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APPUNTI SUL MITHRACISMO

Julius Evola 1940  

 

Introduzione
In questi giorni è tornato qua e là l’interesse per la religione mitriaca; si è fatto mostra di una certa erudizione, ma si sono dette anche delle cose non esattissime. Occorre pertanto riesaminare il fenomeno della penetrazione del culto mitriaco nella coscienza religiosa dell’Impero. Ci preme anzitutto mettere in evidenza un punto, cui nessuno degli scrittori recenti ha fatto attenzione. Il mithracismo che viene assunto dal mondo romano è tutt’altro che la religione ariana pura di cui si vuol parlare. É passato attraverso il semitismo. Ciò è stato completamente provato dal più insigne studioso della religione mitriaca: Franz Cumont. Egli dice che sotto la dominazione degli Achemenidi, la parte orientale dell’Asia minore fu colonizzata dai Persiani. La nobiltà che possedeva il suolo apparteneva in Cappadocia, e anche nel Ponto, come in Armenia, alla nazione conquistatrice. Tale casta guerriera adorava Mithra; per il che Mithra rimase anche nel mondo latino, il dio tutelare degli eserciti, l’invincibile, adorato soprattutto dai soldati. Però la lingua adoperata dalle colonie iraniche dell’Asia Minore era un dialetto semitico, l’aramaico, come è dimostrato da scoperte d’epigrafi bilingui. Il nome stesso dei sacerdoti di quella zona (i magi) è una trascrizione di un plurale semitico. E difatti costoro non erano venuti direttamente da Persepoli o da Susa, ma dalla Mesopotamia "dove il loro culto era stato profondamente influenzato dalle speculazioni del potente clero che serviva i templi di Babilonia. La teologia sapiente dei Caldei s’impose al mazdeismo primitivo che era un insieme di tradizioni e di riti piuttosto che un corpo di dottrine. Le divinità delle due religioni furono identificate, le loro leggende ravvicinate e l’astrologia semitica, frutto di lunghe osservazioni scientifiche, venne a sovrapporsi ai miti naturalistici degli Iranici: Ahuro-Mazdâ fu assimilato a Bêl, Anahîta ad Ishtar e Mithra a Shamash, il dio solare... L’identificazione di Mithra con Shamash ad opera della astrologia caldea fu causa che nei misteri romani Mithra venisse comunemente chiamato Sol invictus, benché egli sia propriamente distinto dal Sole e che un simbolismo astronomico, astruso e complicato facesse parte dell’insegnamento rivelato agli iniziati e si manifestasse nelle composizioni artistiche che decorarono i templi".
Prima che i magi, i Semiti "introdussero in Occidente l’adorazione del Sole, principio di tutta la vita e di tutta la luce» (1).


Il dualismo Iranico
Nei misteri di Mithra c’è il dualismo della religione iranica, cioè l’antitesi tra il principio del Male e quello del Bene. La dottrina dei Magi deificò il primo (Angro Mainyush; più tardi Ahriman) e l’oppose come rivale al Dio supremo (Ahuro-Mazdâ, poi Ormuzd). Nel "credo» proclamato dal riformatore Zarathustro (Zoroastro) il Dio supremo da lui annunciato era appunto Ahuro Mazdâ (o Mazdâ Ahuro), il forte ed il santo cui si attribuiva la creazione del mondo. I suoi caratteri lo imparentano al dio indiano Varuna. Zarathustro gli contrapponeva il dio del male. Però il formidabile dualismo fra questa entità e la divinità celeste é percepibile nella religione iranica in una fase posteriore.

In questo periodo il cattivo principio rimase subordinato al buono e condannato alla finale disfatta.
Indubbiamente la lotta contro il Male introduceva nella dottrina zoroastrica un principio etico. In una Gâthâ leggiamo: "Come offerta, Zarathoustro apporta a Mazdâ la vita del proprio corpo, la raccolta dei buoni pensieri, azioni e parole...". E Dario I, nella grande iscrizione di Bisutun dichiara: "Se Ahuro-Mazdâ mi soccorre, come gli altri déi lo accordano, é perché io non praticai né l’inimicizia, né la menzogna, né la violenza, e neanche fece questo la mia famiglia". Un’altra iscrizione trovata a Naksh i Rustam, termina: "0 uomo! Che il comando di Ahuro-Mazdâ non ti appaia fastidioso: non abbandonare il diritto cammino; non peccare". L’imperatore Giuliano, in un breve accenno ai misteri di Mithra, ci fa sapere che il Dio imponeva dei comandamenti ai suoi iniziati, ricompensandoli in questo mondo e nell’altro della fedele esecuzione.
L’etica rudimentale che é alla base del parsismo e che fu perfezionata dal profeta e riformatore Zoroastro, la stessa tendenza monoteistica e lo spirito di misericordia che si scorgono nell’insegnamento di quest’ultimo, hanno sollevato la grossa questione degli influssi sulla religione giudaica, o viceversa. Non staremo ad esporre le diverse opinioni (2).

La cattività israelitica in Babilonia risale al periodo 586-538 a. C., quando regnavano gli Achemenidi, in massima parte mazdei (poi guadagnati dal zoroastrismo). Non si esclude qualche influsso; ma é dubbio che contaminasse seriamente le credenze di un popolo vivente di una intensa religiosità imperniata da gran tempo su di uno stretto monoteismo. Le somiglianze che noi troviamo fra la cosmologia del Genesi e quella dell’Avesta, devono dipendere da una fonte comune. E poi ci sono stati degli scambi in materia di angelologia. Ma i caratteri di Satana sono diversi da quelli di Ahriman: "Satana non è creatore (osserva A. Vincent) ma rimane creatura di Jahvé. Il solo punto di rassomiglianza è che il suo reame s’ingrandisce al punto da diventare il regno del Male in opposizione al regno del Bene".
Ammissibile che ci siano influssi della religione iranica sull’apocalittica giudaica. Ma, d’altra parte, ha ben osservato il Lagrange che l’idea del regno di Dio nell’Avesta deve provenire dal Giudaismo. Il preteso Salvatore o Messia (Saoshyant) non appare con questo carattere nei Gâthâ, ma molto tempo dopo, e cioè all’epoca sasanide (226-652 d. C.) (4).

Il Lagrange conclude (forse troppo rigorosamente nella tesi negativa, ma in base ad argomenti non trascurabili): "Si parla dell’antica religione naturista dei Persiani ? Non si pretende che essa abbia agito sul Giudaismo. Si tratta delle Gâthâ? Noi le consideriamo, se non come dipendenti dal Giudaismo, per lo meno come scaturite da un movimento parallelo a quello che ha dato origine alle apocalissi giudaiche, e che in ogni caso, non ha potuto ispirare al Giudaismo né la concezione del giudizio del mondo, né il dogma della resurrezione dei corpi, né il dualismo, né la credenza al Messia".

Nelle iscrizioni di Dario I, l’unico dio nominato é Ahuro-Mazdâ, che ha il carattere di divinità suprema. Artaserse Il, Mnemone (404-358), menziona a suo fianco Mithra, e lo fa nel solo testo persiano, quasi fosse una deità specificatamente persiana. Egli dice: " Con l’aiuto di Ahuro Mazdâ, Anâhita e Mithra. . . Io ho costruito questo Apadana" (5). Anche Artaserse IlI invoca Ahuro-Mazdâ e Mithra. Mithra era stato adorato con altre divinità indo-arie nel XIV sec. av. C. presso i Mitanni (sotto la forma: Mitraššil). Esso era essenzialmente una divinità testimone dei giuramenti e protettrice dei sovrani nelle battaglie. Nei Veda, il nome del dio ha il senso di "amico". Ma forse risulta da una sanscritizzazione superficiale di un nome straniero. Più che un’autentica divinità ariana, Mithra deve essere un dio arianizzato. Non ha infatti altro che un posto secondario nei libri sacri dell’Iran e dell’India aria (6). I Gâthâ non ne fanno parola. L’incorporazione successiva nelle sacre scritture zoroastriche fu forse dovuta all’influsso delle vetuste devozioni popolari delle regioni del Ponto e della Cappadocia (7).

L’attributo solare non toglie che Mithra debba distinguersi da Sûrya, dio del sole. D’altra parte, é stato rilevato che anche Apollo, pur non essendo Helios, viene di sovente associato alla immagine solare, benché abbia la vera natura di un dio arciere, profeta e musico. Però il Mithra dei misteri mediterranei é molto lontano dall’entità divina dei Veda e dell’Avesta. È ormai un creatore e redentore universale, è il già ricordato: Sol invictus. Se ne è già spiegata la ragione.
Mithra, divenuto personaggio solare, ha insensibilmente assunto (pur senza confondersi con lui) le mansioni che spettavano ad Ahuro-Mazdâ; cioè le sue qualità di combattente contro l’anti-Dio, il principio delle tenebre e del Male. Qui vogliamo soffermarci sulla considerazione che la base cultuale del supremo dio celeste scopre una tendenza monoteistica, o, per dirla con maggior proprietà, enoteistica. Vediamo in proposito alcune assimilazioni. Il primitivo iddio del cielo e del tuono adorato dalle tribù siriache e divenuto più tardi il grande Baal dei cieli (Ba’alshammin) deve essersi ravvicinato nell’età degli Achemenidi, all’Ahuro-Mazda dei Persiani. A tempo romano é considerato come Caelus, o Jupiter Caelestis. Egli é poi l’Altissimo, secondo l’appellativo che è applicato anche a Jahvé (Isaia, XIV, 13). I Latini tradussero l’attributo della somma deità siriaca con: Jupiter summus exsuperantissimus (8).

In territorio anatolico esisteva il Baal di Doliche (nella Commagene), adorato su di un’altura. Lo si rappresentava con la bipenne; e ciò insegnò che egli era il padrone della folgore che stronca gli alberi delle foreste. Anche questo "Signore dei cieli" fu, dopo le conquiste persiane, facilmente identificato con Ahuro-Mazdâ. I Romani permisero che si stabilissero anche nel cuore dell’Urbe i templi di Giove Dolicheno (9).

È interessante il rilievo del Cumont circa il fatto che in tutte le province lo Jupiter Dolichenus pose i suoi sacelli a fianco di quelli di Mithra e mantenne con lui rapporti strettissimi (10). Comunque nominata nei vari paesi, la suprema divinità celeste si rivelò unitaria al cuore degli uomini." Vediamo un significativo passo di Celso, il filosofo pagano del Il secolo: "Se qualcuno ti ordina di lodare il Sole o di lodare Athena con un bel peana, sta sicuro che in tal modo tu onori ancora di più il dio grande" (11). Il pensiero di Celso, come sappiamo da altri brani della sua opera, è che vi sia una divinità grandissima. Fra di essa e gli uomini esisterebbero delle serie di angeli, demoni ed eroi (12). Quale che sia il nome di tal dio grandissimo presso le diverse genti, l’essenziale è di conoscerlo (13). Gli dèi rispetto al gran dio sono come i governatori o satrapi delle province; s’indirizza l’omaggio al Sovrano rivolgendosi ai suoi rappresentanti (14).
Anche Apuleio parla di un "summus exsuperantissimusque divûm" non accennando specificatamente a Giove, ma alla divinità innominata che risiede nel più alto dei cieli e da cui dipendono tutte le potestates dell’universo (15). Questo dio sommo è “eterno"; anzi l’Eterno in tutta la portata del termine (anche il Sole è "eterno") (16). Il concetto astrologico del dominio fatale degli astri sul mondo attirò l’idea della onnipotenza del padrone dei cieli ed anche della sua eternità, dato l’infinito ripetersi negli anni delle rivoluzioni astrali.

Poiché gli astri influiscono sui popoli di tutte le regioni, si giunse pian piano a superare la primitiva cerchia delle deità nazionali. E il Sole fu riconosciuto "re e conduttore del mondo intero".
Il culto del sole "s’introdusse nel politeismo romano come un principio monarchico" (17) e sotto Aureliano primeggiò nella religione romana. Sulle monete di questo imperatore si trovano scritte di questo genere: "Sol dominus Imperil romani; Soli conservatori; Soli invicto". Possiamo ravvicinare a queste espressioni il "deo Soli invicto Mithrae" ed anche quella tal dedica dioclezianea che considera Mithra "fautore dell’Impero" (18).

Noi vediamo quindi che il processo di definizione enoteistica s’incentra nella manifestazione visibile e più splendente del sommo dio. Come conseguenza, Mithra, che, da divinità secondaria del cielo era passato, per influsso semitico, a divinità solare, fu anche lui un "dominus Imperil", fu anche lui "sommo", "onnipotente" ed "altissimo", ed ebbe a doppio titolo la qualifica d’invitto: per il suo soggiogamento della potenza del male e per il collegamento al Sole.
Ed ora ci accorgiamo che tutto, in ultima analisi, va verso l’unità: Mithra divenuto un’ipostasi del Sole (pur essendone apparentemente distinto e separatamente rappresentato); il Sole ritenuto manifestazione visibile del "Deus summus". La coscienza sempre più chiara di questa unicità divina presso i pagani dell’età imperiale è bene indicata da Lattanzio: "Nam et cum iurant, et cum optant, et cum gratias agunt, non Iovem . aut deos multos, sed deum nominant, adeo veritas, ipsa cogente natura, etiam ab invitis pectoribus erumpit".

Nel X Yahst dell’Avesta (occorre rammentare che non è la parte originaria zoroastrica), Mithra è l’implacabile avversario della menzogna, è il celeste “guerriero che offre il sacrifizio sul dorso del suo cavallo" e che "brandendo una clava dai cento nodi, dai cento angoli, si slancia in avanti e abbatte gli uomini", è il dio davanti a cui trema Angra Mayniush, "tremano tutti i cattivi del Varena" (lussuria). Il culto mazdeo associava Mithra alle varie astrazioni deificate: Veretraghna (la Vittoria, protettrice dei guerrieri), Sraosha (l’obbedienza, che protegge l’uomo che osserva la legge), Rashnu (la giustizia che difende il giusto e che giudica l’anima sul passaggio verso il Paradiso) (19). Tutto ciò doveva far capo, nell’evolversi del culto, alla configurazione di un salvatore del mondo.
Ha osservato molto bene R. Pettazzoni che una singolarità della storia religiosa iranica é di aver avuto due religioni di salvazione, le quali si svolsero sul fondo antico e comune della religione tradizionale: il zoroastrismo e il mitraismo. L’una che nacque con intenti soterici ad opera del suo fondatore; l’altra divenuta così per causa di un lento processo ed anche per influsso di circostanze esteriori (quando cioè la religione persiana, fuori dell’ambiente nazionale, approfondì le sue speranze escatologiche e le sue aspirazioni soteriologiche e si trasformò in un "mistero") (20). Mithra, spazialmente intermedio fra terra e cielo, fu anche mediatore fra l’umanità e la divinità, fu l’intercessore degli uomini in vita e la guida delle anime dopo la morte (21). Perciò ebbe il carattere di salvatore del genere umano (22).

I settatori di Mithra avevano il rispetto per l’autorità e si sentivano fra di loro fratelli. Si domanda il Cumont: "Intendevano essi l’amore del prossimo fino alla carità universale predicata dalla filosofia e dal Cristianesimo?". E risponde: "L’imperatore Giuliano, che era un mista devoto, si compiace di proporre un ideale simile ed è probabile che verso la fine del paganesimo i mitriasti s’elevassero a questa concezione del dovere; ma essi non ne furono gli autori. Pare che annettessero maggior valore alle qualità virili, che alla compassione o alla mansuetudine. La fraternità di questi iniziati, che presero il nome di soldati, ebbe senza dubbio delle affinità con il cameratismo di un reggimento, non esente da spirito di corpo, piuttosto che con l’amore del prossimo che ispira verso tutti le opere di misericordia" (22)

Altra caratteristica del mithracismo: l’obbligo della purezza, poiché Mithra è casto e santo (23). È un ideale catartico riaffermato in vista della lotta contro il male. Però non sembra a noi che si allontanasse troppo dalla costrizione fisica per ottenere maggiori possibilità di resistenza ed essere, per così dire, in stato di grazia. La purezza cristiana é invece il frutto di una totale rigenerazione dello spirito; é un "habitus" acquistato dalla matura coscienza dell’individuo.
Il culto di Mithra, che oramai possiamo a buon titolo qualificare come "ario-semitico", é penetrato nel mondo romano quando il vecchio politeismo era in crisi. A differenza delle altre religioni misteriche, non sembra che promettesse delle assimilazioni divine (24), ma offri un mediatore di salvazione. Questo mediatore però esigeva che l’individuo avesse una forza morale, che andava dall’orrore della menzogna e dal dispregio delle ricompense materiali (25) fino alla pratica rigorosa di una vita sensualmente pura.
I vari studiosi sono d’accordo che il Mithriacismo é di tutti i culti misterici orientali quello che offre il sistema più rigoroso; e tal sistema è collegato ad una elevazione morale, ciò che vuol dire, secondo noi, impegnare le forze dell’uomo, non immergersi passivamente nel divino.

Negli altri misteri la salvazione dovette essere: "concepita come una vita nuova che incomincia, come una morte ed una rinascita che si ottiene mercè l’assimilazione dell’uomo (iniziando) a un dio che é morto ed é rinato, assimilazione che, a sua volta è procurata mercé una serie di riti (iniziazione) intesi a riprodurre sulla persona dell’iniziando appunto la vicenda del dio...". Ma nei misteri di Mithra, il dio "conservava sempre la sua posizione trascendente di fronte all’uomo; e l’azione sua di salvatore consisteva soprattutto nell’aiutare, nell’assistere il mortale nelle sue aspirazioni verso l’al di là e nel guidarne finalmente l’anima alle dimore celesti. Non l’assimilazione al dio, ma la sua protezione, la sua amicizia e benevolenza ai fini della salvezza era l’ideale coltivato nei misteri; amicizia che riceveva il suo suggello visibile nella stretta di mano fra Mithra e il suo fedele..." (26).
Tutto ciò, rileviamo noi, sarebbe stato un passivo anziché un attivo nei riguardi della diffusione del mithriacismo, perché il più forte contenuto mistico delle altre religioni avrebbe fatto enormemente disertare dalla pratica mitriaca. La fortuna del mithriacismo non è neanche nella semplice rivelazione della lotta fra il Bene ed il Male, che sarebbe piaciuta in particolar modo all’elemento militare, ma sta nella possibilità della vittoria sul Male affidata ad uno sforzo dell’uomo aiutato dalla grazia rappresentata dalla mediazione del dio. La cappa di piombo che pesa sulla umanità dell’evo antico é il Fato. Cantava Manilio:

Fata regunt orbem, certa stant omnia lege.

E l’ignoto poeta di un carme epigrafico:

Credite mortales; astro nato nihil est sperabile datum.

Un astrologo designava gli uomini come “soldati della fatalità"(27). Ma la Lotta vittoriosa di Mithra faceva intuire una vittoria sul cattivo destino.

Bastava fortificare l’animo, raggiungere un elevato grado di purezza morale ed avere per amico ed alleato il dio che faceva risplendere il sole sulle tenebre e, in funzione dell’Altissimo (a volte, quasi confondendosi con lui), imponeva il Bene alla potenza del Male. Perciò Mithra era il salvatore per eccellenza.
L’antico mazdeismo aveva in pregio particolare la magia , che costituisce in sostanza il tentativo di vincere il cattivo destino, o, viceversa, di balestrare altrui con le forze del Male (anche in questo caso c’é una violazione dell’ordine naturale delle cose). La religione di Mithra trasformò il grossolano concetto primitivo affidando la variazione degli eventi alla forza d’animo dell’individuo ed alla sua fede nell’intervento del dio. In funzione di ciò le concezioni astrali dovettero necessariamente assumere un altro significato: vale a dire non immaginando l’uomo passivo all’azione del proprio astro, ma subordinando gli astri all’azione vittoriosa del Sole, di cui Mithra era l’ipostasi. E il Sole non era forse colui che si diceva guidasse il coro delle stelle e fosse l’arbitro del mondo intero? Ma oltre al Sole i mithriasti avevano divinizzato un’astrazione: il Tempo (lo Zrvan Akarana dell’Avesta). Trovandosi all’origine delle cose il Tempo guida gli eventi. Lo vediamo raffigurato con la testa leonina e con le spire di serpente avvolte intorno al suo corpo. Queste sono spiegate da Macrobio come il corso sinuoso del Sole (Saturn. 1,17). Dunque la religione mitriaca contemplava i capisaldi delle umane fortune; e il conoscerli già significava avere un’azione su di essi. Che l’idea della possibilità di sottrarsi al Fato non fosse ignota agli antichi, lo prova il libro di Giamblico sui "Misteri", che addita gli astri come autori dei destini ed, al tempo stesso, efficaci a sottrarci alla loro tirannia (28).
Ma da gran tempo Gesù aveva detto: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte; passa di qui a là, e passerà; e niente vi sarà impossibile" (Mt. XVIl, 20) (29).

È bene ribadire che il carattere della religione mitriaca non si comincia a percepire prima del Il sec. d. C. Abbiamo detto che l’inno a Mithra non appartiene al nucleo zoroastrico autentico dell’Avesta. Un inno del Rg-veda (I, 115, 5) ne fa un dio del cielo diurno. Ma non é in posizione primaria. Poi c’é qualche traccia nell’Asia Minore, di cui la più significativa é la figurazione sul mausoleo del re Antioco di Commagene (69-34 a. C.) a Nemrud Dagh (monte Tauro). Ivi Mithra é il dio solare amico del Sovrano. Questo carattere appare anche in una epigrafe del I sec. a. C. e in un passo di Strabone. Un altro passo di Strabone ed un lungo brano di Plutarco (De Iside, 46-4) sulla religione persiana non ci dicono gran che. Le più antiche dediche romane sono dell’epoca traianea o di poco prima. I primi veri accenni alla dottrina e alla liturgia mitriaca sono di S. Giustino (Apologia I, 66) e in Tertulliano (Adv. Marc. I, 13; De Cor. 15) (30). Ma in questo periodo non si può escludere che sugli sviluppi del "mistero" abbia influito anche qualche idea cristiana, sia pure perfezionando qualche premessa dell’antica religione asiatica.
Ad ogni modo, possiamo considerare il mithracismo come il più elevato "credo" del mondo pagano. Tante grandi cose avevano intuito i filosofi e i poeti (31). Ma erano speculazioni individuali, non una "religio". Nei misteri di Mithra c’é invece il risultato di esperienze collettive che faticosamente avevano riscoperto l’unità divina e, nel porsi il problema del Male, avevano intuito per qual via l’uomo dovesse armonizzarsi all’azione divina a fine di vincere, col suo aiuto, l’incombente destino.

 




1- Per tutto quanto precede, noi abbiamo seguito F. CUMONT, Les religions orientales dans le paganisme romain, IV ed., Paris, Geuthner, 1929, pp. 133-140 (Questa edizione dell’opera contiene le più recenti deduzioni dell’Aautore della classica trattazione sui Textes et monuments relatifs aux mystères de Mithra, 2 vol., Paris, 1894-1900; cfr. anche la monografia Mystères de Mithra, ed. 3a,. Paris, 1913). Sul mitracismo v. poi F. SAXL, Mithras, Berlin, 931; N. TURCHI, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1923, pp. 171-212; ID., Fontes Historiae Mysteriorum aevi Hellenistici, Roma, 1930, pp. 279 291; R. PETTAZZONI, I Misteri (Storia delle religioni, VIl), Bologna, Zanichelli, 1924, pp. 220-281.

2- Il lettore potrà giovarsi dell’abbondante letteratura citata in L. DENNEFELD. Le Judaisme biblique, Paris, Letouzey, 1925, voce estratta dal tomo VIlI del Dictionnaire de Théologie catholique diretto da E. AMANN, pp. 158-168 dell’estr. Si aggiungano alla bibliografia citata: J. MESSINA, Der Ursprung der Magier und die Zarathustrische Religion, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 1930; C. AUTRAN, Mithra, Zoroastre et la préhistoire aryenne du Christianisme, Paris, Payot, 1935. Un buon riassunto della questione è quello di A. VINCENT nel manuale: Initiation biblique di A. ROBERT e A. TRICOT, Paris, Desclée, 1939, pp. 645-653. Ma voglio poi ricordare il dotto capitolo, vigorosamente polemico, di M. J. LAGRANGE, in Le Judaïsme avant Jésus Christ, 2e ed., Paris, 1931, pp. 388-409.
Fisseremo soltanto alcuni punti: secondo deduzioni ancora incerte sembra che Zoroastro sia vissuto fra il X e il VI sec. a. C.; ma la penetrazione della sua dottrina nell’Iran occidentale richiese parecchi secoli (3), giacché dovette fare i conti con l’ostilità del primitivo mazdeismo; il quale poi, anche accogliendola, le alterò parecchio i connotati (abbiamo detto come sia stato esagerato il dualismo).

3- Vedi l’opera di R. PETTAZZONI, La religione di Zarathustra, Bologna, 1920 e la citata di p. MESSINA; e poi ora J. BIDEZ et F. CUMONT, Les Mages hellénisés, Paris, 1938. Bada che per discriminare le Gâthâ dell’Avesta, e cioè per capire il loro valore storico in rapporto allo stato in cui ci sono pervenute, è fondamentale lo studio di A. MEILLET, Trois conférences sur les Gâthâ de l’Avesta, Paris, 1925.

4- M. J. LAGRANGE, La religion de l’Iran, voce in Dictionnaire apologétique de la Foi catholique (dir. dal D’ALES), Il, Paris, 1911; ID., Le Judaïsme, cit., p. 404.

5- V. Scams, Mémoires de la mission archéologique de Perse, to. XXI: Inscriptions des Achéménides à Suse, Paris, 1939, p. 95; Cfr. LAGRANGE, Le Judaïsme cit., p. 391.

6- V. per tutto questo il cit. libro di AUTRAN, Mithra, etc., pp. 41 e 50. Sulla divinità dei Mitanni, v. G. CONTENAU, La civilisation des Hittites et des Mitanniens, Paris, Payot, 1934, p. 88; G. FURLANI, La religione degli Hittiti (Storia delle religioni. XIlI), Bologna, Zanichelli,
1936,’p. 50.

7- AUTRAN cit., p. 43. Bada che il FURLANI, ritiene (senza però esporne le prove) che Mitraššil con Uruwanassel (Varuna) e Indar (Indra) etc. siano divinità indiane passate nel pantheon mitannico.

8- Sull’appellativo vedere in "Archiv f. Religionswiss", IX, 1906, p. 236 e segg. Ha notato il Cumont, che i Giudei d’Elefantina s’indirizzavano al governatore persiano chiamando Jahvé “il dio del cielo". All’epoca romana si crede che i Giudei adorino il Summus Caelus, o Caeli numen (GIOVENALE, VI, 545; XIV, 96). Degna di nota è poi l’osservazione dello stesso Autore: “La distanza che separa l’umano dal divino fu sempre molto più larga presso i Semiti, e l’astrologia la sottolineò ancor più dandole un fondamento dottrinale ed un’apparenza scientifica".

9- Una epigrafe romana parla di lui come: Conservator totius poli et numen praestantissimum. Quindi è anche questo un Giove sommo e superantissimo. Ricordo che si è recentemente trovato il Dolocenum (o santuario di Giove Dolicheno) dell’Aventino, di fronte alla chiesa di S. Alessio (v. A. M. COLINI, in “Bollettino della Commissione Archeologica comunale di Roma», LXIlI, 1935, pp. 145-159).

10- Textes et Mon. relatifs aux Myst. de Mithra, I, p. 333). Io ricordo che sulla medesima altura aventinense, si è scoperto, a poca distanza del Dolocenum, l’importante Mitreo, presso la chiesa di S. Prisca.

11- Apud ORIGEN., Contra Cels., VIlI, 66.

12- C. Cels., VIl, 68 (p. 217).

13- C. Cels., V, 41 (p. 45).

14- C. Cels., VIlI, 35 (p. 250). Cfr. in proposito P. BATIFFOL, La Paix constantinienne et le Catholicisme, 4e éd., Paris, Lecoffre, 1929, pp. 190-191.

15- De mundo, 25 e 27. Altrove accenna all’unus et solus summus ille ulframundanus et incorporeus, etc. (De Platon, I, 11 e 12).

16- C.I.L., IlI, 10301 (Pannonia inf.). "Deo aeterno»; C.I.L., Il, 259 (Lusitania): "Soli aeterno", etc. Osserva il BATIFFOL, cit. (p. 193), che la più antica dedica al "deus Aeternus» è quella della moglie di un liberto d’Augusto in Numidia (C.I.L., VIlI, 14551), il che fa vedere non essere il "deus Aeternus" una espressione del sincretismo del tempo dei Severi. Il CUMONT invece (Relig. or., cit., p. 120), pensa che soltanto nel Il secolo l’epiteto entrò nell’uso rituale (ma gli è ignota la citata dedica). Egli poi ritiene che i preti siriaci abbiano insistito sulla nozione dell’eternità divina, contribuendo così (parallelamente al proselitismo giudaico) a dare autorità di dogma religioso a quello che era prima soltanto una speculazione metafisica (ibidem, p. 120; cfr. anche a p. 162; v. poi la nota 108 a p. 268). Il titolo di mar’olam che talvolta portano i Baal semitici può essere tradotto "Signore dell’universo", come "signore dell’eternità» (ibid., pp. 120-121 o nota 109 a p. 269).

17- BATIFFOL, La Paix constantinienne, cit., p. 69. (L’Autore offre un importante excursus sul
Sol invictus). Anche dapprima, sotto Settimio Severo, c’è sulle monete la figura del Sole.

18- C.I.L., IlI, 4413 (dedica di tempio a Carnuntum, sul Danubio).

19- TURCHI, Religioni misteriosofiche, cit., pp. 179-180.

20- PETTAZZONI, I Misteri, cit., pp. 258-259.

21- PETTAZZONI, I Misteri, cit., pp. 259-260.

22- Mithra salutaris (C.I.L., XIV, 3568). Cfr. PETTAZZONI, cit., p. 259.

22- Religioni orientali, p. 145.

23- Nei Textes et mon., vedere gli appellativi di Sanctus (tomo Il, n. 45, 60, 71, 156, 228,), Incorruptus (ibid., n. 139), Salutaris (ibid., n. 65, 143).

24- Nelle figurazioni del banchetto sacro (vedi ad esempio il rilievo di Konijza) il PETTAZZONI, cit. (p. 268) non scorge vere assimilazioni, ma prototipi di riti iniziatici.

25- Vedi il rito della Corona rinunziata dall’iniziato al grado di miles, che afferma essere Mithra la sua corona ed a lui solo (l’invitto) spettare i segni della vittoria (TERTULLIANO, De Corona, 15).

26- I due brani citati, v. in PETTAZZONI, I Misteri, pp. 260-261.

27- È una frase dell’astrologo Vezio Valente (V, 2, p. 30, 10 ed. Kroll; cfr. VIl, 3, p. 271, 28).

28- De MysterIls, VIlI, 8. Giamblico é filosofo del IV sec.

29- V. anche Mt. XXI, 22; Mc. XI, 24; Lc. XI, 9; Giov. XIV, 13 (“qualunque cosa domanderete al Padre nel nome mio, la farò, affinché sia glorificato il Padre nel Figlio"), XVI, 23-24.

30- La liturgia mitriaca che credette di identificare A. Dieterich in un papiro magico, non é né un brano liturgico, né un documento mitriaco.

31- Un bel capitolo su la religione dei poeti e dei filosofi greci ha G. FOOT-MOORE, Storia delle religioni, Bari, Laterza,1939, pp. 533-602.

 

 

 

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