Il documento che segue è opera d'ingegno di A. Pagliaro e già apparso nel 1929 nella la rivista di "Studi e Materiali di Storia delle Religioni". Il Pagliaro indaga sulla dottrina aria del Fuoco: il Fuoco come divinità, come elemento essenziale di ogni rito, come culto vero e proprio. come forma simbolica dello spirito. Il tuo browser non supporta il tag embed per questo motivo non senti alcuna musica
I Fuochi dello Zoroastrismo Nel mondo religioso indiano e iranico il fuoco come divinità e come elemento essenziale del rito ha avuto parte grandissima, peperò, naturalmente, pur ammettendosi, come è ovvio, che si tratti di un patrimonio ereditato dal periodo della comunità indo-iranica, non si deve disconoscere che molto diversa ne fu la fortuna presso le due stirpi; soprattutto per il fatto che l'antico mondo religioso dell'Iran fu ad un certo punto investito, rovesciato e rinnovato dalla riforma religiosa e sociale di Zarathustra. Johannes Hertel, che alla dottrina aria del fuoco ha dedicato interessanti e fruttuose - se pure in molti punti discutibili - ricerche, ha tracciato le linee della dottrina del fuoco nell'Avesta mettendo bene in rilievo come in queste concezioni il fuoco appaia elemento motore, principio vitale di tutte le cose e gli esseri del creato; ma non mi pare che egli sia nel giusto quando scopre un dualismo fra un fuoco ahurico, chiaro, caldo, vivificatore, dispensatore di forza e di bene e un fuoco daivico, da cui sarebbe permeata tutta la creazione dello spirito malvagio, impuro, fosco, distruttore. La contrapposizione esiste fra un mondo luminoso e il mondo delle tenebre, ma per quanto concerne il fuoco non è da dire che esso sia partecipe pure a quest'ultimo, poiché contrapposizioni del tipo «hvãφra» "luogo del fuoco buono" e «duzãφra» "luogo del fuoco cattivo" sono puramente dialettiche e formali. Il fuoco è nell'Avesta soltanto un principio vitale, benefico e divino e come tale dura in tutta la tradizione religiosa mazdaica e viene ancora oggi, "signore del mondo spirituale", tenuto vivo dai Parsi nei loro templi. L'immagine che del culto del fuoco si ha in Erodoto e in altre fonti greche può trarre veramente in inganno e far pensare che si tratti del culto di un elemento naturale. Ma in realtà Erodoto, mentre ha bene individuato la differenza fra la concezione iranica della divinità e quella greca nel fatto che la prima è scevra del carattere antropomorfo che domina nella seconda, appunto perché greco non riuscì a intendere il contenuto astratto, simbolico che rimase nell'intimo della religione mazdaica anche quando la pura dottrina zarathustriana s'impregnò di naturismo. Non è quindi necessario, per conciliare i dati forniti da Erodoto con l'immagine data dall'Avesta, ammettere, come fa taluno, che la notizia erodotea si riferisca alla religione del popolo presso il quale avrebbero avuto culto gli elementi naturali; ciò non è possibile se si pensa che presso gli Iraniani non c'è culto senza l'intervento del sacerdote; si tratta ben più semplicemente dell'interpretazione, necessariamente semplicistica, data da un greco ai riti della religione iranica. Il fuoco, per il fatto stesso che apparteneva all'apparato teologico-rituale dell'antica religione che egli combatteva, non poteva essere accolto da Zarathustra nel suo sistema, senza essere prima liberato dal naturismo delle manifestazioni concrete. Nelle Gata, infatti, che riflettono schiettamente il pensiero del riformatore, si parla del fuoco solo in due sensi assolutamente nuovi e caratteristici. In senso escatologico, con riferimento alla corrente di metallo fuso attraverso cui l'umanità deve passare e dove il peccatore trova le più terribili pene mentre l'uomo pio vi proverà la gioia di un tepido bagno; ad esempio, Yasna 51.9: «Della ricompensa che tu prepari ai due partiti mediante il tuo rosso fuoco, o Mazda, mediante il metallo fuso, poni negli animi il contrassegno: danno per il seguace della Menzogna, bene per il seguace della Legge». Ma pure in questo senso escatologico il Fuoco è associato con lo Spirito. Yasna 3I.3: «Ciò che tu, come ricompensa mediante lo Spirito e il Fuoco prepari per i due partiti - e lo hai insegnato nella legge - quel che è la sorte assegnata al fedele, annunziaci, o Mazda, affinché si sappia mediante la lingua della tua bocca e io possa convincere tutti i viventi». E altrove (Yasna 46.7) il profeta domanda: «Chi, o Mazda, mi sarà dato come protettore, quando il seguace della Menzogna si accingerà a farmi violenza, all'infuori del tuo Fuoco e del tuo Spirito, mediante la cui azione si realizzerà il regno della Legge? Di questa nuova fammi partecipe». Yasna 43.9: «Come santo io allora ti riconobbi, o Mazda Ahura, quando il Buono spirito venne da me. Alla sua domanda: Per chi tu ti deciderai? Io voglio per quanto posso (risposi) ricordarmi della Legge in ogni offerta d'omaggio al tuo Fuoco». Osserva giustamente il Hertel, che in quest'ultima strofe è espressa la condanna dei sacrifici cruenti e la sostituzione di essi con un'offerta ideale d'omaggio al Fuoco di Ahura Mazda. Ma che cos' è questo fuoco delle Gata se non la stessa divina essenza, immateriale come lo spirito al quale viene associato. É avvenuto, dunque, che Zarathustra ha idealizzato e trasformato in simbolo della potenza divina la natura del fuoco. Se si confronta la sua concezione con quella che domina nei Veda, appare assai probabile l'ipotesi che già nel periodo della comunità indo-iranica si avesse l'idea di un fuoco celeste che al tempo stesso brucia nel cuore dell'uomo e conferisce capacità spirituale, volontà, forza e potenza. In tal periodo certamente - e il risorgere di questi elementi in una fase più tarda della religione iranica (v. sotto) ne è prova sicura - questa concezione doveva già essere avvolta in un intrico di manifestazioni, anche antropomorfe (Agni), e di complicazioni rituali. Zarathustra ha respinto quest'apparato e ha conservato il simbolo. Non diversamente egli ha operato, ad esempio, con gli Amesha Spenta. Dalla bella e vasta indagine che il Geiger ha dedicato all'origine di queste divinità risultano innegabili l'antica parentela e la comune origine di esse con gli Aditya vedici; ma anche di questi Zarathustra ha rinnegato tutti gli attributi naturalistici per presentarli nella forma di puri concetti astratti. Salvo che poi, illanguiditasi l'eco della voce del riformatore, e venuta la sua dottrina in contatto con un ambiente in cui i tratti essenziali dell'antica religione erano tenacemente custoditi, le astrazioni tornano a concretizzarsi, riassumendo le linee caratteristiche della loro origine. Lo stesso si osserva nella dottrina del Fuoco quale appare nell'Avesta recente, vale a dire nelle parti che riflettono il nuovo sviluppo della dottrina zarathustriana. Atar è nell'Avesta recente il primo degli Yazata ed è celebrato come figlio di Ahura Mazda. É questo certamente uno sviluppo dello stato di stretto legame fra Fuoco e Spirito divino che abbiamo osservato nelle Gata. La concezione di un fuoco immateriale, identico con l'attività spirituale, appare ancora qualche volta - ad es. in Yasna 36.1 e seguenti: «Con l'azione del Fuoco noi qui ci avviciniamo a te per prima cosa, o Mazda Ahura, per mezzo del tuo santissimo Spirito a te, che pure prepari dolore a chi lo vuoi preparare. Apportatore di letizia, vieni a noi, o Atar, figlio di Ahura Mazda, con la più alta letizia. Tu sei bene il Fuoco d'Ahura Mazda, tu sei il suo santissimo Spirito...» -; ma ormai essa ha subito un certo raccostamento alla realtà materiale per cui nell'ambito della concezione astratta sorgono le linee di una concretizzazione che si manifesta con la specificazione di vari fuochi. Prevale dunque l'elemento sacrale. Yasna 17.II: «Te, Atar, figlio di Ahura Mazda, noi veneriamo; il fuoco Burzisavah noi veneriamo; il fuoco Vohufryana noi veneriamo; il fuoco Urvazista noi veneriamo; il fuoco Vazista noi veneriamo; il fuoco Spanista noi veneriamo... Ad Atar, signore di tutte le cose, creato da Mazda, figlio di Ahura Mazda, seguace della Legge, dispensatore della Legge, noi sacrifichiamo e a tutti i singoli fuochi». I nomi dei singoli fuochi hanno ciascuno un significato e cioè Burzisavah "il cui beneficio è in alto", Vohufryana "quello cui è cara la fiamma", Urvazista "quello che dà la gioia maggiore", Vazista "il più benefico" e Spanista "il più santo". Ma si tratta ormai veramente di cinque specie diverse di fuochi che hanno attributi e dominio speciali. La fonte attraverso cui conosciamo più da vicino la loro natura è il Bundahisn, il libro della «Creazione», opera pahlavica di tarda redazione, ma che contiene tradizioni notevolmente antiche. Di quest'opera esistono due redazioni, una indiana e una iranica, il cosiddetto Grande Budahisn. Per quanto concerne i Fuochi sacri le due redazioni non presentano differenze notevoli; traduciamo dalla seconda. Gr. Budahisn «Sulla natura dei Fuochi così è detto nei testi della religione: cinque fuochi furono creati, e cioè il fuoco Burzisav, il fuoco Vohufryan, il fuoco Urvazist, il fuoco Vazist e il fuoco Spanist. Il fuoco Burzisav è quello che brucia dinanzi ad Ahura Mazda e si alimenta da sé. Il fuoco Vohufryan, cioè il dispensatore di bene, è quello che si trova nel corpo degli uomini e del bestiame. Il fuoco Urvazist è quello delle piante. Il fuoco Vazist è quello che nelle nuvole è in lotta con Spanjayra. Il fuoco Spanist, cioè lo splendido, è quello che nel mondo è adoperato nelle opere. Di questi cinque fuochi uno consuma tutte e due le sostanze nutritive come quello che nel corpo degli uomini è posto nello stomaco ed ha il compito di digerire cibo e acqua, uno si nutre solo di un alimento come quello che è nelle piante che vivono e crescono solo di acqua, uno consuma cibo e non consuma acqua come quello che nel mondo serve per le opere, uno non consuma né acqua né cibo come il Vazist e il fuoco Burzisav che è nella terra nei monti e in ogni cosa. I tre Fuochi, cioè Farnbagh, Gušnasp e BurzÏn Mihr, furono sin dal principio creati da Ormazd come tre splendori per la protezione del mondo ed essi in quest'essenza di splendori sono eterni nel mondo. Durante il regno di Tahmuras, quando il genere umano sul dorso della vacca Sarsok emigrò da Khvaniras nelle altre parti della terra, la notte il mare diventò tempestoso per il vento e quando l'acqua investì i bracieri contenenti il fuoco che erano posti sul dorso della vacca, essi caddero con il fuoco nell'acqua. Ma tutti e tre i Fuochi, come tre splendori, sorsero al posto dei bracieri sul dorso della vacca e diedero luce agli uomini fintanto che non ebbero attraversato il mare. Yim durante il regno portò sempre a termine le sue imprese con l'aiuto di questi tre Fuochi e fu egli a collocare il fuoco Farnbagh in un tempio sul monte Khvarrehomand in Khvarizm. Quando Yim venne ucciso il fuoco Farnbagh fece sì che lo splendore regale si salvasse dalla mano di Dahak. Al tempo della propagazione della fede questo fuoco dallo Kavarizm, fu trasportato sul monte Rosn nella zona di confine come ancora ivi si trova. Il fuoco Gušnasp protesse pure l'umanità sino al regno di Kay Khusrav. Quando Kay Khusrav distrusse tutti i vecchi idoli, esso posava sopra il collo del suo cavallo, scacciava le tenebre e faceva luce finché i vecchi idoli non furono tutti distrutti. Allora sull'Asnavant fu fondato il tempio. Viene chiamato Gušnasp, perché esso si posava sul collo del cavallo. Il fuoco BurzÏn Mihr allo stesso modo ebbe in protezione il genere umano sino al regno di Vistâsp. Quando Zarathustra dall'anima immortale bandì la religione e la diffuse e la fece affermare, tanto che Vistâsp e i suoi furono guadagnati a Dio, esso compì molte cose miracolosamente e Vistâsp lo fece collocare in un tempio sul monte Revand, che è pure chiamato Post-i Vi tâsp (spalle di Vistâsp) . Questi tre fuochi e il fuoco Vahrâm sono il germe di tutti i fuochi terreni, ed a questi il loro splendore si partecipa alla stessa maniera che per il corpo dell'uomo quando esso è nel grembo materno l'anima del mondo spirituale vi prende sede e ne è il principio motore finché esso è in vita e poi, quando il corpo muore, mentre questo si mescola con la terra, l’anima ritorna nel mondo spirituale». Dopo alcune considerazioni di natura esegetica, si aggiunge che ognuno dei tre Fuochi è consacrato ad una classe sociale: «Il fuoco Farnbagh, che è il re dei fuochi, è il sacerdote; il fuoco Gušnasp è il guerriero e BurzÏn Mihr è l'agricoltore». Il problema che ora s'affaccia ha un duplice aspetto: qual è l'origine dei cinque fuochi sacri di cui è parola nell'Avesta recente e quale quella dei tre fuochi sacri descritti dal Bundahisn? Certamente gli uni e gli altri rappresentano il risorgere in nuove forme dell'antica tradizione religiosa indo-iranica, che al fuoco e alle sue manifestazioni dava parte grandissima. Interessante è notare che nelle Gata, espressione del Zoroastrismo della prima maniera, il sacerdote è chiamato airyaman "compagno" mentre nell'Avesta recente è avaurvan, avravan: nonostante qualche difficoltà di ordine fonetico non può cadere alcun dubbio sull'identità di questo nome con ant. ind. atharvan "sacerdote": si riconnettono l'uno e l'altro ad Atar "fuoco" e significano originariamente "signore del Fuoco". Qui, come anche nella denominazione delle altre due caste dei guerrieri e degli agricoltori, l'Avesta recente è più fedele che il gathico al vocabolario della tradizione indo-iranica ; gli è che, com'è noto, il mondo riflesso nell'Avesta recente è assai più vicino che non il gathico al mondo indiano. Nella religione vedica il fuoco ha la sua personificazione divina in Agni, figura certo proveniente dall'antico patrimonioario-europeo. Fra i molti tratti caratteristici che lo distinguono dalle altre divinità vediche - notevole è soprattutto l'indole scarsamente antropomorfa - c'è che ad esso vengono attribuite molteplici forme e nascite. Gli si attribuiscono innanzi tutto due nascite, una terrena e una celeste: è "quello dalle due nascite" (dvijanman) e la sua azione è duplice, presso gli dèi e presso gli uomini (Rgv. I, 127, 7, II, 195, 2, III, 2, 2, etc.) E a lui nella sua espressione celeste e nella sua espressione terrena si rivolge la preghiera del sacerdote. (Rgv. II, 9, 3:) «Noi ti celebriamo, o Agni, nella tua più alta sede; con inni ti celebriamo nelle più basse dimore». Ma altrove e frequente ricorre per le nascite di Agni il numero di tre; ma pare però che non si tratti di un numero, per dir così, canonico e le nascite indicate nei vari passi non sono identiche e non ricorrono nello stesso ordine. (Rgv. X. 45,I): «Agni per la prima volta è nato nel cielo, per la seconda da noi come Jâtaveda ( conoscitore degli esseri), la terza volta nelle acque». (Rgv .II, 95, 35) : «Esse (sc. le mani) tre origini custodiscono di lui, una in mare, una cielo e nelle acque». Altrove l'enumerazione delle nascite è alquanto più lunga. (Rgv.II.I.I): «Agni, il tuo splendore che è nel cielo e nella terra, che è nelle piante e nelle acque, o degno di preghiera...;». E nell'Atharvaveda (Rgv. XII.I,19 e seguenti) l'enumerazione è completa: «Fuoco è nella terra, nelle piante, fuoco contengono le acque, fuoco è nelle rocce, fuoco è dentro gli uomini; fuochi sono nelle vacche e nei cavalli; fuoco brucia nel cielo; del dio Fuoco è la vasta atmosfera; fuoco accendono i mortali, il veicolo del sacrificio, quello cui il grasso è caro ...». Per quanto dunque la natura e l'origine dei vani Fuochi non appaiano qui canonizzate, rimangono pur ferme la duplice natura divina e terrena e inoltre la tendenza a dare ad esso tre origini, forse anche a motivo della nota predilezione per il numero tre. Nell'Avesta ora appunto troviamo meglio determinati questi vari aspetti del fuoco, ma non è difficile notare che la concezione iranica e la concezione indiana hanno le medesime radici. Il fuoco ha una manifestazione divina, quello che brucia dinanzi ad Ahura Mazda, ed ha una manifestazione terrena, quello creato dagli uomini per i bisogni della vita quotidiana. A questi due fuochi se ne aggiungono altri tre, quello che è nelle piante, quello che è nelle nuvole cioè la folgore, e quello che è principio di vita negli uomini e negli animali. Questi tre fuochi sono pur essi noti al Rgveda, come s'è visto; con la sola differenza che anziché di fuoco nelle piante si parla di fuoco nelle acque. Come ha ben visto l'Oldenberg, nel fuoco che sorge dalle acque non si deve vedere la folgore che scaturisce dalla nuvola, bensì appunto il fuoco che è nelle piante poiché acque e piante già nel periodo della comunità indo-iranica sono in stretta connessione: il legno da cui scaturisce la fiamma è stato alimentato dall'acqua e quindi in questa deve essere latente la forza che poi da quello si sprigiona in fiamma. In conclusione nel Yazata dell'Avesta noi dobbiamo riconoscere le linee della divinità indiana. Ha questa certo qualche caratteristica sua come l'identità con il sole, ma comune alle due divinità rimangono questa molteplicità di origini così sicuramente documentata e la mancanza nell'una e nell'altra dei tratti antropomorfi che risultano invece spiccatissimi in altre divinità, aventi pure comune origine, come vedremo. Delle antichissime leggende mitologiche che riaffiorano nell'Avesta nessuna è connessa con Atar. Il contenuto simbolico del Fuoco, non rinnegato da Zarathustra, continua ad essere vivamente sentito anche nello sviluppo seriore del Zoroastrismo e ciò ha certo impedito il formarsi di miti antropomorfi intorno ad esso, analogamente a quello che era avvenuto nell'assai più antica religione vedica. Accanto ai cinque Fuochi il Bundahisn ce ne fa conoscere altri tre; e sono appunto questi che hanno avuto la maggiore fortuna nel periodo sasanidico quando l'antica tradizione religiosa con il risorgere del sentimento nazionale iranico ritorna a nuova vita. Il mito dell'umanità, che insieme con i fuochi sacri si trasferisce dalla zona centrale della terra negli altri continenti sul dorso della vacca Sarsok, è ignoto all'Avesta e le sue origini permangono assai oscure. La concezione della terra divisa in sette zone (karsvar) hanno gli Irani comune con gli Indiani presso i quali, com'è noto, la terra si compone di una zona mediana (Jambudvipa) intorno alla quale sono sei altre zone separate l'una l'altra dal mare. Ma della migrazione dei popoli sul dorso della vacca non c'è traccia nelle concezioni cosmologiche indiane. Evidentemente si tratta qui di un mito sorto sotto altre influenze e, per quanto sia impossibile provare un qualsiasi rapporto di dipendenza, non si può fare a meno di collegarlo con quello d'Europa trasportata per il mare da Giove diventato per amore ceirohÞh. Comunque sia questi tre Fuochi sono derivazioni anch'essi del più schietto patrimonio ario, in quanto si collegano con la figura che divenne nel corso dei secoli la più tipica e la più importante del pantheon iranico, cioè Mithra. Il nome Farnabagh significa il ""dio della gloria". Generalmente s'intende il "fuoco della gloria divina", ma a ciò si oppone il tipo del composto. Dovrebbe esso suonare bagafarn, che come nome proprio ricorre difatti nella forma Bafarrak in sigilli dell'età sasanidica e che i greci tradussero con Megafernhx. Fama è la continuazione dell'avestico cvarenah che designa lo splendore, e in particolare lo splendore che si accompagna con la dignità reale. Mithra fra gli dèi ne è maggiormente dotato. (Yt. 10.67): «Mithra dagli ampi pascoli noi celebriamo... l'alacre che sul campo creato dallo spirito, dalle alte ruote, vola dalla terra Arzahi nella splendida terra Khvaniratha accompagnato dallo Splendore mazdaico e dalla vittoria ahurica.». (Yt. 10.141): «Egli ha presso sé un'arma vittoriosa, ben foggiata, egli è vigilante nel buio, infallibile, il più forte fra i forti, il più valoroso fra i valorosi, egli è il più saggio degli dèi, accompagnato dallo Splendore...». Secondo la leggenda raccolta nel 15° Yasna consacrato allo cvarenah, egli fu il primo a ricevere da Yima lo Splendore regale. (Yt. 19.35): «Per la prima volta si dileguò lo Splendore dal re Yima, andò via lo Splendore dal re Yima, figlio di Vivahvant con la figura di un'aquila. Questo Splendore afferrò Mithra dai vasti campi, dalle orecchie che odono, dalle mille energie. Mithra, il signore di tutte le terre, noi celebriamo che Ahura Mazda creò come il più splendido degli esseri spirituali». Il nome del secondo fuoco sacro è tramandato nel Bundahisn nella forma Gušnasp, ma è curioso che ne spieghi l'origine da bus "collo, criniera" e asp "cavallo". Il nome è evidentemente un composto da vusn " maschio" e asp "cavallo". Nell'Avesta varasna (cfr. ant. ind. vrsan) è documentato una sola volta in testo tardo; ma la continuazione in medio-persiano e in persiano moderno è ampia e sicura; vrsan è detto nel Regveda dei cavalli di Indra (3, 35, 3) e, com'è noto, è un nome con il quale Indra stesso è chiamato. L'origine dell'etimologia popolare data nel Bundahisn, risale, pare a me, a un passo avestico, (Yt. 10.11) in cui si dice: «Lui invocano i guerrieri sul collo del cavallo e invocano rapidità per il loro carro e sanità per se stessi». Il terzo fuoco sacro BurzÏn Mihr è evidentemente "l'alto Mithra". La parola avestica bareza vuole il Hertel mettere in rapporto con ved brh; comunque ormai le due parole si sono semanticamente molto differenziate nel senso che l'una ha assunto come significato fondamentale il concetto di "forza" e l'altra quello di "altezza". Nella loro stessa denominazione i tre fuochi sacri si riconnettono alla figura di Mithra; essi sono indubbiamente epiteti del dio che hanno conseguito una certa autonomia, divenendo oggetto di culto nella forma la quale era considerata manifestazione e simbolo della sua potenza. Ciò ci aiuta a intendere finalmente l'appellativo di "triplice" dato a Mithra in una notizia del cosiddetto Dionisio l'Areopagita. Il Windischmann, ricorda alcuni tentativi di spiegare l'appellativo riferendolo ai tre segni dello zodiaco che cadono in ogni stagione, o a una trinità di dèi come Liber, Apollo e Sole citata in Arnobio o Sole, Mithra e Fuoco in Curzio Rufo. Q leste spiegazioni non soddisfano, l'una perché il riferimento astronomico è piuttosto debole e non necessario, l'altra perché l'invocazione di Mithra insieme con altre divinità non prova la sua identità con esse; anzi si direbbe che l'invocare insieme il sole e Mithra mostri al contrario come l'identità di questo con quello non si era ancora attuata. Il riferimento invece ai tre fuochi sacri del Zoroastrismo spiega pienamente l'appellativo di "triplice", in quanto la manifestazione più importante - nazionale, per dir così - del culto che i Magi celebravano in Persia per Mithra era la custodia dei tre fuochi in tre separati tempi. Che il culto dei Fuochi fosse strettamente collegato con il culto di Mithra si rileva da altri indizi. Plutarco nella vita di Artaserse II (Vita Art., 10) racconta che Artaserse II faceva precedere le sue truppe dall'insegna di un gallo d'oro portato su una lancia. É assai inverosimile che l'origine di tale costume sia da ricollegare con il fatto che Ciro il Giovane era stato ucciso per mano di un Cario, e che i Cari erano chiamati "galli" a motivo del pennacchio che portavano sull'elmo. Ora noi sappiamo che il gallo era la personificazione di uno dei tre Fuochi e precisamente del fuoco Farnbagh. Nel romanzetto pahlavico dedicato al fondatore della dinastia sasanide «La storia delle gesta (karnamak) di Ardashir figlio di Papak » si racconta della tentata uccisione di Ardashir ad opera della moglie per mezzo di una bevanda avvelenata. Ardashir sta per prendere il recipiente dalla mano della donna, ma è salvato per l'intervento del fuoco Farnbagh. (Karn. 134): «Si racconta che lo splendido e vittorioso fuoco Farnbagh volò dentro in quel momento sotto forma di un gallo rosso e sbatté l'ala sulla farina in maniera che la tazza piena sfuggì dalle mani di Ardashir e cadde a terra». Ora noi sappiamo che proprio con Artaserse II Mithra assume grande importanza nella religione iranica e diventa il dio dispensatore della dignità regale, il dio della vittoria. Di pari passo con il culto di Mithra progredisce il culto del fuoco e Senofonte (Cyr, VII, 3, 12) ci dà notizia già per questi tempi di un carro tirato da cavalli adorni di rosse gualdrappe nel quale era collocato il focolare sacro. Le ragioni per le quali Mithra venne assumendo sempre maggiore importanza, sino al punto di uscire dai confini della religione iranica e conquistare l'occidente, non si possono con sicurezza stabilire; ma deve certo avervi influito la preponderanza che la casta sacerdotale dei Magi, la quale nei primi tempi della dinastia achemenide era - per dir così - all'opposizione, venne man mano acquistando. Ai Magi è da attribuire indubbiamente la profonda modificazione che la dottrina di Zarathustra subì dopo la scomparsa del profeta e dalla loro cerchia proviene il vasto materiale mitologico-religioso che sopra essa s'innesta. La figura di Mithra, quale ci appare dall'Avesta, porta nelle sua complessità le tracce sicure della sua origine sincretistica. La sua identificazione con il cielo stellato sostenuta dal Hertel è molto dubbia; ma d'altra parte è vero che Mithra nel l'Avesta non è mai identificato con il sole. La ragione è che Mithra è ormai nell'Avesta una divinità personificata alla quale viene dato un contenuto simbolico di vario genere, ma su cui ogni legame con fatti e elementi della natura che non siano il fuoco si può dire perduto; e con il fuoco il contatto non è perduto perché anche questo stesso è divenuto simbolo degli stessi concetti che prevalgono nella figura di Mithra. Ciò si vede particolarmente nell'altro fuoco che si aggiunge alla triade già menzionata, e precisamente il fuoco Vahrâm. Mentre i tre Fuochi sono unici ed hanno ciascuno una sede, il fuoco Vahrâm è molteplice e ha culto in vari luoghi. Ardasir I, secondo la tradizione, ne istituì diversi a celebrazione delle sue vittorie. Ora il fuoco Vahrâm è indubbiamente continuazione della divinità iranica della vittoria, cioè Vurthraghna, celebrata nel 14° Yasna dell'Avesta. Sull'identità di Vurthraghna con l'indiano Indra Vrtrahan non vi può essere alcun dubbio dopo l'esame accuratissimo che B. Geiger ha fatto della quistione. Ma è da aggiungere che Vurthraghna non è una divinità a sé, bensì è in stretto legame con Mithra con il quale ha numerosi tratti in comune. E la ragione è che nel Mithra iranico si sono venuti a giustapporre tratti caratteristici dell'Indra indiano, poiché Indra nella religione iranica è scaduto al livello di un demone. La natura guerriera di Mithra è indubbiamente derivazione dell'aspetto prevalente d'Indra; nel particolare basterà ricordare che la sua arma, il vazra, è la stessa arma che ha Indra nel Rgveda (vajra) e che l'altra grande impresa attribuita a Indra dopo l'uccisione di Vrtra, cioè la liberazione delle vacche, è attribuita nell'Avesta a Mithra (Yt. 10. 85- 86). Oltre a ciò si può con sicurezza affermare che se Vurthraghna si è reso autonomo da Mithra, rimanendo tuttavia ad esso legato per le comuni dipendenze da Indra, non diversamente è avvenuto per lo Khvarenah "gloria regale"; esso ha pure una certa autonomia tanto che gli è dedicato nell'Avesta il I9° Yasna, ma non è separabile da Mithra, non solo perché questa è la divinità che è maggiormente dotata ed è dispensiera della "gloria regale", ma per il fatto stesso che la concezione di quest'alone immateriale, invisibile, ha le sue più profonde radici in Indra, dio indo-iranico della vittoria. Indra vrtrahan e Vurthraghna hanno come tratto comune l'apparire in forma di animale; ma anche lo khvarenah ha come incarnazione l'ariete, animale di cui Indra prende le forme (mesabhuto, Rgv. VIII, 2, 40) e che è il totem di Vurthraghna. Nel «Racconto delle gesta di Ardashir» ad Artabano, che chiede notizie del fuggitivo, la gente dapprima rispondendo aggiunge che dietro il cavallo di questi correva un ariete; e continuando l'inseguimento, le notizie sono: prima che l'ariete corre a paro col cavallo del fuggitivo e poi che si è posto sulla sella insieme con lui. E, allora, i sacerdoti interrogati tolgono ad Artabano ogni speranza poiché l'ariete altro non è che la "Gloria reale" e una volta raggiunto Ardashir questi è diventato imprendibile. Nella tradizione leggendaria contenuta negli Yasna epici dell'Avesta lo khvarenah da Mithra passa a Traitauna e con ciò la posizione di questi di fronte a Mithra viene ad essere identica a quella che il vedico Trita ha rispetto a Indra Vrtrahan. Nei cinque fuochi dell'Avesta come nei tre fuochi sacri e nel fuoco Vahrâm, a noi noto attraverso la tradizione posteriore, si hanno dunque tracce che ci riportano a figure divine della più alta antichità e precisamente a Agni per i cinque Fuochi, a Mithra per i tre Fuochi, ad Indra per il fuoco Vahrâm. Non sono queste 1 e sole manifestazioni del riaffiorare dell'antica tradizione ma è tutto un sistema mitologico religioso che viene a incastrarsi nel telaio della dottrina zarathustriana; basta pensare agli Amesha Spenta che, avendo perduto nella riforma zarathustriana il contatto con gli Aditya indiani per diventare concetti astratti, riappaiono nel l'Avesta recente fissati nel numero di sette e con attributi naturistici proprio come gli Aditya; e al culto del Soma che risorge vigoroso insieme con i miti che ad esso erano collegati. Quando ciò sia avvenuto non è difficile stabilire. In una delle iscrizioni cuneiformi della Cappadocia, che risalgono al I4° sec. a.C. e precisamente nei trattato concluso fra Suppiluliuma, re di Khatti, e Mattivaza, re di Mitanni, ricorrono fra gli altri dèi anche i nomi di Mithra, Varuna, Indra e Nasatya come dèi di Mitanni nella Mesopotamia settentrionale; e in altra iscrizione si fa il nome di Agni. La presenza di tali divinità indo-europee non può spiegarsi se non con l'ammettere che in tale epoca un nucleo indo-iranico esistesse già in Mesopotamia. Ora è un fatto che i popoli - che dagli Assiri vennero chiamati Manda e più tardi Mada Madai, cioè Medi - appartenevano al gruppo indo-iranico, come provano numerose parole arie che si trovano nel testo Kikkuli di Mitanni e che dal Forrer , sono a ragione ad essi attribuiti (aikavartanna "un giro", teravartanna "tre giri", etc.). Indubbiamente quelle divinità provengono da questi popoli di Manda, i quali dovettero molto influire su i popoli di Mitanni come prova il fatto stesso che i re di Mitanni hanno nomi ari (Artatama, Sutarna, etc.); medesima origine dovettero avere i nomi ari che conosciamo dai testi di Tell el Amarna (Suvardata, Artamania, etc.). Purtroppo dei Medi non si conosce la lingua e scarsissimi elementi si hanno per giudicare la parentela della lingua avestica con essa; e non si è quindi in grado di stabilire se la redazione definitiva dell'Avesta avvenne nella Media; certo è invece che in questa regione, ad opera dei Magi, la dottrina zarathustriana subì quella profonda modificazione, alla quale già abbiamo varie volte accennato, e si sviluppò arricchendosi di elementi dell'antica religione indo-iranica. I Medi, confinati nelle loro montagne, furono custodi fedeli dell'antica religione naturistica attraverso molti secoli e questa rimase tanto vitale che quando la dottrina di Zarathustra venne in contatto con essa ne risultò profondamente trasformata. Questo grande conservatorismo in fatto religioso si spiega agevolmente con l'esistenza presso i Medi di una classe sacerdotale dominante che ricorda assai da vicino quella dei sacerdoti nell'India brahmanica. Cosi è avvenuto che il Fuoco, che nella dottrina di Zarathustra era divenuto soltanto simbolo e sinonimo della energia spirituale, prende nel successivo sviluppo del Zoroastrismo carattere naturistico da un lato e sociale dall'altro. Nei cinque Fuochi rivive in qualche modo il naturismo di Agni; i tre fuochi si sviluppano dalla figura di Mithra quale su suolo iranico si è venuta formando per sincretismo con l'Indra indiano; un aspetto di Indra si fissa nel fuoco Vahrâm. Inoltre i tre fuochi hanno ciascuno la protezione di una classe sociale: il fuoco Farnbagh quella dei sacerdoti, il fuoco Gušnasp quella dei guerrieri, il fuoco BurzÏn Mihr quella dei lavoratori. Non c'è dubbio che il numero dei Fuochi è da porre in rapporto con quello delle classi sociali e che ne dipende: la tradizionale distinzione delle caste s'è conservata più decisa e netta in questo popolo dall'organizzazione teocratica e la denominazione di esse torna ad essere quella dell'antica società indo-iranica. La localizzazione dei tre fuochi sacri ci riporta al settentrione iranico: il tempio del fuoco Gušnasp è a Gangiak nell'Adharbaigian; il fuoco BurzÏn Mihr nel Khorasan; del fuoco Farnbagh si dice che esso prima si trovava nello Khvarizm e che poi al tempo della propagazione della fede mazdaica era stato trasportato in altra sede. Il testo Indiano del Bundahisn dice che questa sede è Kabul; nel testo iranico invece si parla di un monte Rosn sito in una provincia che è indicata con la grafia knarndkan; in questa parola si è voluto da molti riconoscere la località Kariyian nel Fars, a nord-ovest di Bedsahr. Ora ciò non è possibile mentre ovvia è invece la lettura deh i kanarakan cioè "la provincia limitrofa". Altri indizi per collocare nel Fars il fuoco Farnbagh non ve ne sono e, poiché la notizia della redazione indiana è da scartare per il fatto che Kabul fu sempre ritenuta nella tradizione come sede d'infedeli, l'unica notizia è quella che ci dà il Bundahisn iranico; e questa non si presta a letture diverse da quella da noi data. Che cosa s'intenda per "provincia limitrofa" non sappiamo precisare, ma pare a noi probabile che si tratti dell'Armenia. Sappiamo da una notizia tramandata da Agania Seigaraci, nel suo discorso sulla croce, dell'esistenza in Armenia di un hurbak, fuoco sacro, che giustamente il Hubschmann identifica con l'iranico Farnbagh. Che questo Fuoco possa essere stato collocato in Armenia si spiega bene con la stretta aderenza dell'Armenia con il mondo iranico, ora provincia dell'impero con gli Achemenidi, ora sotto il dominio di una dinastia che era un ramo della famiglia arsacide e sempre sotto l'influenza culturale iranica. Nel Libro di Artak Viraz si racconta che i sacerdoti e i saggi dell'Iran, nell'intento di riportare alla primitiva purezza la dottrina mazdaica decaduta e corrotta dopo l'invasione di Alessandro, si riunirono in concilio nella sede del vittorioso fuoco Farnbagh. Se tale notizia è vera - e non c'è motivo di dubitarne - il concilio sarebbe avvenuto in Armenia; ora ciò non fa difficoltà se si pensa, fra l'altro, che il trono d'Armenia fu occupato per qualche tempo anche da Pacore, fratello di quel Vologese III al quale, nella tradizione, viene attribuito l'ordinamento dei testi sacri. Mentre degli altri due Fuochi e delle loro sedi si parla frequentemente, della sede del Fuoco Farnbagh non si parla più altrove; ciò è indubbiamente da mettere in relazione con il fatto che nel periodo sasanidico l'Armenia rimase piuttosto fuori mano e, per quanto sotto l'influenza iranica e oggetto di perenne contesa con i Romani, dal punto di vista religioso ebbe vita a sé. In età sasanidica l'importanza maggiore fu assunta dal fuoco Gušnasp che diventò il simbolo del potere imperiale Nella famosa lettera di Tansar allo Shah del Tabaristan, tradotta dal Darmesteter, Tansar giustifica lo Shahanshah dall'accusa di aver fatto spegnere i fuochi sacri, replicando che «dopo Dario i re delle province istituirono ciascuno un pireo per loro uso personale e ciò era un'innovazione contraria agli ordini degli antichi re». Pare dunque che sotto gli Arsacidi i principi indipendenti delle varie province tenessero ciascuno un proprio fuoco, e che i Sasanidi revocassero a sé nuovamente il diritto di tenere in Gangiak il fuoco simbolo del supremo potere. Il tempio di Gangiak, di cui Giorgio Kedreno descrive le meraviglie, fu distrutto dall'imperatore Eraclio che occupò la città scacciandone Cosroe Parvez. Il fuoco Vahrâm aveva culto invece in ciascuna provincia e, perdutasi l'indipendenza persiana, assume importanza rituale sempre maggiore e la mantiene tuttora presso i Parsi. In ogni casa era poi tenuto vivo un fuoco, simbolo della tradizione famigliare. Se guardiamo in profondità lo sviluppo che il culto del fuoco ha nel Zoroastrismo, possiamo dire, riunendo le fila delle nostre indagini, che nell'Iran esso accogliendo le sopravvivenze dell'antica religione indo-iranica mantenne tuttavia quel carattere simbolico con il quale Zarathustra l'aveva accolto nel suo sistema. Il legame di esso con Mithra si allentò, poiché Ahura Mazda - e ciò fu nel periodo sasanide, tornò ad essere l'unico dio. Mithra fuori dallo Iran ebbe uno sviluppo che lo portò ben lontano dalla figura che ha nel Zoroastrismo. Ma non bisogna per questo pensare che gli elementi naturistici, che in esso s'incontrano, si siano aggiunti in Asia Minore come sopravvivenze degli antichissimi culti indo-iranici. Come abbiamo visto, questa giustapposizione c'è già in nel Mithra del Zoroastrismo; e si può con sicurezza affermare che il punto di partenza del Mithraismo è quel momento della religione iranica in cui dal culto di Mithra si dirama il culto dei tre Fuochi. Questa pienezza di contenuto e la conseguente importanza del rito possono spiegare la posizione centrale, e quindi unica, che Mithra assume quando la religione iranica fu portata fuori dai confini della sua patria; e la sua capacità di svilupparsi, nel contatto con altri culti, sia in senso naturistico, sia in senso simbolico. |
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