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L'Assoluto in sé è l'Uno, l'assoluto in noi è la tendenza all'Uno. Tendere all'Uno per l'anima vuol dire aspirare alla propria libertà, riconquistare se stessa e l'originario fondo del proprio essere, raccogliersi, fuori della dispersione nel tempo e nell'eterogeneo, in un presente eterno, che più non conosce ricordi o nostalgie di un passato ormai inesistente, né desideri o ansie di un futuro ancora lontano....
Il documento che
presentiamo, ai nostri Ospiti, per studio e considerazioni è tratto da "Plotino"Grazanti 1945.
Le Vie
del Ritorno
L'Assoluto in sé è l'Uno, l'assoluto in noi è la
tendenza all'Uno. Tendere all'Uno per l'anima
vuol dire aspirare alla propria libertà,
riconquistare se stessa e l'originario fondo del
proprio essere, raccogliersi, fuori della
dispersione nel tempo e nell'eterogeneo, in un
presente eterno, che più non conosce ricordi o
nostalgie di un passato ormai inesistente, né
desideri o ansie di un futuro ancora lontano.
Questa originaria tensione dell'anima all'Uno, è
presenza dell'Essere nell'essere, che rende
possibile questa stessa aspirazione. Essa è luce
che illumina la via del pensiero e ne dirige il
processo e gli offre la possibilità di
orientarsi tra il molteplice e di porre sempre
vaste e comprensive relazioni, anche se il
pensiero dovesse essere poi destinato a
un'indagine infinita; è la stessa luce che basta
ad avviare la volontà verso quella
collaborazione morale che è l'essenza del nostro
vivere associato ed insieme l'espressione della
ritrovata purezza interiore, anche se nella
determinazione dei principi morali la ragione
dovesse procedere tra sempre nuove incertezze.
L'Uno non è dunque soltanto il tacito e astratto
postulato di ogni pensiero e di ogni azione, ma
è anzitutto orientamento originario e vivo della
nostra vita, che rende possibile la stessa
pensabilità di quel postulato, anima dell'anima
nostra.
Ma questa Unità non è un dato immediato né della
esperienza sensibile né dell'intelligenza:
poiché l'immediato primo è la molteplicità
esteriore, che disperde l'anima fuori di se
stessa. In rapporto con questa molteplicità
esteriore ed immediata, l'anima avverte un senso
di amarezza e di sgomento, in quanto riconosce,
sia pure oscuramente, l'inadeguatezza del
fenomenico a quell'Uno, a cui tende per natura.
Ecco perché il male, il dolore, l'errore, l'odio
e la morte, tutti insomma gli elementi negativi
che implicano un'intima opposizione, compiono
nella vita spirituale una funzione dialettica ed
esistono solo come momenti dialettici della
realtà positiva. Essi servono all'anima per
iniziare il suo processo di ascesa, per
suggerire il valore superiore e, in ultima
analisi, per renderla più consapevole del suo
segreto desiderio di unità. Perciò l'Uno è Fine
di un faticoso processo, meta di volontà
operose: è Fine perché Principio, Nell'Uno il
circolo dell'anima si apre e si chiude: circulus
bonus.
La condizione trascendentale del «ritorno»
dell'anima è dunque la presenza dell'Uno come
tendenza inconsapevole. Esso è presente in ogni
anima e sempre; la sensibilità estetica può
mancare in qualche individuo, il brivido
dell'amore può essere assente in qualche anima,
non però la tensione all'Uno, che è la Potenza
intima, più antica. L'inconscio compie nel
sistema plotiniano, qui e altrove, come si
vedrà, una funzione di capitale importanza. Ché
se il pensiero che riflette e ragiona è per
Plotino un valore di secondo grado ed aspira
naturalmente, come a suo ultimo fine, non ad una
razionale verità, ma al Bene, se il Bene-Uno,
pur essendo fonte del Noûs, è al di là del Noûs
in una regione spirituale dove la distinzione di
soggetto e oggetto non ha più ragion d'essere, è
naturale che l'inconscio stia alla base della
nostra vita e del nostro stesso pensiero e che
il processo della mente umana si svolga
perennemente dall'inconscio al conscio o, se
vogliamo adoperare i termini aristotelici, dalla
potenza all'atto. Poiché l'esplicazione
dell'anima non è condizionata a un contatto col
reale esterno, quasi che essa debba trarre dal
visibile i suoi tesori e il suo valore: il
processo spirituale si svolge soltanto
dall'interiorità, e il fenomenico che tocca
l'anima dall'esterno non è che una «occasione»
che rende possibile il compimento di un processo
tutto interiore.
Se non che, la Sehnsucht all'Uno, appunto perché
inconscia, non basta ad iniziare il ritorno. É
necessario che essa diventi, da vaga
aspirazione, vera e consapevole conquista
attraverso un'attività intellettuale che
riconosca ciò che l'Uno è e lo discrimini da ciò
che, pur manifestandolo, non è l'Uno.
L'inconscio non è valore finché rimane assoluta
indistinzione.
L'anima dunque non può ritornare per il semplice
fatto di avere in sé quella inconscia
aspirazione: se così fosse, tutte le anime
rivelerebbero un medesimo destino e tutte si
confonderebbero in una grigia uniformità. Ora,
le anime singole si distinguono tra loro per il
modo con cui si atteggiano e reagiscono di
fronte alla realtà esterna e sanno riconoscere
in essa la «traccia» di un Valore non sensibile
e non fenomenico. Perciò se tendere
inconsciamente all'Uno è di tutti, anche delle
cose che sembrano inanimate, ritornare all'Uno è
soltanto privilegio di pochi, di quelli cioè che
hanno la capacità di sentire in un certo modo le
cose e di avvertire in esse un «al di là», ma
anche, e soprattutto, di comprendere
l'invisibile messaggio e di conquistare per esso
un mondo di razionalità purissima. In pieno
accordo con Platone, Plotino concepisce i valori
dello Spirito come il privilegio di una
aristocrazia destinata a vivere la sua vita
superiore in una sublime solitudine:
aristocrazia che egli non fa derivare dal
decreto di un cieco Destino che dispensi a caso
le sorti, ma dall'attuazione di una inesorabile
Legge morale che a ciascuno dà secondo i meriti
di trascorse vite anteriori: sicché la vita
presente appare allo sguardo di ogni anima come
l'espressione viva e concreta di una Giustizia
universale, e nessun avvenimento e nessuna
azione rimangono estranei a una sanzione etica.
Potrà sembrare che una certa fatalità amorale
incomba sulle anime e schiuda loro dinanzi un
cammino inderogabile: e in realtà, come vedremo,
per Plotino come per Goethe, nessuno può mai
liberarsi 'dalla guida del suo «genio», ma deve
portare a compimento il suo destino individuale,
segnato nel profondo della sua anima. Ma chi
potrà negare la necessità delle vicende esterne
che accadono nella vita empirica dei singoli?
Non certo un greco, che al Cosmo ha sempre
guardato come al regno di un Ordine
ineluttabile.
Di fronte al mondo delle apparenze la
maggioranza degli uomini rimane attonita come
dinanzi all'unica realtà; per i molti (oi polloí)
è reale soltanto ciò che appare immediatamente
al senso. Alle cose essi guardano come al loro
vero unico fine, considerando somma gioia il
loro possesso. La sfera della loro spiritualità
si limita all'utile e al piacere immediato: al
di là delle apparenze essi non presagiscono
nulla, ma rimangono paghi dei contatti
sensibili, abbandonandosi con voluttà e con
passione alle ombre e ai fantasmi. Conquistare
le cose è tutto per essi, come se esse fossero
la cosa più preziosa: perciò, in quanto aspirano
a oggetti destinati alla morte, come al loro
sommo bene, essi si considerano inferiori alle
cose stesse e disprezzano inconsapevolmente la
loro anima. Credevano di essere padroni della
realtà esterna e di essere più che uomini: in
realtà obliano la loro dignità umana e decadono
allo stato di cose soggette al divenire fatale,
schiavi delle forze esterne e destinati a
rimanere per sempre ignari della loro divinità.
Il loro mondo è il mondo dell'utilità e del
possesso, che significa disprezzo di sé e
schiavitù dello spirito.
Alcuni uomini invece, pur essendo, come la
maggioranza, legati all'esterno, sanno avvertire
nelle voci del mondo ciò che sfugge agli altri:
essi sono sensibili all'incanto dei suoni, nei
ritmi cercano la misura e l'accordo, nei canti
evitano disaccordi e discordanze. Come costoro,
altri sono sensibili alla bellezza dei colori o
all'armonia delle linee architettoniche o al
fascino della parola. É la via dell'arte. Altri
provano una strana commozione dinanzi alla
bellezza dei corpi e avvertono un
incomprensibile fascino di fronte a un bel viso
armonioso e sereno: è la via dell'amore. Altri
reagiscono, nei loro quotidiani rapporti con gli
uomini, con un animo mite e naturalmente
inclinato alla bontà e preferiscono subire
un'offesa piuttosto che commetterla; per un
«dono divino essi, indipendentemente da ogni
conoscenza razionale, scelgono la virtù come per
istinto e l'apprezzano in sé e nelle altrui
azioni: è la via della catarsi morale (se può
essere considerata come una via determinata
quella interiore purezza che deve accompagnare
ogni processo ascendente). Tutti costoro -
poeti, amanti, virtuosi - non considerano il
mondo sensibile come unica realtà, ma come
«segno» di un'altra realtà invisibile e
puramente intelligibile, ch'essi però non
conoscono ancora ma soltanto presagiscono.
Perciò essi non sono ancora liberi completamente
dal fascino delle forme visibili, ma hanno già
in loro potere il mezzo per avviarsi alla
liberazione. Difatti la commozione e il brivido
che li pervadono sono oscuri e inconsci
sentimenti non ancora giunti alla loro piena
chiarificazione razionale.
Al di sopra di questi uomini «demonici» ci sono
gli uomini «divini», gli eletti, che non
subiscono il fascino esteriore e non hanno
bisogno, per salire, di nessun «segno» o
messaggio esteriore che li commuova. Il nascere
e il morire delle cose non li turbano più; per
natura essi non comprendono che la realtà
intelligibile, che è per loro l'unica vera: il
vero oggetto del loro pensiero è l'eterno
essere, identico al loro spirito intuitivo;
unica bellezza per loro non è quella che si
rivela ai sensi incantati attraverso colori o
armonie sensibili, ma la Verità stessa che si
svela nella sua purezza senza bisogno di
mediazione alcuna. In costoro la tendenza
all'Uno è consapevolezza luminosa; la libertà
non è più processo di liberazione dal
contingente e dal mutevole, ma pieno possesso
dell'essere e consistenza nell'essere.
Sono questi i filosofi, virtuosi per natura, il
cui desiderio può ormai ripiegarsi su se stesso
e ritrovare in sé l'Uno: nessuna tendenza rimane
più inconscia ed incompresa, poiché essi non si
sono fermati a constatare semplicemente dei
dati, ma hanno percorso tutti i piani della
realtà comprendendo la necessità metafisica
dell'itinerario e la funzione spirituale di
ciascuno di essi. Perciò, essendo l'Uno, e non
lo Spirito, la meta finale dell'ascesa, e non
essendo possibile giungere all'Uno se non per lo
spirito ormai liberato dal mutevole e dal
fenomenico e possessore della Razionalità
dell'Essere, è inesatto parlare di «molte vie»
che conducano all'Uno.
In realtà, non esiste che una sola via: il
pensiero, che è luce che condiziona ogni altra
attività dello spirito e la rende consapevole
del suo valore soteriologico.
L'amore, l'arte, la virtù istintiva sono vie che
conducono allo Spirito, non all'Uno; e conducono
allo Spirito solo a condizione ch'esse vengano
accompagnate e portate a compimento dalla
presenza del pensiero. Senza il pensiero
filosofico che è «saper di vedere» l'arte
rimarrebbe cerchio incantato che irrigidisce
l'anima e ne ritarda la salute suprema, l'amore
sarebbe illusione terrena e vagheggiamento di
una falsa immortalità, la virtù istintiva
stagnerebbe in naturalità e impulso, priva
dell'anelito consapevole che la trasforma in
valore. La via del filosofo - che è la
dialettica, unica vera via - è dunque superiore
ad ogni altra in quanto è conoscenza dell'essere
e perciò sa discriminare in seno all'arte,
all'amore, alla virtù inconscia, ciò che è
apparenza e illusione da ciò che è realtà vera
ed eterna. Nell'atto stesso in cui il pensiero
riflette sui suoi fantasmi di bellezza e di
amore, esso li trascende perché li riconosce
come fantasmi e cioè come segni di altra realtà
e, superandoli, li dimentica, ma dopo essersene
servito per affermare, una volta di più, la sua
libertà dominatrice.
Utile, Bello, Vero, Bene sono, nei sistema
plotiniano, i fondamentali valori della vita:
l'Utile si realizza negli immediati rapporti
quotidiani con gli uomini e con le cose; il
Bello ci dà il primo annuncio di una realtà
invisibile e ci incammina verso il mondo ideale;
il Vero è il pieno possesso dell'essere e la
perfetta conoscenza del nostro io; il Bene è il
ricongiungimento con noi stessi e con
l'Assoluto. Questi valori devono essere
distribuiti lungo quell'unico cammino che
conduce all'Uno e concepiti in funzione
dialettica con la meta finale; staccarli dalla
continuità dinamica dell'unico processo
ascendente e considerarli statici e distinti
porterebbe alla distruzione dell'unità della
vita spirituale dell'anima; e ciò contraddirebbe
a quella tendenza all'Uno che è al fondo del
nostro pensiero e delle nostre azioni, nonché
all'Uno metafisico stesso. Si possono pensare
come «distinti» purché ognuno di essi venga
concepito come momento che ha la sua ragion
d'essere in quello successivo; anzi alla loro
distinzione è pur necessario pensare quando si
consideri che l'Uno non distrugge la distinzione
dei piani ipostatici di vita. Ma se tale
dottrina, come si è già visto, rende possibile
all'anima l'opzione tra diversi destini, non
giustifica tuttavia il relativismo che annulla
l'obiettività dei valori. Perciò se l'utile è
l'utile e non è il Bello, vuol dire che esso è
un distinto, non nel senso che esso costituisca
un piano di vita autonomo e sufficiente a se
stesso, ma in quanto rappresenta un mondo
inferiore che il pensiero riconosce come tale
appunto perché è realmente proteso a un Fine che
non è perenne processo di conoscenza, ma
riconoscimento di un'Unità che trascende ogni
alterità logica. Il Bello sensibile si distingue
dal Vero, ma solo per risolversi nel Vero; il
Vero si distingue dal Bene, ma per condurre
l'anima al Bene.
Perciò se da un lato la dialettica plotiniana
può apparirci come una dialettica dei distinti,
data la irriducibile trinità delle ipostasi,
dall'altro essa può anche essere considerata
come dialettica degli opposti, essendo quelle
ipostasi soltanto momenti di un unico processo
vitale che culmina nel Bene. Ma ad impedire una
decisa identificazione in un senso o nell'altro,
giova ricordare ancora una volta che il
pensiero, nel sistema plotiniano, non è né
esclusivamente destinato a costruirsi in sapere
storico in cui si assorba e scompaia il
personalissimo intimo destino dell'individuo
pensante, né è soltanto perenne infaticabile
ricerca che goda, in una eterna vicenda di
opposti, ripensare la rinnovata ricchezza del
suo contenuto e tendere a una sintesi
irraggiungibile. In Plotino non c'è vera storia
al di fuori di quella interiore del singolo, che
rifà, in ordine ascendente, il processo delle
eterne ipostasi; e d'altra parte le opposizioni
non esistono in seno ai valori, ma solo ai
margini della realtà fenomenica, nel pulsante
ritmo dell'esistenza quotidiana. La dialettica
plotiniana appartiene soltanto all'anima e
conosce una meta suprema che è una ed immota
fuori del tempo e della storia.
Il ciclo della vita dell'anima, nella sua
fenomenologia terrena, è dunque un processo
spirituale che ha le sue radici e il suo inizio
nell'inconscio e nell'irrazionale,
nell'esteriore e nel sentimento, e culmina
nell'ineffabile gaudio dell'infinita
Razionalità, posseduta nell'unità del proprio
spirito. Di quell' «irrazionale» immediato
Plotino ha riconosciuto la funzione iniziatrice,
dimostrando così che al regno dello Spirito non
si può giungere se non attraverso il concreto e
la molteplicità e valutando perciò, dentro i
necessari limiti, le forze oscure e primigenie
dell'istinto e della creatività originaria e
insieme la segreta spiritualità del mondo
sensibile e il suo valore di «occasione» allo
scoprimento dei valori eterni. Di qui il suo
ottimismo eroico con cui sa guardare alle
vicende terrene, tristi e forse anche terribili
e nefaste nell'apparenza, ma capaci di avviare
l'anima, che sappia comprendere il silenzioso
messaggio, a quella interiorità impassibile e
beata che non teme nessun orrore. L'esteriore
non ha se non quel significato che l'anima,
cieca della sua ignoranza o veggente della
ritrovata luce interiore, gli concede. Di qui la
sua lotta contro il pessimismo gnostico, che
condannava il mondo come opera di un demiurgo
malvagio e non s'accorgeva di precludersi così
il cammino che avvia alla salute interiore.
Se l'unica vera via che conduce all'Uno non è
che il pensiero, e le altre vie compiono la loro
funzione soltanto se si risolvono in pensiero
dialettizzante, anche l'attività morale non deve
essere considerata come una via, ma come la
condizione primaria dell'ascesa in tutte le sue
forme. L'imperativo morale - Afele pánta:
elimina ogni particolarità - è insieme un
imperativo gnoseologico: per raggiungere lo
Spirito che è libertà, purezza e piena
autoconoscenza, è necessario superare il piano
più basso della vita, in cui le cose esteriori e
contingenti incantano, come allettanti sirene,
l'anima e la costringono ad abbandonare la sua
divina interiorità e con piaceri e sdegni e
passioni d'ogni sorta la inducano ad operare
azioni che hanno rapporto col suo corpo, cioè
coi suoi bisogni economici transeunti e
individualistissimi. La virtù perfetta non è
compromesso né col proprio corpo né con la
realtà sociale che ne circonda: le virtù civili
o politiche, se da un lato sono un bene in
quanto elevano l'uomo al di sopra della sua
impurità, dall'altro rappresentano ancora un
piano morale inferiore e un grado di schiavitù
spirituale. L'anima aspira alla sua libertà e
alla sua purezza; ma la libertà non esiste per
lei se non nello Spirito dove il pensiero è
pieno possesso di sé e l'esteriorità non esiste
più. Il ritmo sensibile è ritmo di opposti,
incessante vicenda di nascita-morte,
azione-passione, piacere-dolore; in questo mondo
non c'è posto né per la libertà né per la
purezza, poiché esso è il mondo dei «motivi» che
spingono ad agire esternamente nel tempo e nello
spazio. Perciò se soltanto lo Spirito è libertà
e purezza, elevarsi ad esso vuol dire
purificarsi moralmente e insieme assurgere a una
sempre più adeguata conoscenza. Nella sua finale
perfezione, la virtù è contemplazione noetica e
forma e sostanziale idea; perciò se il processo
morale è «purificazione» e perenne sforzo di
elevazione, ]a virtù nella sua essenziale natura
è purezza assoluta.
Alla sfera più bassa della conoscenza
corrisponde un agire che è istintività,
costrizione esterna, schiavitù dello spirito; la
conoscenza suprema è invece pieno e libero
possesso di sé; tra il primo e l'ultimo grado di
questa ascesa il conoscere è anche un fare
travaglioso che, nel momento stesso in cui
allontana da sé tutto ciò che è
gnoseologicamente inadeguato ed oscuro, elimina
ciò che è eticamente impuro ed utilitaristico.
La volontà è dunque destinata a risolversi da
impulso inconsapevole in conoscenza intuitiva e
ad affermare, nel riconoscimento della necessità
dell'Essere, la sua libertà vera. In ciò
consiste quella omoiosis teó che è la meta
dell'azione morale; ma se il dio supremo, pur
rimanendo in sé, opera eternamente senza mai
legarsi al risultato della sua creazione, è
naturale che anche l'anima, assimilatasi allo
Spirito e all'Uno nella sua contemplazione
indefettibile, non si immobilizzi in una morta
inerzia, ma continui ad operare nel mondo
sensibile, ferma al suo Principio, guardando al
suo corpo come a cosa estranea a se stessa e
rivelando nelle sue operazioni il perenne
distacco dai frutti delle sue azioni e il
disprezzo per ogni «possesso». Così essa vive,
sospesa all'Eterno; e la sua felicità, identica
alla visione dell'essere, non è dispersione in
tempi diversi, ma Iota simul nell'eterno
presente: è, per adoperare il termine
spinoziano, gaudium, non laetitia.
Identificato così il processo ascensivo o
dialettico dell'anima con la prassi catartica, è
facile comprendere perché, nel pensiero
plotiniano, la purificazione condizioni le varie
attività spirituali che conducono al Noûs: non
può l'amore redimere se la purezza non lo
nobiliti e non gli schiuda una visione più vasta
della passione che angustia le anime; non può
l'artista assurgere alla contemplazione della
Bellezza imperitura, se pratici interessi
turbano ancora il suo sguardo interiore e
rendono impossibile la sua intuizione pura; non
può il pensiero compiere il suo itinerario
logico in cerca di una Verità immobile, se
l'anima è travolta da mille discordanti opinioni
ed affetti, ai quali crede ancora più che al
richiamo dell'Invisibile. Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
L'ultimo dei grandi filosofi pagani
Il destino dell'Anima
La Dialettica
Il fondo tenebroso delle Esistenze
La struttura della Realtà
L'Uno è tutte le cose
La Via del Ritorno
L'esperienza Mistica
La Bellezza che redime
Sulla Bellezza
Le Tre Ipostasi originarie
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