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Qual è mai la causa che ha reso le anime – le quali pur
sono parti staccate di lassù e appartengon anzi completamente al mondo superno –
dimentiche del loro padre Iddio e ignare di se stesse e di Lui? Ebbene, prima
radice del male, per esse, fu la temerarietà, e poi il nascere e l’alterità
primitiva e la voglia di appartenere a se stesse...
Il documento che presentiamo, ai nostri Ospiti, per studio e considerazioni è estratto dalle
"Enneadi" di Plotino edizioni Laterza (1944).
LE TRE IPOSTASI ORIGINARIE
Enneade V,I
I. – Qual è mai la causa che ha reso le anime –
le quali pur sono parti staccate di lassù e
appartengono anzi completamente al mondo superno
– dimentiche del loro padre Iddio e ignare di se
stesse e di Lui? Ebbene, prima radice del male,
per esse, fu la temerarietà, e poi il nascere e
l’alterità primitiva e la voglia di appartenere
a se stesse. Così, ebbre, visibilmente, di
quella loro autodeterminazione, poi ch’ebber
fatto il più largo uso di quel loro spontaneo
movimento, dopo quella gran corsa sulla via
contraria, distanziate che furono per sì gran
tratto, finirono alfine per ignorare se stesse e
la loro origine: quasi fanciulli che, strappati
troppo presto ai genitori ed allevati lungo
tempo lontano, non riconoscono più né se stessi
né i loro genitori.
Le anime, dunque, non scorgendo più né Lui né se
stesse, disistimandosi, per ignoranza della loro
stirpe, ed apprezzando invece le altre cose,
ammirando, anzi, tutte le cose più che se
stesse, trasalirono, attonite, di fronte a loro
e ne furono avvinte; e si strapparono, a tutto
potere, dalle cose donde avevan già volto le
spalle, sprezzantemente. Così risulta che di
quella totale ignoranza di Dio unica causa è il
dar pregio alle cose terrene e disprezzo al
proprio essere. Certo, cosa perseguita e cosa
ammirata van di pari passo e chi ammira e
persegue confessa, con ciò stesso, la sua
inferiorità; però, col porsi al di sotto di ciò
che nasce e muore, col solo supporre di essere
la più spregevole e mortale tra le cose che
stima, uno non saprà giammai concepire,
nell’intimo suo, né la natura né la potenza di
Dio.
Perciò occorre che si svolga su due direzioni il
ragionamento contro coloro che così si
atteggiano, se uno voglia davvero volgerli alla
via opposta e alle prime cose e farli risalire
alla vetta più alta: l’Uno e il Primo. Quale è
l’uno e quale è l’altro? L’’uno addita la viltà
di ciò che l’anima attualmente onora e questo
noi lo esporremo più diffusamente altrove:
l’altro ammaestra l’anima e le suggerisce, per
così dire, il ricordo della sua origine e del
suo valore e questo ragionamento ha la
precedenza sull’altro e, chiarito che sia, può
gettar luce altresì sull’altro. Parliamone
subito, dunque; ché questo tocca immediatamente
l’oggetto che si va cercando e giova pure a
quell’altro ragionamento. Poiché il soggetto
indagante è proprio un’anima e un’anima deve ben
conoscere che cosa sia ella che cerca, affinché,
apprendendosi, possa anzitutto misurare se
stessa: se cioè abbia la forza d’istituire una
tale indagine, se abbia occhi di tanto acume che
sappian vedere e, infine, se metta conto di
ricercare. Ché se, per esempio, si trattasse di
cose estranee, a che cercarle? ma se si tratta
di cose affini non solo v’è convenienza a
cercare ma v’è pure la possibilità di trovare.
II. – Allora, ponderi bene questo, anzitutto,
ogni anima che proprio essa, cioè, ha creato i
viventi tutti, spirando in loro la vita: e quei
viventi che nutre la terra e quelli che nutre il
mare e quelli che dimoran nell’aria e quelli che
dimoran nel cielo – astri divini – ; che essa ha
creato il sole; che essa ha creato pure questa
volta immensa di cielo; ed essa l’adornò; essa
la fa roteare in una determinata norma, pur
essendo in se stessa una natura differente dalle
cose che ordina e dalle cose che muove; inoltre,
quanto alle cose che vivifica, ella è
necessariamente più degna di onore di loro,
poiché, mentre tali cose van soggette al nascere
e al perire (sol che, rispettivamente, l’anima
le abbandoni o elargisca loro il vivere),
l’anima, per contro, esiste eternamente per il
semplice fatto che non abbandona mai se stessa.
Ora, quanto alla maniera della elargizione del
vivere sia al complesso del mondo sia ai singoli
esseri, se la renda chiara ella stessa come
segue.
Voglia ella però considerare ben bene la grande
Anima., ella che è, sì, un’altra anima, ma non è
già una piccola anima, dal momento che è stata
fatta degna di tale considerazione, appena sia
libera dall’inganno e dal fascino che sedusse le
rimanenti, in uno stato di tranquillità. Ma
pacato sia, per lei, non solamente il corpo che
la precinge e il flusso corporeo, ma ancora
tutto ciò che la circonda: in pace, la terra; in
pace, il mare e l’aria e il cielo stesso ch’è
più buono di lei.
E pensi che in questo cielo fermo da ogni parte,
dal di fuori, per così dire, l’anima si riversi
e vi scorra dentro e lo penetri da ogni parte e
lo illumini: come raggi di sole fanno
risplendere una nube oscura al semplice tocco
della loro luce e ne traggono una visione d’oro,
proprio così anche l’anima, entrata che sia nel
corpo del cielo, gli dà immediatamente vita, gli
dà l’immortalità, lo tiene desto mentre esso si
abbandona. Così esso, vòlto in un movimento
eterno ad opera dell’anima, che sapientemente lo
guida, divenne un vivente beato; anzi la sua
dignità il cielo la ricevette solo quando
l’anima si trapiantò in lui, giacché, prima che
l’anima entrasse, esso era un corpo morto, terra
ed acqua o, piuttosto, oscurità di materia e
non-essere e ciò che gli dèi hanno in odio, come
è detto non so dove. Pure, potrà divenire più
manifesta e più chiara la potenza dell’anima e
così anche il suo essere, qualora, uno, in
questo problema, rivolga i suoi pensieri alla
maniera ond’essa abbraccia e conduce, con la sua
volontà, il cielo.
Infatti, a questa intera sua massa, sin là
dov’essa si estende, l’anima si è abbandonata e
non c’è distanza – grande o piccola che sia – la
quale non sia animata; solo che, mentre la massa
corporea è sempre diversa a seconda che sia in
un punto o in un altro e un pezzo si trova qui e
lì se ne trova un altro e alcuni sono in
località contrapposte, altri son diversamente
separati tra loro, l’anima, per contro, non si
comporta in tal maniera e non si riduce in
frantumi per vivificare con un frammento di sé
ogni singola cosa; no, ma tutte le singole cose
vivono in virtù dell’anima intera ond’ella è
presente, tutta quanta, per ogni dove,
assimilata com’è al Padre che la generò, sotto
questo profilo ch’ella è una unità ed è
dappertutto. Così, pur diffuso com’è, e diverso
a seconda dei punti considerati, il cielo è
unitario per la potenza dell’anima; e pure in
grazia di questa è una divinità questo nostro
mondo. Ma anche il sole è un dio perché c’è
l’anima in lui e così pure si dica delle
rimanenti stelle; e noi, se pur siamo qualcosa,
lo siamo per questa ragione, poiché ‘la nostra
salma va gettata via più che se fosse dello
stabbio immondo’. Ma occorre che l’anima – la
quale fa si che gli dèi siano dèi – sia essa
stessa una divinità più veneranda di loro. Anche
l’anima nostra però è specificamente somigliante
agli dèi e appena tu la osservi senza le
aggiunte e la cogli nella sua purezza, tu
troverai quella stessa cosa veneranda che era
appunto l’Anima, più veneranda, dico, di tutto
ciò che sia corporeo. Poiché tutto è terra; ma
se pur fosse fuoco chi mai l’accenderebbe se non
l’Anima? Tant’è pure di ogni loro composto,
anche se tu vi aggiunga e acqua e aria. Ma se
tutto può essere degno che tu lo persegua solo
perché v’è l’anima in esso, perché si vuole
allora trascurare se stessi e perseguire un
altro? che se è l’anima ciò che apprezzi in
altrui, apprezza allora te stesso.
III. – Così è, in verità: venerabile e divina
cosa è l’anima; fiducioso oramai di poter
seguire Dio con tale mezzo, sali, su così buon
fondamento, sino a Lui: non avverrà mai che tu
sbalestri, lontano; né, del resto, ce ne son poi
molti di gradi intermedi ! Tocca pertanto quel
regno vicino all’anima, verso le altezze, il
quale è ben più divino di questa divina cosa
ch’è l’anima, quel regno dopo il quale e dal
quale l’anima sorge; poiché, pur essendo tal
cosa quale la nostra esposizione provò, essa è
sempre immagine dello spirito: come il pensiero
nel suo enunciarsi è immagine del pensiero
chiuso nell’anima, così, credetemi, anche
l’anima è un pensiero dello Spirito e,
precisamente, è quel complesso di attività e
quella vita che lo Spirito proietta per far
sussistere il diverso. Pensate al fuoco: esso è,
da un canto, il calore che se ne sta, con lui;
ma vi è pur, d’altro canto, il calore che esso
elargisce: li però, nello Spirito, occorre
concepire una attività non già scorrente ma
ferma in esso, mentre l'attività estrinseca
sussiste distinta. Orbene, giacché l’Anima
deriva dallo Spirito, ella è spirituale e nelle
riflessioni si insinua il suo spirito, e il suo
perfezionamento dipende sempre, novellamente, da
Lui che è come un padre il quale cominciò già a
nutrire la sua creatura, generata imperfetta nei
confronti di Lui.
Così, e l’esistere le deriva dallo Spirito, e
l’atto del suo pensare consiste nel fatto che lo
Spirito è contemplato dall’Anima; vogliam dire
che quando questa figge lo sguardo nello
Spirito, in realtà essa trae dal suo fondo e
proprio come cose di sua pertinenza tutto ciò
ch’ella pensa ed attua. E questo solo vuol esser
chiamato atto dell’anima: tutto ciò che è
spiritualizzato, tutto ciò che sorge dalla casa
dell’anima ! Le cose inferiori, per contro,
vengon da tutt’altra fonte e in un’anima
corrispondente costituiscono affezioni. Lo
Spirito, insomma, sempre più divinizza l’Anima
sia perché Egli è suo padre, sia perché le è
presente; poiché nulla si frappone tra loro fuor
che l’alterità, nel senso tuttavia che l’Anima è
il grado successivo ed è come il ricettacolo
mentre lo Spirito è forma. Bella è peraltro
finanche la materia dello Spirito poiché è di
specie spirituale ed è semplice.
Ma di qual natura sia lo Spirito, ciò si renderà
chiaro per questa stessa via: Egli, cioè, è da
più dell’Anima che ha pur tanto valore.
IV. – Ma si può pure vederlo da quanto segue: se
uno mira questo nostro mondo sensibile,
considerandone la grandezza e la bellezza e
l’ordine dell’eterno roteare e gli dèi che sono
in esso – gli uni visibili, gli altri invisibili
– e i dèmoni e gli animali e le piante tutte,
salga allora al suo archetipo e a quel reale che
è tanto più vero e contempli lassù tutte queste
cose esistenti in una natura spirituale ed
eterna presso di Lui, in una coscienza e in una
vita tutta loro propria e poi contempli il puro
Spirito loro dominatore e la Sapienza
instancabile e quella vita che è veramente tale
sotto Satur-nus, il dio che è sazietà e nus
(Spirito) !
Certo, Egli abbraccia in se stesso tutte le cose
immortali, ogni spirito, ogni dio, l’anima
intera, ferma, per l’eternità. A che poi
dovrebbe cercar di cambiare, se Egli è beato?
Dove mai si sognerebbe di trapassare, se ha
tutto in sé? Intanto, Egli non cerca neppure di
aumentare, essendo già perfettissimo. Perciò
ancora, tutto ch’è in Lui è perfetto, a che Egli
sia per ogni verso perfetto e non rechi in sé
nulla che non sia tale; poiché non ha nulla, in
se stesso, che non pensi: egli pensa, beninteso,
non già come uno che cerchi, ma come uno che
possegga. Così, la beatitudine non gli viene
d’accatto perché Egli è già tutto,
nell’eternità, è, intendo, la verace Eternità,
della quale il tempo che scorre sull’Anima e la
cinge è semplicemente una immagine, quel tempo
che lascia cadere alcune cose per andare
incontro a certe altre ! Poiché cose
perennemente nuove vorticano sull’Anima: una
volta Socrate, un’altra volta un cavallo, uno
qualunque degli esseri, insomma, senza
interruzione. Lo Spirito, invece, è tutto; Egli
serra in sé la universalità delle cose,
immobilmente, allo stesso posto; ed Egli ‘è’,
unicamente; e questo ‘è’ è sempre; il ‘sarà’ non
ci sarà mai; ed anche nell’‘allora’ Egli ‘è’,
poiché non v’è neppure il ‘passato’: non vi è
certo lì una qualche cosa che sia trascorsa, ma
tutto vi persiste immobile, perpetuamente,
poiché è identico ed ama, per così dire, che il
suo essere duri in quello stesso stato. Ma ogni
singolo suo essere è Spirito, è Ente e il loro
complesso è ‘onnispirito’ ed ‘onniessere’,
mentre lo Spirito rende esistente l’Essere nel
pensiero, l’Essere, da parte sua, per il fatto
stesso ch’è pensato, dà allo Spirito il pensare
e l’esistere. Pure, condizionamento del pensiero
è qualcosa di diverso che è a un tempo
condizionamento per l’essere. Così, per entrambi
a un tempo v’è, quale condizionamento, qualcosa
che è diverso dal pensiero e dall’essere. Certo
è che essi coesistono insieme e non si lasciano
l’un l’altro: ma questo uno che è a un tempo
Spirito ed Essere e Pensante e Pensato risulta
da una dualità: è Spirito in quanto pensa, è
Essere in quanto è pensato. Non potrebbe infatti
aver luogo il pensare se non ci fossero alterità
ed identità.
Ed ecco sorgere i principi fondamentali:
Spirito, Essere, Alterità, Identità. Ed è bene
includere altresì Moto e Quiete: Moto, in quanto
lo Spirito pensa; Quiete, poi, in vista della
identità. Occorre l’Alterità a che vi sia
Pensante e Pensato o, altrimenti, se elimini
l’Alterità, si avrà una unità silenziosa; e poi
anche pensato e pensato han da essere diversi
tra loro per la mutua distinzione – e l’Identità
poiché lo Spirito è uno con se stesso e tutti
gli esseri dello Spirito hanno qualcosa di
unitario in comune: ché la differenza tra loro è
nell’Alterità. La pluralità dei principî che
così risulta crea il numero e la quantità; e la
qualità poi è la loro caratteristica
individuale. Da questi termini, come da tanti
principî, scaturiscono le altre cose.
V. – Così, molteplice è questo Dio, il quale
sovrasta sull’Anima; a lei tocca dimorare tra le
cose terrene – ove mai vi si trovi congiunta –
solo quando non voglia distaccarsene. Fattasi
vicino, allora, e unificatasi, per così
esprimerci, con lui, ella cerca di conoscere chi
sia mai Colui che generò questo Dio, quel
Semplice, dico, quel pre-spirito, Colui che fu
causa a che questo Dio esistesse ed esistesse
molteplice, Colui, infine, che produsse il
numero. Perché, certo, il numero non è già
primo; così, pre-diade è l’uno e la diade invece
ha il secondo posto e sorgendo dall’unità tiene
quell’uno come suo limite, laddove questa unità
è illimitata di per se stessa; mentre, ove mai
sia fatta limitata, essa è di già numero. Ma
numero è come dire sostanza; e numero, poi, è
anche l’anima. Certo, né masse e neppure
grandezze costituiranno i primi principî; poiché
tali cose grossolane, che la sensazione crede
reali, sono posteriori. D’altronde, anche nei
semi, ciò che ha valore non è già l’elemento
umido ma ciò che non è visibile: ma questo è
numero e ragione formale. Ebbene, il numero, di
cui si parla lassù, e la diade sono ragioni
formali e spirito. Spieghiamoci: v’è, da un
canto, la diade indefinita concepita in virtù di
ciò che fa, per così dire, da fondamento e v’è,
d’altro canto, il numero sorgente da essa e
dall’unità; ogni numero è forma come se lo
Spirito venisse, per così dire, informato dalle
specie ideali che entrano in esso: esso è poi
informato in una maniera dall’Uno e in un’altra
maniera da se stesso: pensate al vedere che si
traduce in atto; poiché il pensiero è una
visione che vede: due cose che sono una sola.
VI. – In qual maniera e chi mai vede, dunque, lo
Spirito? Ché anzi, come esiste Egli,
addirittura, e come sorse da Colui sì da vederlo
persino? Attualmente, per certo, l’anima è tutta
compresa oramai della necessità che le realtà
dello Spirito dovevano esistere così come abbiam
detto; pure, ella desidera vivamente chiarire a
se stessa questo problema che fu già famoso
anche tra gli antichi pensatori: come, cioè,
dall’Uno, da un ‘uno’ così fatto come noi
asseriamo che è l’Uno, come venne all’esistenza
qualsiasi altra cosa – molteplicità o diade o
numero – ? O come mai, tutt’al contrario, Quegli
non perseverò in se stesso, ma fece scaturire
una così diffusa molteplicità quale si scorge
tra gli esseri, quella molteplicità di cui però
noi postuliamo che debba risalire a Lui?
Sia detto, dunque, quanto segue, dopo aver prima
invocato Dio stesso non già con la parola che
nacque, ma con l’anima, in una tensione di noi
stessi a Lui, nella preghiera, poiché solo in
questa maniera noi possiamo pregare: soli, Lui
solo ! Proprio così: occorre che il contemplante
– mentre Egli se ne sta in se stesso come
nell’interno di un tempio e persevera tranquillo
al di là di tutte le cose – volga il suo sguardo
alle statue rizzate già al di fuori o, meglio, a
quella statua che per prima apparve; la quale è
apparsa come ora diremo.
Tutto che si muove esige qualcosa che sia meta
al suo movimento; ma, non avendo Lui nessuna
meta, noi non possiamo ammettere che Egli si
muova; intanto, se qualche cosa nasce dopo di
Lui, necessariamente essa è nata solo in quanto
essa si volge eternamente verso di Lui. Sia
lontana però da noi, allorché parliamo di realtà
eterne, la nascita nel tempo! Applicando loro –
a parole soltanto beninteso – la nascita, per
assegnar loro causa ed ordinamento, dobbiamo
riconoscere che, di fatto, ciò che nasce di là,
nasce senza che ci sia stato alcun movimento di
Lui. Poiché, se qualcosa nascesse in séguito al
movimento di Lui, tale generato si leverebbe
terzo a partire da Lui, successivamente al
movimento e non sarebbe già secondo. Ora, se v’è
qualcosa – un secondo – dopo di Lui, esso deve
sussistere senza che il Primo si muova, senza
che esprima né un cenno né una volizione né, a
farla breve, un moto qualsiasi.
In qual modo, allora, e che cosa dobbiamo
pensare di Lui ch’è immobile? Splendore
tutt’intorno diffuso che, emana, sì, da Lui, ma
da Lui che se ne sta fermo, come, nel sole, lo
splendore che gli fa quasi un alone d’intorno:
splendore che si rigenera, eternamente, da Lui,
ch’è fermo. Del resto, tutti gli esseri, finché
durano, dal fondo della loro essenza emanano,
tutt’intorno a loro e al di fuori di loro,
necessaria, una certa qual esistenza, collegata
alla presenza della loro virtù operante ed è
come una figura degli archetipi donde germogliò:
il fuoco emana il suo interno calore; e la neve
non nel suo interno solamente racchiude il
freddo; ma una magnifica prova di quel che s’è
detto la danno tutte le sostanze odorose:
infatti, per tutta la loro durata, qualcosa vien
fuori da loro, tutt’intorno, sì che dalla loro
semplice esistenza il vicino trae godimento.
Inoltre, tutti quanti gli esseri, giunti ormai a
maturità, generano: ma ciò che è sempre
perfetto, sempre e in eterno genera; e genera,
s’intende, qualcosa d’inferiore al suo essere.
Che cosa dovremo dire, allora, di Colui che è
perfettissimo? Nulla può nascere da Lui se non
quanto vi è di più grande dopo di Lui; ma il più
grande, dopo di Lui, si è lo Spirito e gli tien
dietro come Secondo; vale a dire che lo Spirito
ha la visione di Lui ed ha bisogno di Lui,
unicamente, mentre Egli non ha affatto bisogno
dello Spirito. Ancora: ciò che viene generato da
Uno che supera lo Spirito, dev’essere Spirito e
lo Spirito alla sua volta supera tutte le cose
poiché le altre cose vengono dopo di Lui. Così
ancora, l’Anima è il Pensiero dello Spirito ed
è, in certo senso, la sua attività, proprio come
lo Spirito è pensiero ed attività che si
riferisce all'Uno.
Un po’ oscuro, a dir vero, è il pensiero
dell’Anima; poiché esso è, per così dire, solo
un simulacro dello Spirito e deve perciò volgere
lo guardo sullo Spirito; ma lo Spirito deve
parimenti volgere lo sguardo su Quello, affinché
sia Spirito. Lo vede, però, senza esserne
staccato, giacché Esso è immediatamente dopo di
Lui e tra loro, come pure tra Anima e Spirito,
non c’è nulla di mezzo. Ogni cosa, poi, brama il
suo Genitore e lo ama; lo ama specialmente
allora che siano soli il Genitore e il Generato;
ma quando il Genitore sia, per di più, il sommo
Bene, per necessità il Generato è stretto
talmente a Lui da esserne separato unicamente
per via di alterità.
VII. - Pure, noi chiamiamo lo Spirito figura di
Lui solo perché dobbiamo parlare un po’ più
chiaramente: in primo luogo c’è il fatto che
l’Essere generato è pure, in un certo senso, un
secondo ‘Genitore’ e serba molti tratti di Lui;
e, precisamente, la somiglianza con Lui è sul
tipo di quella che passa tra la luce e il sole.
Ma non è Spirito, Lui ! Com’è, dunque, che
genera lo Spirito? Gli è, ecco, che rivolgendosi
lo Spirito verso di Lui, contemplava; ma la
contemplazione è, di per se stessa, Spirito.
Infatti, ciò che comprende un oggetto esteriore
o è percezione sensibile o è pensiero: (lacuna:
passo insanabile) sensazione, linea e il resto
(lacuna); ma, il circolo è tale da essere
diviso; invece l’Uno, di cui parliamo, non è
divisibile. – Sì, ecco, sia ben fermo, qui, che
esso è unità, ma l’Uno è pure la potenza di
tutte le cose. Allora, le cose di cui esso è
potenza, proprio queste, dico, l’atto del
pensare, distaccandosi, per così esprimerci,
dalla semplice potenza, contempla. Altrimenti,
non vi sarebbe proprio Spirito. Poiché, anche di
per sé solo, l’Uno ha già – quasi avvertenza
intima del suo potere (del fatto cioè che può) –
una sua realtà.
Certo si è, comunque, che lo Spirito – anche Lui
da sé – determina a se medesimo il suo essere,
proprio in virtù del potere che deriva dall’Uno,
perché l’essere è, vorrei dire, una parte della
realtà che appartiene a Lui e da Lui si diparte,
e trae da Lui il suo vigore e porta il suo
essere a matura perfezione nella dipendenza e
nella derivazione da Lui.
Ma lo Spirito vede bene che da quella fonte in
Lui – che è, vorrei dire, un divisibile derivato
da un indivisibile – si riversa e il vivere e il
pensare e ogni altra cosa, per il fatto che
Egli, l’Uno, non è nulla di tutto questo.
Perciò, invero, tutte le cose derivano da Lui,
poiché Egli non è delimitato da forma alcuna.
Difatti, non è altro che unità, Lui. Se fosse
tutto, Egli entrerebbe tra gli enti. Per questo,
Egli non è nulla di quanto è nello Spirito, ma
solo da Lui derivan tutte le cose, le quali,
pertanto, sono altresì essenze; poiché sono già
determinate ed hanno, per così dire, una forma,
una per una: naturalmente, l’ente esige di non
esser contemplato, press’a poco, in seno
all’indeterminato ma, tutt’al contrario, vuol
essere saldamente piantato nei suoi confini e
nella sua stabilità; stabilità, la quale,
beninteso, per gli esseri dello Spirito è quella
definizione e quella forma ond’essi prendono
consistenza reale.
Sì, è proprio questa la stirpe donde questo
nostro Spirito, ben degno di questa sì alta
purezza, trasse il nascimento; né Egli poté
rampollare da altra fonte se non dal Primo
Principio; ma, una volta che nacque, Egli generò
ormai gli esseri tutti, simultaneamente al suo
essere: cioè le idee in tutta la loro bellezza,
e tutti gli dèi del suo mondo spirituale.
Ma, pregno com’è degli esseri che generò, e
ingoiatili poi di nuovo, per così dire, per
tenerli in sé e non farli precipitare nella
materia né allevare presso Rea – così i misteri
e i miti degli dèi fanno intendere velatamente,
narrando che Cronos, sapientissimo iddio, prima
che Zeus nascesse, serrava di nuovo in sé quel
che generava – per tutto questo, allora, lo
Spirito è colmo ed è ‘Spirito in sazietà’. In
séguito – narrano – Egli genera Zeus, il quale è
di già ‘Sazietà’ (figlio); tant’è vero che
l’Anima la genera lo Spirito, lo Spirito che è
già perfetto. E certo fu necessario che Lui,
maturo com’era, generasse e che una così grande
forza non restasse sterile; pure, non fu
ammissibile, neppure in questo caso, che il
generato fosse migliore, ma questo dovette
riuscire inferiore, essendo solamente un
simulacro di lui; parimenti, esso è
indeterminato in se stesso ma riceve la sua
determinazione e, per così dire, la sua
configurazione ideale dal suo Genitore.
Tuttavia, il prodotto dello Spirito è un certo
qual pensiero e la parte pensante dell’anima ne
avvera l’esistenza. Questa è colei che si muove
intorno allo Spirito, ed è luce di Spirito e
orma a Lui sospesa: per un verso, essa è
concentrata in Lui e così se ne ricolma e se lo
gode e partecipa di Lui e pensa; per un altro
verso, essa è in contatto con le cose a lei
successive o, meglio, genera, dal canto suo,
cose necessariamente inferiori all’Anima: di
esse si dovrà parlare più tardi; ma le cose
divine hanno qui il loro limite.
VIII. – E, per questo anche Platone insegna i
suoi tre gradi: Tutto – egli dice (e vuol
riferirsi a ciò che è primo) – è intorno al Re
del Tutto e il secondo è intorno al Secondo e il
terzo intorno al Terzo. Ma egli afferma ancora
che la causa ha un Padre, quella causa che – lo
dice lui stesso – è lo Spirito; creatore,
infatti, per lui è lo Spirito; Costui – egli
dice – crea l’Anima in quella sua coppa. E al
padre della causa – ch’è poi lo Spirito – egli
dà nome ‘il Bene’ e ‘Ciò che sta al di là dello
Spirito e al di là dell’Essere’ e in molti
luoghi chiama l’Essere e lo Spirito, Idea,
senz’altro. Ond’è che Platone è consapevole che
dal Bene deriva lo Spirito (Idea) e dallo
Spirito l’Anima; ed ecco che questi nostri
ragionamenti non sono una novità., né datan da
oggi ma sono stati fatti da gran tempo sia pure
non esplicitamente e i nostri ragionamenti
attuali si presentano solo come interpretazione
di quegli antichi con testi che ci garantiscono
che queste dottrine sono antiche, proprio
attraverso gli scritti di lui, di Platone. Così,
anche Parmenide toccò, prima di Platone la
dottrina enunciata, in quanto fece convergere
nell’identità Essere e Spirito e pose l’essere
non già nelle cose sensibili: ‘poiché è la
stessa cosa pensare ed essere’ – egli dice; e
poi continua dicendo che l’essere è immobile,
per quanto gli aggiunga il pensare ed elimina da
lui ogni movimento, a che esso perseveri
identico, e ricorre alla immagine di una massa
sferica, poiché esso abbraccia tutte le cose
strette insieme e poiché il suo pensiero non è
al di fuori ma nell’interno di esso. Usando però
nei suoi scritti il termine ‘Uno’, offre il
fianco alla critica, poiché questo suo ‘Uno’ si
trova ad essere, in definitiva, ‘molte cose’;
invece il Parmenide platonico parla con maggiore
esattezza critica, distinguendo tra loro l’Uno
primordiale, quello che è più propriamente
‘uno’, il secondo, ch’egli chiama ‘Uno-Molti’ e
il terzo che è ‘uno e molte cose’. Così, proprio
nel nostro senso, consente anche lui con la
dottrina delle tre nature.
IX. – Anassagora, poi, affermando uno Spirito
puro e non mescolato, fa parimenti semplice il
Primo e separato l’Uno; ma, quanto ad esattezza,
lascia a desiderare a causa della sua antichità.
Anche Eraclito seppe che l’Uno è eterno e
spirituale: poiché solo ciò che è corporeo
diviene eternamente e scorre. Per Empedocle,
poi, il Contrasto è separazione, mentre l'Amore
è l’Uno: così egli ancora lo fa incorporeo,
mentre gli elementi occupano il posto della
materia. Ma, più tardi, Aristotele diede, sì,
separato e spirituale, il Primo; dicendo, però,
che esso pensa se stesso, non lo fa più primo,
alla sua volta; ammettendo, inoltre, molti altri
esseri spirituali e, precisamente, tanti quante
sono le sfere nel cielo – affinché ciascuna
possa venir mossa da un singolo essere dello
Spirito – egli interpreta il contenuto del mondo
dello Spirito allontanandosi da Platone, poiché
ricorre al verosimile, non potendo più giungere
alla necessità apodittica.
Ci sarebbe sempre da dubitare, del resto, se vi
sia persino questa semplice verosimiglianza in
tale dottrina; poiché, per conto mio, è
piuttosto verosimile che tutte le sfere
rientrino in definitiva in un coordinamento
unitario mirando all’Uno e al Primo. Si potrebbe
pure chiedere se, per lui, la molteplicità degli
esseri dello Spirito derivi da una unità – dal
Primo – o se nel mondo dello Spirito vi debba
essere una pluralità di principi; se derivano da
uno solo, essi devono evidentemente, per legge
di analogia, serbare lo stesso rapporto che
serbano le sfere nell’ambito del sensibile, dove
cioè l’una cinge l’altra e una sola, quella
esteriore, le domina; sicché, lì ancora, il
Primo dovrebbe cingere tutto ed esisterà così il
mondo dello Spirito; e come quaggiù le sfere non
sono vuote ma la prima è colma di stelle e le
altre hanno anche stelle, così anche lassù i
motori devon serrare in loro stessi la
molteplicità e, precisamente, sarà questa
davvero la verità di lassù.
Se, per contro, ogni singolo essere dello
Spirito fosse un principio, allora i principi
dovrebbero essere qualcosa di contingente; e
perché allora se ne starebbero insieme e, per
giunta, in una concordia di pensieri volti a un
unico compito vale a dire alla sinfonia
dell’universo cielo? E come spiegare questa
uguaglianza numerica tra gli esseri dello
Spirito – che sarebbero a un tempo motori – e le
cose sensibili nell’interno del Cielo? Che senso
avrebbe una molteplicità di tal sorta dal
momento che, incorporei come sono, la materia
non saprebbe separarli?
Per concludere, tra gli antichi, coloro che, da
un canto, aderirono particolarmente alle
dottrine di Pitagora e dei suoi seguaci o del
suo predecessore Ferecide si tennero fermi a
questa essenza – l’Uno – ; solo che, d’altro
canto, gli uni ne elaborarono il concetto nei
loro scritti, gli altri lo presentarono appena
non già negli scritti ma nelle lezioni, non
scritte, delle loro adunanze: o lo fecero cadere
del tutto.
X. – Ma, quanto alla necessità di credere che
sia così – vale a dire che ‘Ciò che è al di là
dell’essere’ è l’Uno (come la nostra
argomentazione voleva dimostrare, nei limiti,
s’intende, in cui la dimostrazione riusciva
possibile in siffatta materia); che esiste,
successivamente, l’Essere e lo Spirito; e che al
terzo posto c’è, nella sua natura, l’Anima – ,
essa, oramai, è stata dimostrata. Ma, a quel
modo che in seno alla realtà esistono questi tre
gradi descritti, così pure si vuol credere che
in noi ancora essi s’avverano; io intendo non
già in noi considerati come esseri sensibili –
poiché questi tre gradi sono trascendenti – ma
in noi considerati al ‘di fuori’ del sensibile
(il ‘di fuori’, poi, va preso nello stesso senso
in cui anche quei gradi del reale son fuori
dell’universo cielo); tant’è pure nel monco
umano, nel senso in cui Platone adopera
l'espressione ‘l’Uomo interiore’.
In verità, anche l’anima nostra è una divina
cosa e rientra in una più alta natura, uguale
com’è, per sua essenza, all’Anima universale.
Datele poi lo spirito ed ella è perfetta. Lo
Spirito però è distinto: v’è quello che ragiona
e quello che somministra il ragionare.
Evidentemente, questo spirito ragionante che si
appartiene all’anima nostra non ha affatto
bisogno, relativamente al ragionare, di organo
corporeo, ma ha, il suo atto in piena purezza, a
che sia in grado di ragionare puramente, sì che
a farlo trascendente e immune da commistione
corporea e a porlo nella sfera più alta dello
Spirito, non c’è proprio da sbagliare. Infatti,
non dobbiamo cercare il posto in cui situarlo,
ma dobbiamo porlo fuori di ogni spazio: poiché
solo allora potremo cogliere ‘ciò che è in sé’,
ciò che è trascendente, ciò che è immateriale,
quando cioè lo Spirito sia solo e non rechi in
sé nulla da parte dell’essere corporeo. Ecco
perché fu detto, dell’universo, che il Dio
‘anche dal di fuori’ lo precinse di anima, per
additare così quella parte dell’Anima che
persevera in seno allo Spirito; di noi, invece,
Platone ha, pure enigmaticamente, usato le
espressioni: ‘sulla sommità’, ‘nel capo’.
Del resto, anche l’esortazione al ‘distacco’ non
va intesa in senso spaziale per l’anima – tale
separazione avviene già per virtù di natura – ma
solo nel senso ch’essa non s’inchini, magari con
l’immaginazione, e si faccia estranea, anzi, al
corpo; così taluno riuscisse a trarre in alto la
superstite figura dell’anima e recasse seco, nel
sublime, persino quanto di essa è come radicato
quaggiù, quello che è unicamente creatore e
modellatore del corporeo e s’affaccenda su di
questo!
XI. – Ora, se la parte ragionante dell’anima
attende a cose giuste e belle, e se il suo
riflettere ricerca se questa o quella azione sia
giusta o sia bella, ella deve necessariamente
avere, ben fermo, qualcosa di giusto donde, poi,
anche la riflessione sorga nell’anima;
altrimenti, come potrebbe riflettere? Anzi, se
l’anima in tali cose a volte riflette a volte
no, occorre che esista in noi proprio lo
spirito, il quale non calcoli sul giusto ma lo
serbi in sé, ininterrottamente; e allora deve
esistere altresì il principio dello spirito, una
sua causa, un dio insomma, senza che esso si
divida peraltro in noi; ché, anzi, Egli
persevera e se ne sta immobile; ma, d’altro
canto, Egli si fa contemplare nella pluralità,
in relazione a ogni singolo individuo che sia in
grado di accoglierlo, Spirito moltiplicato,
vorrei dire; proprio come il centro del cerchio
è per sé, eppure ogni raggio del cerchio ha un
punto in comune con esso e le linee vi
aggiungono il loro elemento individuale. Con
qualcosa del genere, in noi, anche noi siamo in
contatto e in unione con lui e gli siamo come
sospesi; ma ci fissiamo saldamente in lui sol
che convergiamo lassù.
XII. – Com’è, allora, che pur avendo un così
prezioso possesso, noi non solo non ce ne
accorgiamo ma per lo più lasciamo inerte tanta,
potenza e c’è persino chi giacque accidioso per
sempre? Eppure quei valori esistevano nella loro
potenzialità, sempre – Spirito e Ciò che,
anticipando lo Spirito, è eternamente in se
stesso – ; e in questo senso conviene anche
all’Anima il cosiddetto ‘moto perpetuo’, poiché
non tutto ciò che è nell'anima viene. Senz’altro
avvertito da noi, ma esso giunge al nostro ‘io’
cosciente solo allora che rientri nell’ambito
della sensibilità; se, per contro, una. singola
parte dell’anima non rende partecipe dello sua
attività la parte sensibile, questa attività,
non penetra allora sino all’anima intera.
Insomma, noi non abbiamo la vera conoscenza
appunto perché siamo ancora, in compagnia della
parte sensibile, siamo, intendo, non già una
parte di anima – quella più bassa – ma l’Anima
nella sua compiutezza. Si aggiunga poi che
ognuna delle facoltà, dell’anima, vivendo
sempre, deve parimenti, di per se stessa,
esercitare sempre il suo proprio compito; ma il
conoscere si avvera solo quando si abbiano un
oggetto che si partecipi, e una percezione che
l’avverta.
Concludendo, se deve esserci percezione di quei
valori della cui presenza abbiam or ora parlato,
noi dobbiamo rivolgere verso l’interno anche la
nostra facoltà percettiva e fare in modo ch’essa
orienti là tutta la sua attenzione. Come quando
uno, in attesa di udire una voce desiderata., si
distoglie da ogni altro rumore, affina il suo
orecchio a quella voce che, ove mai finalmente
s’appressi, vale per lui più di tutto ciò che
possa udirsi, così davvero, anche quaggiù
dobbiamo lasciar cadere ogni frastuono sensibile
– se non resti nei limiti della necessità – e
custodir pura e pronta la potenza percettiva
dell’anima a udire le voci superne.
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