo scopo. Corse via con grande agilità tra la fitta boscaglia. Maricha correva con una velocità straordinaria e, cercando di sfuggire a Rama per salvarsi la vita, usò i suoi poteri sovrannaturali. Talvolta si rese invisibile, altre volte ricompariva, tutto con una rapidità sorprendente, troppa per non destare sospetti. Rama pensò che il cervo si comportava in maniera troppo strana per essere ciò che sembrava, ma voleva essere sicuro, e gli corse dietro per molto tempo. Quando fu certo che si trattava di un trucco, decise di ucciderlo. Una freccia dura come la pietra partì dal suo arco e colpì il bersaglio. Colpito a morte, Maricha non poté mantenere la sua forma illusoria e riprese la forma originale, possente, gigantesca, che incuteva timore a chiunque la guardasse. Con le ultime energie rimaste, gridò, imitando la voce di Rama:
“Aiuto! Sita, Lakshmana! Aiuto! Aiuto!”
Quelle grida erano così alte che arrivarono fino alle orecchie di Sita. Sentendo la voce disperata del marito, non poté controllare le sue emozioni e divenne terribilmente ansiosa.
“Lakshmana, ascolta, questa è la voce di Rama. Chiede aiuto! È in pericolo. Corri immediatamente da lui.”
Ma Lakshmana non cadde nella trappola neanche quella volta. Così come per il cervo, sospettò di una manovra dei Rakshasa.
“Sita, non devi preoccupanti,” le disse con voce rassicurante. “In questo mondo nessuno può sopraffare Rama in combattimento. Rama è invincibile. Non esiste essere che possa anche solo dargli preoccupazione. Queste grida, così come l'apparizione del cervo, sono un trucco dei Rakshasa che vogliono separarci. Stai tranquilla. Rama tornerà presto.”
Ma Sita era terrorizzata che potesse accadere qualcosa al suo amato, e sentendo altre grida disperate insistette:
“Ma questa è la voce di Rama. É in pericolo. Cosa aspetti a correre in suo aiuto? Come fai a non precipitarti per salvargli la vita?”
“Non posso lasciarti sola in questa foresta piena di pericoli,” ribatté Lakshmana tranquillamente, sicuro dell'invincibilità del fratello. “Non agitarti. Tranquillizzati. Rama mi ha ordinato di non lasciarti sola per nessun motivo. Sii serena. Presto lo vedremo tornare sano e salvo.”
Ma la tensione era già andata oltre la sua possibilità di sopportazione, e lei non riuscì più a tollerarla. Ripetutamente chiese, ordinò, supplicò Lakshmana di correre in aiuto di Rama, ma lui aveva capito il trucco e rifiutò decisamente. Una sorda rabbia invase il cuore spaventato di Sita.
“E così speri che Rama muoia, vero? Per questo sei venuto nella foresta con noi. Ora ho capito il tuo piano. Aspettavi un momento come questo. Tu non vuoi altro che Rama muoia per prendermi come moglie. Ma sappi che se dovesse accadergli qualcosa io mi ucciderò e tu sarai responsabile delle nostre morti.”
Sita non pensava davvero quello che stava dicendo. Disse quelle ingiuste e crudeli parole solo per spingere Lakshmana a correre in aiuto di Rama. Ed ebbero l'effetto desiderato. Profondamente colpito in ciò che era il più alto valore della sua vita, l’amore e la lealtà nei confronti del fratello, Lakshmana si sentì ferito.
“Io non so come tu abbia potuto dire parole così crudeli e false,” disse rabbiosamente. “Non sai quanto tu mi abbia ferito. Ma non ti rendi conto del pericolo che corri se ti lasciassi sola qui?”
Ma Sita incalzò e lo accusò ancora con durezza. Pieno di dolore e di rabbia, Lakshmana decise che doveva andare.
“E sia. Io andrò a cercare mio fratello nella foresta. Disobbedirò ai suoi ordini, e sappi che stai correndo un grave pericolo. Ma ascoltami. Io creerò tutt'intorno a te un cerchio magico, attraverso il quale nessuno potrà passare. Questo ti proteggerà. Promettimi che non lascerai passare nessuno né oltrepasserai questo cerchio per nessun motivo.”
Sita, in preda all'ansietà, gli dette tutte le assicurazioni che chiedeva. Dopo aver tracciato il cerchio magico, Lakshmana partì alla ricerca di Rama. Era il momento che Ravana stava aspettando.
Senza perdere tempo, prese le sembianze di un asceta e cantando mantra in lode a Shiva si diresse verso la capanna dove era Sita. Sita lo vide arrivare, ma non si insospettì. Un vecchio asceta che cantava preghiere a Shiva era un incontro comune nella foresta. Mentre si avvicinava, Ravana rimase folgorato dalla bellezza di Sita e la sua lussuria si accese. Ma ad un certo punto, inspiegabilmente, vide che non riusciva ad andare avanti. Il cerchio magico creato da Lakshmana gli impediva di fare altri passi. Per quanto spingesse con tutte le sue forze non riuscì ad avanzare. Una violenta rabbia si accese nel suo cuore, ma la controllò. Sita vide il vecchio asceta visibilmente stanco ed affamato: non poteva sospettare chi fosse veramente. Mossa dalla pietà decise di portargli cibo e acqua. E oltrepassò il cerchio magico. Ravana ammirò più da vicino la sua bellezza senza difetti, e mentre aspettava il cibo e l'acqua che gli porgeva le rivolse la parola.
“Chi sei tu? E cosa fai qui da sola in questa foresta infestata da demoni cannibali? Non sai quale pericolo corri.”
“Sant'uomo,” rispose Sita con dolcezza. “Io non sono nata nella foresta, né sono figlia di qualche asceta. E non sono sola. Mio marito è andato a caccia di un meraviglioso cervo e presto sarà di ritorno con suo fratello. Io sono la figlia di un re, così come lo è il mio sposo. Siamo stati esiliati nella foresta per quattordici anni. Per questo sono qui ora sola in questa foresta pericolosa.”
“La tua bellezza è senza paragoni,” riprese Ravana, “e nemmeno i migliori poeti potrebbero descriverla. Una donna come te non dovrebbe vivere neanche un istante in un luogo così miserevole.”
Sita pensò che parole del genere erano alquanto strane nella bocca di un asceta e cominciò a sentirsi a disagio. Quel vecchio emanava un'atmosfera di estrema asprezza e negatività. Rispose che era il dovere di ogni moglie casta di seguire il marito qualunque sia il suo destino. Ora l'asceta quasi sghignazzava.
“Quando il marito cade in disgrazia, come il tuo Rama, bisogna abbandonarlo. La vita è fatta per provare le sue delizie. Che felicità può offrirti ora quel povero principe? Tu meriti molto di più: meriti di essere la regina del più grande re della terra.”
“Cosa dici?” replicò Sita sdegnata. “La più alta perfezione per una donna casta e onesta è quella di rimanere fedele al proprio marito in ogni circostanza: quando tutto va bene ma anche e forse soprattutto quando le cose vanno male. Io non tradirei mai Rama per niente e per nessuno al mondo.”
Ma ormai aveva capito di essere caduta in una trappola. Mentalmente chiese perdono a Lakshmana e aiuto a Rama. Ravana guardava Sita con severità.
“Io non sono un povero vecchio asceta: io sono Ravana, il re della razza più potente dell'universo. Io voglio che tu diventi la mia regina, e che tu voglia o no lo diventerai.”
Così dicendo il Rakshasa riprese le sue vere sembianze. Sita, vedendolo così maestoso e possente, rabbrividì. Oramai aveva capito tutto l'inganno. Prese a gridare e a correre, ma Ravana la afferrò e la gettò sul suo carro, nascosto nelle vicinanze. Sita gridava, piangeva, cercava di convincere il malvagio re a lasciarla, a non portarla via: ma inutilmente. Nessuno poteva più aiutarla. Il carro si alzò in cielo e partì con grande velocità. La povera Sita era affranta e terrorizzata. Cosa le sarebbe successo?
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La morte di Jatayu – La ricerca di Sita
Il vecchio avvoltoio Jatayu, il loro caro amico, vide tutta la scena e, appena il carro fu in cielo, attaccò. Ma sapeva che stava tentando un'impresa disperata. In un generoso quanto inutile tentativo di liberare Sita, Jatayu attaccò l'invincibile Rakshasa. E combatté con grande valore, uccidendo l'auriga e i muli magici che trainavano il carro, e distruggendo il carro stesso. Riuscì persino a ferire Ravana. Ma la furia di Ravana divampò come il fuoco della dissoluzione universale. Afferrò con furore la sua spada e con colpi vigorosi tagliò le zampe e le ali al povero Jatayu il quale, mortalmente ferito, precipitò al suolo. Oramai nessuno poteva più contrastarlo. Il carro distrutto, Ravana portò via Sita in volo. Disperata, Sita piangeva e si lamentava per la morte di Jatayu e per il suo crudele destino.
Poco dopo, mentre viaggiava in cielo, Sita vide alcune figure che da terra guardavano la curiosa scena del gigantesco Rakshasa che portava via una giovane donna piangente. Pensando di lasciare qualche traccia, lasciò cadere delle stoffe e dei bracciali. Potevano essere un segnale per Rama quando l'avrebbe cercata.
Cosa faceva Rama? Oramai aveva ben compreso il vile inganno e si preoccupò che il fratello potesse farsi ingannare dalle false grida di Maricha, lasciando imprudentemente Sita da sola. Mentre tornava rapidamente sui suoi passi, scorse tutt'intorno dei cattivi segni che lasciavano presagire una tragedia. E quando sulla strada incontrò il fratello che correva altrettanto affannosamente, le paure divennero angosciose realtà.
“Lakshmana, che fai qui!” gli gridò. “Ti avevo detto di non lasciare Sita da sola!”
Lakshmana riprese fiato e gli raccontò cosa era successo quando Sita aveva sentito le urla, e lo tranquillizzò che l'aveva lasciata protetta dentro un cerchio magico. Ma voleva solo rassicurarlo per un po’: anche lui sapeva cosa sarebbe accaduto se Sita fosse stata ingannata e indotta a uscire dal cerchio. Ambedue disperati, corsero con quanta forza avevano nelle gambe. Arrivati alla capanna la trovarono desolatamente vuota: tutt'intorno chiari segni di lotta. Oramai le loro più nere paure si erano tramutate in disperata realtà: Sita era stata rapita, o forse anche uccisa.
I due fratelli cercarono affannosamente ovunque: al ruscello, nel bosco, nelle radure, nei luoghi preferiti dove Sita andava spesso. Ma molto presto le ultime illusioni caddero: Sita era stata rapita dai Rakshasa. Rama era sconvolto, non riusciva a tenere più la mente sotto controllo, i suoi occhi vagavano fulmineamente ovunque, nella speranza vana di scorgere l'amata.
“La mia cara Sita,” gemette. “Dove sarà ora? Chissà quale essere malvagio l'avrà rapita. E chissà se sarà ancora viva.”
Tutti i sentimenti di sofferenza per la separazione dalla compagna si scatenarono nel suo cuore.
“Come farò ora senza il suo sorriso che, come la luce, rischiara anche le più terribili tenebre di un destino avverso? E chi mi parlerà con la stessa voce limpida, dicendomi parole affettuose, piene di profondo amore? Io sono il colpevole di tutto ciò: non dovevo permetterle di seguirmi, qui, in questa dura foresta priva di ogni comodità e piena solo di Rakshasa e animali feroci. Solo per un mio egoismo le ho permesso di seguirmi.”
Anche Lakshmana era affranto, e più vedeva il fratello che piangeva e si lamentava e più si sentiva colpevole. Tentò di consolarlo.
“La troveremo. Vedrai che la troveremo. Continuiamo a cercare. Non scoraggiarti. Vedrai che la troveremo.”
Nella loro disperata ricerca arrivarono nel luogo del combattimento fra Jatayu e Ravana. Lì videro i resti del carro e i corpi dei muli e dell'auriga, mutilati in molte parti. Più in là il morente Jatayu. Avendo intuito che aveva tentato inutilmente di difendere Sita, Rama e Lakshmana si chinarono tristemente sul loro caro amico. Rama lo chiamò con voce amorevole.
“Jatayu, amico mio, chi ti ha fatto questo? É lo stesso che ha rapito la mia Sita, vero? Dimmi, è ancora viva?”
Jatayu era moribondo. Parlava con un filo di voce.
“É stato Ravana...” disse con le ultime forze che gli rimanevano, “il re dei Rakshasa... in persona. Voi vi eravate allontanati... e ha rapito Sita... Ho cercato di difenderla, ma sono troppo vecchio.”
Rama gli sorrise teneramente e lo accarezzò.
“Amico mio, non potrò mai ripagare il servizio che mi hai reso. Hai visto dove si dirigeva e se è ancora viva?”
“Sita è viva...” disse Jatayu, “non preoccuparti... non l'ucciderà. Sono andati a sud... a sud...”
Si fermò un attimo per riprendere fiato.
“Sita piangeva... e ti chiamava... ma non disperarti... presto la ritroverai... benedicimi... che in quest'ultimo istante della mia vita io possa ottenere lo scopo ultimo, la perfezione dell'esistenza... Rama.”
Pronunciando il nome santo di Rama, Jatayu spirò. Addolorati per la morte del caro amico, i due fratelli celebrarono il funerale secondo le tradizioni vediche. Poi si incamminarono verso il sud, alla ricerca di Sita.
41
Le indicazioni di Kabandha
Entrarono nella foresta di Krauncha, piena di pericoli di ogni genere. Quel giorno stesso si imbatterono in Ayomukhi, una orribile Rakshasi la quale, vedendo Lakshmana così bello, se ne innamorò e tentò di costringerlo a sposarla. Ma Lakshmana aveva perso la voglia di scherzare con le donne, afferrò la spada e le tagliò il naso, le orecchie e i seni. Ayomukhi fuggì gridando furiosamente.
Camminando celermente nella tenebrosa foresta, Rama e il suo fratello più giovane si imbatterono in un altro terribile Rakshasa. Costui era alto come una montagna e la sua voce sembrava provenire dalle profondità di una caverna. Era senza testa, e la grande bocca era nel mezzo del suo gigantesco petto, sopra del quale un unico grande occhio brillava come un tizzone ardente. Quando arrivarono, il mostro stava mangiando leoni, orsi e vari tipi di uccelli. Aveva le braccia lunghissime e incuteva terrore solo a guardarlo. Kabandha - così si chiamava il Rakshasa - vide i due fratelli e allungò fulmineamente le braccia per afferrarli. Colti di sorpresa i due non poterono difendersi e si videro trascinati fino quasi a finire nella bocca del mostro. Velocissimi, riuscirono a sfoderare le spade e con pochi poderosi fendenti gli tagliarono le braccia.
Ormai incapace di nuocere o di difendersi, Kabandha guardò i due fratelli e, con voce bassa e oramai rantolante, si rivolse a loro.
“Rama, ascolta. Voglio raccontarti del motivo per cui sono caduto in questa orrenda condizione di vita. Ascoltami con attenzione.
“Tempo fa, grazie a rigorose austerità, soddisfai Brahma, che mi benedisse con una lunga vita. Per questa benedizione che mi rendeva invincibile io sfidai Indra. Durante il combattimento egli distrusse la mia testa, le mie braccia e le mie gambe, ma non poté uccidermi. Così mi dette queste braccia che voi oggi mi avete tagliato, e mi pose quest'occhio e questa bocca nel petto. E mi disse:
“Quando Rama e Lakshmana taglieranno queste braccia e ti uccideranno, riprenderai il tuo aspetto originale.”
“Così in questo corpo orribile io vagavo per le foreste e mi divertivo a spaventare i saggi. Ma un giorno il Rishi Sthulashira si arrabbiò e mi maledisse:
“Tu manterrai questa orribile forma per sempre.”
“Io divenni terrorizzato e chiesi il suo perdono. Alché disse:
“Riprenderai la tua bella forma corporea quando Rama e Lakshmana bruceranno il tuo corpo.”
“E ora sii misericordioso verso le mie sofferenze e dammi l'opportunità di tornare gloriosamente nei pianeti celesti da dove provengo. Brucia questo corpo e io vi darò indicazioni per ritrovare la vostra Sita.”
Sorpresi che il Rakshasa sapesse di Sita, Rama e Lakshmana fecero come aveva detto loro di fare.
Appena il corpo fu incenerito, Kabandha apparve nella sua originale forma celeste. E, pieno di gratitudine per coloro che gli avevano ridato la gioia di vivere, Kabandha parlò ancora.
“Io so quanto state soffrendo per il rapimento di Sita,” disse. “Se volete ritrovarla dovrete allearvi con il re degli uomini - scimmia, i Vanara, e sicuramente la ritroverete. Seguite le mie indicazioni e troverete la collina di Rishyamukha. Lì vive il loro capo, che si chiama Sugriva.”
Dopo aver pronunciato quelle parole, Kabandha scomparve. I due fratelli s'incamminarono verso la collina Rishyamukha.
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