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L'Uno è "tutte le cose" e al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non è "tutte le cose" in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si troveranno.....
Il documento che presentiamo, ai nostri Ospiti, per studio e considerazioni è estratto dalle "Enneadi" di Plotino edizioni Laterza (1944).
L'Uno è
tutte le cose
I.
L'Uno è "tutte le cose" e al tempo stesso non è
neppure una di esse; principio di tutto, voglio
dire, non è "tutte le cose" in una maniera
qualunque ma è tutto in una maniera
trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte
devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio
le cose non si trovano ancora nell'Uno, ma vi si
troveranno. Come possono allora derivare dalla
semplicità dell'Uno, mentre in una pura identità
non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna
piegatura, quale che sia, assolutamente? Orbene,
proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per
questo, dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi,
affinché l'essere sia, per questo Egli non è
"essere", ma solo il genitore dell'essere; e
questa che vorrei chiamare "genitura" è
primordiale. Mi spiego; perfetto com'è, giacché
nulla ricerca, nulla possiede, di nulla ha
bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e
la sua esuberanza dà origine a una realtà
novella; ma l'essere così generato si rivolge
appena a Lui ed eccolo già riempito; e,
nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso
ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo
fermo orientamento verso l'Uno crea l'Essere; la
contemplazione che l'Essere volge a se stesso
crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per
contemplarsi, deve pur stare orientato verso se
stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed
Essere. Così, dunque, l'Essere è un "secondo
Lui" e perciò crea ciò che gli è simile,
versando fuori la sua forza esuberante; ma,
immagine, anche questa, dell'Essere corrisponde
a Colui che già prima dell'Essere s'effuse. E
questa forza operante che sgorga dall'Essere è
"Anima" che diviene quello che è, mentre lo
Spirito è fermo; poiché anche lo Spirito sorse
mentre "Ciò che era prima di Lui" perseverava
nell'immobilità.
L'Anima però non è immobile nel suo creare;
tutt'al contrario, ella generava la sua
immagine, allorché aveva già subito il
movimento. Ora, finché ella guarda lassù donde
nacque, si riempie di Spirito; ma se avanza su
un'altra ed opposta direzione, genera - immagine
di se stessa - la sensibilità e, nelle piante,
la potenza vegetativa. Nulla, peraltro, è
separato, nulla è scisso da ciò che precede.
Sotto questo rispetto, sembra persino che
l'anima umana s'inoltri, pur essa, sino alle
piante: vi si inoltra, intendiamoci, in questo
senso che la potenza vegetativa ch'è nelle
piante appartiene all'Anima; certo, ella non è,
tutta quanta, nelle piante, ma se è nelle piante
è in questo senso ch'ella è procedura sino a tal
punto, nel basso, da creare un essere novello in
quel suo processo e in quella sua premura del
"peggiore". Del resto, anche la sua parte
superiore, quella sospesa allo Spirito, lascia
che se ne stia quieto e fermo lo Spirito che è
in essa.
II. ...Tutte queste gradazioni sono Lui e non
sono Lui: sono Lui poiché da Lui derivano; ma
non sono Lui, poiché Egli, fermo in se stesso,
non ha fatto altro che dare. Concludendo, gli è
come un corso lento di vita che si protenda in
lunghezza: ognuno dei tratti successivi è "un
diverso", ma il tutto è compatto in se stesso e
se, per via di differenze, ogni cosa sorge
perennemente nuova, l'antico però non si perde
nel nuovo.
Enneade V, 2 - I - II (Laterza - 1944)
I. Se c'è "qualcosa" ulteriormente al Primo,
necessità vuole ch'esso o derivi da Lui,
immediatamente, o si rifaccia a Lui per via di
intermediari; esiste, così, un ordine di "cose
di secondo grado" e un ordine di "cose di terzo
grado": l'uno risale al Primo - è il secondo,
s'intende -, il terzo poi risale al secondo.
Io intendo: deve esser di una semplicità
anteriore a ogni altra, questo nostro Primo e,
precisamente, Egli è diverso da tutto ch'è dopo
di lui, esistente in sé, non mescolato con le
cose da Lui derivanti e capace tuttavia di star
dentro alla sua volta, in un modo tutto suo,
nelle altre cose, uno che è veramente Uno (non
come se questo "è" fosse una cosa diversa e poi
gli si applicasse l'Uno) uno, insomma di cui già
l'espressione "è Uno" suona falsa; uno di cui
non si ha né concetto, né scienza; uno, in
definitiva, di cui usa dire che "è al di là
dell'essere".
Infatti, se non fosse semplice, scevro di ogni
casualità e composizione e veramente e
propriamente uno, Egli non sarebbe principio; e
solo per il fatto che è semplice, ha sovrano
indipendenza e primato su tutte le cose; poiché
il "non - primo" ha bisogno di ciò che lo
precede e il "non semplice" ha bisogno degli
elementi semplici contenuti in lui, a che ne sia
costituito.
Sì, ciò che è di tal natura non può esser altro
che Uno; ché, se ve ne fosse un "altro" di
simigliante natura, l'uno e l'altro
coinciderebbero. Qui, beninteso, noi non ci
riferiamo a due corpi, né diciamo che l'Uno è il
primo corpo! In verità, nulla che sia semplice
può essere corpo; e il corpo, poi, è qualcosa
che diviene, ma non può mai esser principio; il
principio, per contro, è ingenerato. Se, dunque,
quell' "altro" non è corporeo ma è realmente
uno, esso coincide col Primo. E allora, se dopo
il Primo, ha da esserci qualcosa di diverso, mai
più questo sarà semplice; sarà, di conseguenza,
"uno-molti".
Orbene, donde nasce questo "secondo"? Dal Primo.
Certo non potrebbe nascere a caso, perché allora
non sarebbe più "principio di tutte le cose"
quel nostro Primo! Ma in qual maniera, allora,
il secondo nasce dal Primo? Ecco, se il Primo è
perfetto, anzi il più perfetto al mondo, se esso
è la primordiale forza operante, urge, allora,
che esso sia, tra gli esseri tutti, il più
perfetto e che tutte le altre forze operanti, a
tutto potere, imitino Lui.
Qualsiasi, tra le restanti cose, giunta che sia
alla sua piena maturità, genera - noi lo vediamo
- e non sopporta una immota solitudine, in se
stessa; ma crean tutti un essere novello, non
solo chi abbia una volontà consapevole, ma
quelli ancora che, senza volontà consapevole,
vegetano semplicemente, e persino gli esseri
inanimati cedono altrui, di sé, tutto quello che
possono: ad esempio, il fuoco riscalda e la neve
raffredda e le medicine esercitano una efficacia
corrispondente alla loro propria natura su di un
essere diverso: tutte le cose, assolutamente,
sono copie più o meno fedeli che si dispiegano
in eternità e in bontà.
E allora come potrebbe starsene inerte in se
stesso il perfettissimo e il primo Bene, quasi
fosse avaro di se stesso ovvero impotente, Lui
che è la potenza del tutto? E come potrebbe
essere tuttora principio? Sì, "qualcosa" anche
da Lui deve pur nascere, direttamente, se è vero
peraltro che "qualcosa" deve esistere; e, del
resto, tutte le altre cose traggono da lui
l'esistenza: che la traggano da lui, voglio
dire, è una necessità.
In verità, dev'essere sovranamente venerabile
Colui che genera le cose seguaci; così, anche il
frutto di tale generazione dev'essere venerabile
al sommo, e, precisamente, in un grado ch'è
secondo dopo di lui ma superiore a tutto il
resto.
II. Ora, se il generante fosse lui stesso
Spirito, il generato dovrebbe riuscire più
manchevole dello Spirito, sempre però abbastanza
vicino e somigliante allo Spirito. Poiché invece
il generante è al di là dello Spirito, il
generato dev'essere, necessariamente, Spirito.
E perché non è generante lo Spirito, quello
Spirito il cui atto è pensiero? Ma il pensiero
contempla l'oggetto dello Spirito ed è volto su
di questo e da questo è come perfezionato e
compiuto: tale pensiero è indefinito come il
vedere, e viene definito solo dall'oggetto dello
Spirito! Perciò poi fu anche detto: "dalla
dualità indefinita" e dall'Uno escono le Idee e
i numeri: vale a dire lo Spirito. Ecco perché lo
Spirito non è semplice ma è "molte cose" e
rivela già una composizione di natura
spirituale, s'intende - e contempla oramai la
pluralità. Certo, egli è anche, in se stesso,
oggetto di pensiero e, nondimeno, altresì
soggetto pensante: e quindi comporta già una
dualità; ma vi è ancora dell'altro: la realtà
spirituale che viene dopo di Lui.
Ma in qual modo questo nostro Spirito deriva
dall'Uno, oggetto del suo pensiero? L'Uno, quale
oggetto di pensiero, fermo in se stesso e immune
dal bisogno cui è invece soggetto il
Contemplante e il Pensante (bisognoso, però, io
intendo il Pensante solo in rapporto dell'Uno)
non è, per così dire, un Inconscio; no, ma tutto
il suo contenuto non solo è in Lui ma è anche
con Lui; Egli discerne perfettamente se stesso;
c'è vita in Lui; c'è tutto, anzi, in Lui; e
persino la sua contemplazione - ch'è Lui stesso
- si accompagna a non so qual sentimento in una
fissità eterna e in un'attività spirituale che
non ha che fare col pensiero dello Spirito.
Orbene, se qualche cosa nasce mentre Egli
persevera in se stesso, questa nasce da Lui
proprio allora che l'Uno sia alla vetta suprema
del suo essere; se Egli quindi perdura nel suo
proprio modo di essere, il generato nasce, si,
da Lui, ma nasce senza ch'Egli esca dalla sua
immobilità. Pertanto, poiché Quello persevera
come oggetto di pensiero, il divenire s'avvera
come pensiero; ma, pensiero qual è e traendo il
contenuto del suo pensiero da Colui donde sorse
(ché non ha altro) diviene Spirito; così ha,
vorrei dire, un nuovo oggetto di pensiero, che
s'assomiglia quasi a quello di prima ed è una
immagine e una figura di Lui.
Ma come - Lui fermo si svolge il divenire? In
virtù della forza operante. La quale è duplice:
l'una è chiusa nell'essere; l'altra sgorga al di
fuori dell'essere particolare di ciascuna cosa;
e, precisamente, quella che appartiene
all'essere è proprio quella singola cosa in
atto; quella che sgorga fuori, da esso, e che
deve necessariamente tener dietro ad ogni cosa,
è diversa da quella singola cosa. Tant'è, per
esempio, nel fuoco: vi è, da un canto, il calore
che entra di pieno diritto nella sua essenza; e
v'è, d'altro canto, il calore che nasce già come
derivato dell'essenza, allora che il fuoco, in
quel semplice perseverare come fuoco, esercita
la forza operante chiusa nativamente nel suo
essere.
Proprio così è anche nel mondo superno; lassù,
anzi, a più forte ragione: mentre l'Uno
persevera nel suo proprio modo di essere, la
forza operante, nata com'è dalla perfezione e
dalla congiunta forza operosa ch'è in Lui si
ipostatizza appunto perché sorge da una potenza
enorme - la suprema, certo, tra tutte - e giunge
sino alla vetta dell'essere e dell'essenza;
poiché l'Uno era al di là dell'essenza.
Precisiamo: l'Uno è la potenza del Tutto; il
generato, invece, è già il Tutto. Ma se questo è
il Tutto, Quegli è al di là del Tutto; di
conseguenza, al di là dell'essere. Inoltre, se
lo Spirito è tutto, l'Uno invece è anteriore a
tutto e non ha quindi una unità di misura comune
con tutte le cose e così, anche per questa
considerazione, Egli vuol essere al di là
dell'essenza; tant'è dire al di là pure dello
Spirito. Si conclude che al di là dello Spirito
c'è "qualcosa". Francamente, l'essere non è un
cadavere e neppure una "non-vita" e neppure "uno
che non pensi". Così Spirito ed Essere
coincidono. Mi spiego: tra le cose e lo Spirito
non corre lo stesso rapporto che c'è tra la
sensazione e i sensibili - i quali la precedono
-; no, ma lo Spirito coincide con le cose, dal
momento che le loro forme ideali non sono
acquisite ma immanenti; poiché donde potrebbero
acquistarsi? Qui solamente, tra questi oggetti
dello Spirito, regna una vicendevole identità ed
unità. Del resto, anche la scienza delle cose
immateriali, presa nel suo complesso, si
identifica col suo contenuto reale.
Enneade V, 4 - I - II - Ibid.
XI. Ma se uno di noi - mal riuscendo a vedere se
stesso - ghermito dal dio superno, trasporta al
di fuori la visione per poter vederla, egli
allora trasporta al di fuori anche se stesso e
guarda semplicemente una abbellita immagine di
sé. Ma se lascia cadere tale immagine, per bella
che sia, e giunge a unificarsi con se stesso
senza spezzarsi più, egli è uno e tutto a un
tempo, in compagnia di quel dio che è lì
presente, nel silenzio, e allora egli se ne sta
con Lui, sino al limite del suo potere e della
sua brama. Se, per contro, egli si volge
indietro e ricade nella dualità, fino a che
resti puro, egli è sempre in immediata vicinanza
con Lui, sì da rientrare ancora - in quel modo
trascendente - proprio nel suo essere, purché
solo si rivolga, di bel nuovo, a Lui; comunque,
da quel suo volgersi indietro, egli ha tratto il
seguente guadagno: al principio, egli acquista
una percezione di se stesso, fino a che sia
distinto da Lui; ma allora egli si affretta a
entrare nel suo interno e riguadagna il tutto,
tanto che, facendo getto della percezione, torna
indietro, per paura di esser diverso da Lui, e
ritorna così uno, lassù. Se però egli brama
vederlo come un diverso, egli rende esteriore
pure se stesso. Chi però fermo in una qualche
traccia di Lui lo va scoprendo, deve anzitutto a
furia di cercare, vagliarne la cognizione; ma,
dopo avere così saggiato, con la prova dovuta,
il valore della cosa in cui deve entrare - come,
cioè, entri in una somma beatitudine - egli deve
oramai abbandonarsi al suo intimo e tramutarsi
alfine, risplendendo di pensieri, da "veggente"
in "visione", la visione, voglio dire, di un
altro Contemplante, com'è Colui che ci si fa
incontro di lassù.
Ora, come può uno essere nel bello e tuttavia
non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello
come altro da sé, non è ancora nel bello costui;
se invece è divenuto bello, allora soltanto,
egli si trova, al più alto grado, nella
bellezza. Se pertanto il vedere si riferisce a
ciò che sta fuori, non vuol essere visione,
questa, se non sia tale da identificarsi con la
cosa vista: ma questa è, per così dire,
intelligenza e coscienza di sé, e qui si deve
fare attenzione a che non si corra il rischio di
allontanarsi da se stesso, proprio mediante una
più intensa coscienza! Occorre pure riflettere
al fatto che le percezioni di cose cattive ci
colpiscono più violentemente e indeboliscono la
conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro
urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce;
la sanità invece, benché tranquilla compagna, sa
farsi avvertire di più poiché essa sta in noi,
come a casa sua, al primo posto, anzi s'unifica
con noi, mentre la malattia è un'estranea e non
è appropriata al nostro essere ed è
visibilissima proprio per questo che si
manifesta violentemente diversa dal nostro
essere.
Pure, su ciò che rientra nel nostro "io" e sullo
stesso nostro "io", noi non rivolgiamo
normalmente la nostra avvertenza; ma proprio
così, più che mai, noi siamo consci di noi, in
quanto abbiamo operato l'unità tra il nostro
sapere e il nostro "io". Lassù pertanto,
allorché il nostro sapere corrisponde nel grado
più alto allo Spirito, abbiamo l'impressione di
non saper nulla, poiché attendiamo l'impronta
della coscienza, la quale dice di non aver visto
nulla; in realtà essa non ha visto nulla né
potrebbe mai vedere cose siffatte. Così, la
fonte del dubbio è la coscienza: tutt'altro,
invece, è Colui che vede; o, se dubitasse lui
pure, non dovrebbe neppure credere a se stesso.
Mai e poi mai, in verità, lo Spirito potrebbe
trasferire se stesso al di fuori e guardarsi con
occhi corporei come se fosse un oggetto
sensibile.
Enneade V, 8 - XI - Ibid.
XII. [...] Ma almeno ciò, che è in senso
assoluto quello che è - Essere in sé - e non è
distinto dalla sua essenza, in questa situazione
è proprio quello che è, vale a dire padrone di
sé e privo di ogni ulteriore orientamento su
altrui, in quanto è e in quanto è essenza. A
lui, d'altronde, fu dato esser padrone di sé su
la via ov'Egli è "Colui che è il Primo". Su la
via che conduce all'Essere. Ora, Quegli che
rende libera l'essenza, Quegli che ha insita,
con piena evidenza, nella propria natura,
l'opera della liberazione sino ad essere detto
"creatore di libertà", a chi mai dovrebbe far da
servo? Purché non sia già sacrilegio esprimersi
così persino in una maniera generale! Forse alla
sua propria essenza? Intanto, anche questa è
libera solo in grazia di Lui ed è posteriore a
Lui; e poi non ha essenza, Lui!
Così, se c'è in Lui qualcosa sul tipo dell'atto
e noi vogliamo far consistere Lui in tale atto,
neppure per questa via Egli riuscirebbe diverso
da sé, e non sarebbe padrone di sé Colui donde
l'atto scaturisce, poiché non sono cose diverse
l'atto e Lui stesso. Ma se non vogliamo proprio
ammettere che ci sia un atto, in Lui; se
dobbiamo, per contro, riconoscere che solo le
altre cose si attuano intorno a Lui e
conquistano così l'esistenza, a maggior ragione
ancora non dobbiamo ammettere lì, nell'Uno, né
un elemento che domina né un elemento dominato;
a rigore, anzi, non gli concederemo neppure
l'attributo "padrone di sè" non perché un altro
sia padrone di Lui ma perché noi assegnammo il
dominio di sé all'Essere e collocammo invece Lui
in un grado più alto di quel che corrisponde a
questo auto-dominio.
Ora, che significa questa espressione "in un
grado più alto di quel che è padrone di sé"?
Ecco: lì, in seno all'Essere, essenza ed atto
sono, in un certo senso, dualità - dall'atto
stesso ognuno poté trarre l'idea dell' "esser
padrone" (quest'atto, beninteso, è identico
all'essenza) -; proprio per questo fatto fu
preso separatamente "l'esser padrone", e,
l'Essere fu detto "padrone di sé". Allorché,
invece, non c'è una dualità in valore di unità
ma proprio l'unità in se stessa - cioè o
esclusivamente atto o qualcosa che non è neppure
atto - anche l'espressione "padrone di sé" non è
giustificata.
XIII. Frattanto, se è necessario introdurre
queste espressioni che si applicano in modo
inesatto all'oggetto della nostra ricerca, si
ribadisca ancora una volta che ben a ragione si
afferma l'esigenza di non renderlo dualità
neppure per successiva astrazione mentale; per
il momento, però, solo per destare la
persuasione, c'indurremo persino ad uscire dal
retto cammino della logica, nel nostro
discorso....
Enneade VI, 8 - XII - XIII - Ibid.
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