1. - La gente persiana o iranica, come più giustamente deve chiamarsi, appartiene alla grande famiglia dei popoli indoeuropei. Essa, in un tempo remotissimo, staccatasi dalle altre genti sorelle stanziate in Europa, dall’Europa si tramutò in Asia penetrandovi per quella parte di territorio che è a settentrione del Mar Caspio, e occupò il vasto altipiano che chiamasi Iran e che si estende per grandissima parte dell’Asia di mezzo. Penetrò in Asia insieme ad un’altra gente indoeuropea, che poi, procedendo oltre, si stanziò in India e che ebbe con essa da principio un nome comune, un nome nazionale, quello di gente aria o ariana. Al sopravvenire degli Arii, né l’India né l’Iran erano deserti di abitatori, si bene vi si trovavano ad abitare fin dai tempi più remoti antichissime popolazioni, che essi dovettero o scacciare o soggiogare, e che, o per ischerno o per odio o per ripugnanza innata, quelli dell’India rappresentaron poi come esseri bruti sotto i nomi di Vanari, di Yaksi, di Guhyaki, e quelli dell’Iran come Devi, cioè demoni, nelle loro epopee, pur giovandosene destramente non di rado e facendosene discepoli, perché queste antiche genti aborigene erano abilissime nelle arti, in particolare in quella del lavorar metalli.
I dominatori, intanto, imponevano la lingua ai vinti, come del resto, in simili casi, suol sempre avvenire. Così, dopo la conquista, due lingue indoeuropee si parlarono e coltivarono lungamente sul continente asiatico e vi produssero due ricche e meravigliose letterature, l’iranica o persiana nell’Iran, la vedica e sanscrita nell’India. Ma poi, per la scarsità del numero dei sopravvenuti accanto a quello di gran lunga superiore dei primi abitatori, avvenne che il grosso della popolazione, tanto nell’Iran quanto nell’India, non solo rimase quello che era prima, ma anche attrasse e assimilò l’elemento nuovo cancellandone quasi interamente i segni e i caratteri d’origine. Mentre pertanto sopravvivono tuttora, nelle parlate recenti, le lingue indoeuropee nel continente asiatico, poco assai di sangue indoeuropeo vi rimane, tanto, almeno, che ne possa esser visibile la traccia. Si possono, perciò, e si devono tuttora considerare indoeuropee, nel rispetto della lingua, le popolazioni dell’Iran e dell’India che parlano una lingua indoeuropea, mentre, nel rispetto dell’antropologia, esse non sono più tali. Irani adunque e Indiani formano, nel rispetto antropologico, una razza ben diversa da quella dei Greci e degl’Italioti, da quella dei Teutoni e degli Slavi, la lingua dei quali pur tuttavia è sorella dell’iranica e dell’indiana.
2. - Storici ed etnografi, antropologi e letterati, hanno parlato lungamente delle belle e nobili qualità dei popoli indoeuropei, destinati, insieme ai Semiti, a dare al mondo la civiltà, e con questi li hanno anche lungamente confrontati facendo risaltare e i pregi e i difetti degli uni e degli altri, onde ora questi ora quelli o superano o soggiacciono a vicenda. Degl’Irani in particolare si è detto e scritto pure assai; ma forse si è ecceduto nel dirne male, e ciò contro giustizia, e più dai moderni che dagli antichi. I moderni, se così hanno giudicato dopo aver visitato il paese, vi sono stati indotti da ciò soltanto, che hanno trattato, in generale, non già con la gente finemente educata del paese, sì bene con quella che in tutti i paesi è la meno pregiata e che, per natura e per costume, inclina fortemente o ad ingannare i forestieri o a prendersene giuoco, quali sono appunto i mercanti e gli albergatori, la gente tutta delle piazze e dei trivii. Ma chi ha visitato l’Iran ai nostri giorni per ragione di studi letterari e storici, e non per motivi commerciali, venendo a trovarsi in mezzo alla gente colta, s’è incontrato in ben altra vita e in ben altri costumi, e molto diversamente ne ha poi giudicato. Veggasi perciò quanto si lodi dell’accoglienza veramente onesta che vi ebbe il Jackson, professore di filologia indo-iranica nell’Università di Nuova York, quando nel 1903 vi si recò e vi dimorò lungamente per ragion de’suoi studi, da lui con tanto plauso coltivati.
Gli Antichi, invece, fecero quasi tutti lodi grandissime degl’Irani. Ne lodavano l’alta e bella persona e l’aspetto dignitoso e nobile. Erodoto parla di certo loro portamento decoroso e grande; Eschilo ne nota le belle e folte chiome; Diodoro si compiace del descrivere la virile bellezza d’alcuno di loro. Gli Arabi del Medio Evo solevano dire che chi desidera aver figli valenti e animosi, deve pigliarsi in moglie una donna di Persia. E, del resto, in tutta quella forte predilezione che gl’Irani, al dire degli scrittori greci e romani, hanno sempre avuto per tutto ciò che é cavalleresco, nobile, eletto, come sono nobili cavalli, nobili mute di cani, giuochi ed esercizi nella palestra e nella caccia, palazzi e giardini sontuosi, drappi, gemme, profumi, ornamenti sontuosissimi, null’altro si manifesta fuor che un sentire alto ed elevato, quale di chi onestamente e nobilmente gode dei beni di quaggiù. Lo stesso libro sacro attribuito a Zoroastro, l’Avesta, comanda e ordina ad ogni uomo pio di godere onestamente della vita e de’suoi beni, pur che non si ecceda in nulla, come di un dono prezioso del Creatore. Lo stesso libro proclama arte sovrana fra tutte l’agricoltura, e gl’Irani furor sempre, e sono tuttora, dei più solerti e diligenti agricoltori dell’Asia. Il paese arido e petroso in origine li indusse al lavoro e li fortificò e nobilitò, mentre il suolo troppo ferace d’India ridusse alla vita inerte e infiacchì quegli altri Arii che, separatisi dagl’Irani, procedendo oltre vi erano penetrati. Il coltivar giardini poi fu loro occupazione prediletta fino dall’antichità, e l’arte bella ne fu portata dagli Arabi, nel Medio Evo, in Sicilia e in Spagna, donde poi si sparse per tutto l’Occidente.
Né meno grande fu il valore iranico nelle armi. Noi, lungamente allevati nelle idee della cultura classica, perchè sappiamo che i Greci sconfissero i Persiani a Maratona, alle Termopili, a Salamina, ci siamo anche avvezzati a considerar questa gente come un branco di codardi menati al macello dall’ambizione di un tiranno, mentre è pur noto che essi, in quelle battaglie, combatterono da valorosi. Erodoto stesso ne fa, con le lodi, bella e aperta testimonianza, Né, si badi anche a ciò, erano tutti persiani o irani i soldati che Dario e Serse menavano allora con sé; era, invece, uno stuolo infinito, male ordinato, di genti fra loro lontane e diversissime. Alessandro, è vero, tolse il regno a Dario Codomanno, ma e Dario e il popolo suo, pur cedendo, cedettero da valorosi; e gli Arabi che nel VII secolo dell’Era nostra invasero l’Iran e distrussero nel 650 l’antico impero, non entrarono certamente senza colpo ferire nel ricco e glorioso paese, anche se il regno era lacerato dalle discordie intestine e cadente ornai per forze esauste e per decrepitezza. E di sangue iranico era pure uno dei più celebri capitani dei Califfi Abbassidi, Abu Muslim, che perseguitò con fanatico zelo i nemici del Corano e ne fece volta a volta vere carneficine; e persiano di origine era pure il gran Saladino, la cui fama volò fino in Occidente, fama gloriosa e bella come di magnifico signore e di grande e agguerrito capitano. Dario d’Istaspe, nella sua grande iscrizione sepolcrale a Naqsh-i-Rustem non lontano da Persepoli, enumerate le genti che gli erano soggette, a proposito della persiana esce in queste belle parole: “A te intanto deve esser noto che l’asta dell’uomo di Persia è andata lontano! A te deve esser noto che l’uomo di Persia anche lontano dalla Persia ha combattuto battaglie!” L’epopea iranica poi è tutta una grande canzone guerriera risonante di strepito d’armi, intesa a celebrar la gloria degli eroi e dei re irani del bel tempo antico.
3. - Anche la storia del popolo iranico fu tutta quanta splendidamente gloriosa. Si parlò già, sebbene con assai poca certezza, di un antichissimo regno di Battriana con un re Vistaspa, di cui l’Avesta ricorda molte imprese guerriere, personaggio quasi mitico o favoloso. Alla corte di lui sarebbe venuto per la prima volta Zarathustra o Zoroastro, datore d’una nuova legge religiosa e civile. Ora é stato dimostrato che quel regno, nell’antichità a cui si vorrebbe riferire, non esistette mai. E si fa anche il nome, da scrittori greci, d’un altro Zoroastro che appunto in Battriana avrebbe avuto dignità e potere di re.
A quella età remota si devono piuttosto riferire le non negabili relazioni degl’Irani coi Babilonesi, dai quali, già colti e civili, dovettero apprender molto, anche se furon tra loro, di volta in volta, urti e contese a suon d’armi. Venne poi il regno medo, la cui storia rimane pur sempre non poco oscura, sebbene si possa affermare che i sovrani che lo tennero, furono principi di grand’animo e di gran valore, splendidi nelle opere della guerra e della pace, Deioce, Fraorte, Ciassare, Astiage. Ma non è certo se i Medi fossero veramente Irani o piuttosto d’altra razza, forse turanica, sebbene con forte mistione di elementi iranici, di cui erano come compenetrati.
Fondatore dell’impero persiano che poi divenne l’erede degli altri imperi asiatici, fu Ciro il grande, di cui parlano con ammirazione grandissima gli scrittori greci, tanto che Senofonte, seguendo indubbiamente un romanzo persiano, ne narrò e descrisse la vita come del più savio e potente dei principi. Eschilo lo celebra qual modello di monarca e di legislatore, ed Erodoto ci dice che i Persiani, ai quali egli aveva procacciato gloria e splendore di signoria, gli davano il nome di padre. Isaia lo chiama l’Unto del Signore. Egli poi condusse molte guerre, intraprese grandi conquiste, diede leggi al suo popolo e agli altri, aggiunti al suo regno; elevò dal suolo magnifici edilizi, e rimane tuttora presso Murghab il suo sepolcro, alto di più gradini dal suolo, già custodito dai Magi, ora guasto dal tempo e dagli uomini, e su cui si legge ancora in caratteri cuneiformi: Io sono Kurus (Ciro) il re Achemenide.
Allo scompigliato governo di Cambise sottentrò quello savio, prudente e assennato, e pur ardito e intraprendente, di Dario d’Istaspe, che i Persiani, al dir di Erodoto, soprannominavano l’amministratore. Appartiene allo storico il dir degnamente di questo gran principe e di giudicarlo nel rispetto politico e guerriero, amministrativo e civile. Basti a noi il notare come tutta l’antichità ne faccia lodi altissime, non esclusi i Greci, come si rileva dalle pagine di Eschilo e di Erodoto. Le iscrizioni ch’egli fece scolpire a Behistan, a Persepoli, a Naqsh-i-Rustem, oltre il racconto delle sue molte e varie imprese nel ricostituire il regno, contengono molte e nobili e alte parole intorno alla giustizia, alla rettitudine, all’onestà. Un’altra, rinvenuta in Egitto, attesta come egli, seguendo l’esempio d’un antico re egizio, Neko, congiungesse con un canale scavato il Nilo al Mar Rosso, e conferma il racconto già fattone da Erodoto. Fu lui il vero unificatore del regno, che si estese, fattosi erede di tutti gli altri anteriori, dalla Ionia all’India, dalla Scizia all’Etiopia, e ch’egli sapientemente distribuì per satrapie dalle quali poi gli venivano a Persepoli, sua residenza, i tributi delle genti soggette e i prodotti delle terre più lontane.
Fu quello il tempo del maggior splendore, mentre, sotto i re che succedettero a lui, anzi sotto lo stesso figlio di lui, Serse, che lo seguì sul trono, incominciò il declinare. Né Serse, né gli altri che vennero poi, ebbero la mente, la saggezza, la fortuna di Dario. Ebbero tutti da far molto con la Grecia; ma Serse ne rimase più volte sconfitto, mentre i successori suoi operarono più con l’intrigo che con le armi, finché, sfiacchito il potere e l’autorità, anche col valore dell’ultimo Dario e dei soldati suoi, non fu difficile ad Alessandro entrar vincitore e signore nell’antico e temuto impero, spenta per sempre la gloria e la fortuna degli Achemenidi.
4. - La conquista di Alessandro trapiantò l’ellenismo in Oriente, e anche nell’Iran se ne sentirono presto gli effetti. La signoria dei successori di lui e quella degli Arsacidi, che si chiamavano perciò appunto Philellenes e coniavano monete con leggende greche, furon tutte informate alla cultura greca; e la prevalenza di essa durò nell’Iran per ben tre secoli, finché un giovane ardito e intraprendente che si diceva ultimo rampollo dei monarchi del tempo antico e intanto faceva da staffiere in corte di Ardevano, ultimo degli Arsacidi, non si avvisò di restaurare l’impero iranico e con esso le patrie leggi e la religione di Zoroastro, venuta ornai quasi in dimenticanza. Chiamavasi Ardeshir, cioè Artaserse, e fu capo e fondatore, nel 226 dell’era nostra, della casa dei Sassanidi, così detti da un Sasan, loro antenato, che era di stirpe regia. La signoria dei Sassanidi durò fino al 650, nel qual anno gli Arabi, entrati nell’Iran, ne fecero la conquista. Vollero i Sassanidi, con nobile ardire, ripristinar la gloria dell’impero di Giro e di Dario, ma non poteron tanto. Rilevarono tuttavia il caduto sentimento nazionale e lo rinvigorirono; richiamarono in onore, come or si diceva, la religione paesana; favorirono gli studi, fondarono scuole, tennero a freno i nobili, prepotenti e avidi, e con essi i ministri del culto, intolleranti e fanatici, e pensarono anche talvolta alle misere plebi diseredate. Così almeno fece uno di loro, Behram V, che regnò dal 420 al 438, provandosi, invano, a governare in certo qual modo socialistico il regno. Ma il più illustre, il più grande fu indubbiamente Chosroe, del VI secolo.
5. - Questo gran principe, al quale l’Occidente va debitore di non poche cose, s’acquistò bella gloria di giusto, tanto da esser lungamente celebrato come tale nei romanzi persiani e negli arabi, protesse le arti e le lettere, accolse alla sua mensa i filosofi che Giustiniano imperatore aveva scacciati da Costantinopoli, diede per il primo un pensiero a raccogliere in un volume che forse fin d’allora ebbe il nome di Libro dei Re, le memorie epiche nazionali. Così, per lui, s’incominciava quel moto letterario che quattro secoli dopo, o poco più, doveva metter capo alla composizione poetica di esso libro per opera di Firdusi. Restano poi mille ricordi del suo tempo, come del più bel tempo del regno sassanidico, non tanto nelle posteriori opere persiane e arabe, e nelle bizantine, ma anche in tanti monumenti contemporanei venuti fino a noi, gemme scolpite, monete, edifizi, ancor grandi e superbi nella loro rovina. Dopo di lui, decadeva rapidamente il regno, a cui inferirono colpi mortali, nei secoli seguenti, i Bizantini da una parte e gli Arabi dall’altra, finché, nel 650, ucciso presso Merv da un mugnaio, a tradimento, l’ultimo re, Yezdeghird III, l’Iran d’un tratto divenne provincia dell’impero musulmano. Non si spegneva tuttavia l’ingegno iranico; che anzi, come avvien sempre quando un popolo civile soggiace ad un più forte, ma ancor barbaro e rozzo, quei rozzi e barbari abitatori del deserto tutto, o quasi tutto, dovettero apprendere ciò che riguarda l’arte politica, militare e letteraria, dai loro novelli soggetti, di gran lunga superiori in ogni modo del vivere civile.
6. - Né poteva essere diversamente. Fin dai tempi più remoti rifulse di belle doti l’ingegno iranico e fece bella prova in molte e varie maniere, anche se prese a prestito alcun che da altri popoli civili. Ma se anche prese, assai abilmente piegò e acconciò e assimilò ciò che prese; e già Erodoto aveva osservato che i Persiani, più che ogni altro popolo dell’Asia, sanno appropriarsi le cose altrui.
L’antichità, intanto, ci parla di palazzi magnifici, di giardini deliziosi destinati alle cacce reali, di suppellettili, di tappeti, di oggetti d’oro preziosissimi, finemente lavorati, che formavano lo splendore del lusso persiano d’allora, riguardati con occhio ammirato e non scevro d’invidia dai Greci stessi. Rimangono tuttora le rovine maestose dei palazzi di Persepoli ad attestar la magnificenza con cui solevano edificar per sé e per i successori Dario e Serse; rimangono le rocce di Behistan e d’Alvend ad attestar come, pur senza le macchine recenti, si seppe allora scolpir dall’alto in basso e coprir d’iscrizioni ripide e lisce pareti di rupi, alte più centinaia di metri. E poiché tocchiam d’iscrizioni, ecco che un caso fortunato ci ha conservato il suggello stesso con cui Dario d’Istaspe segnava i decreti. É un piccolo cilindro d’agata verde, ora custodito nel Museo britannico di Londra, recante l’immagine del gran re che, montato su d’una biga, mentre il cocchiere gli regge i cavalli, sta’ saettando un fiero leone che gli si para dinanzi. Campeggia in alto la figura simbolicamente alata del dio creatore Auramazda, e una iscrizione trilingue, posta dietro l’immagine regale, dice: “Io, Dario re”.
Nulla poi diciamo del faste e del lusso che tanto abbagliò Alessandro da volerlo far suo, imitando in Persepoli, con grandissimo scandalo dei duri soldati macedoni, i costumi della corte persiana. Diremo soltanto che tutta quella magnificenza; quella raffinatezza, quella squisitezza ricercata, proprie non solo della corte, ma anche d’ogni casa di principi, di satrapi, di nobili, ricchissimi tutti, si continuaron poi per i secoli che seguirono, sotto gli Arsacidi, sotto i Sassanidi, sotto, anche, il dominio degli Arabi. Che, anzi, se non pur gli Arabi, i Musulmani tutti, di qualunque nazione fossero, ebbero il vanto nel Medio Evo di finezza e di splendore nella vita, di abilità ricercata in tutto ciò che tocca il fasto e il lusso, dai palazzi fantasticamente lavorati alle essenze e ai profumi più delicati, di tutto cotesto essi vanno debitori ai Persiani dai quali lo tolsero e se l’appropriarono per mandarlo attorno per tutti i confini del vastissimo impero. Anche la scienza che ci venne d’Asia nel Medio Evo, in grandissima parte fu persiana; e persiani sono quasi tutti i filosofi, i medici, gli astronomi, i matematici, di cui leggiamo i nomi nelle pagine dei nostri dell’età di mezzo, quali Agazel e Alrasi, Albatenio, Avicenna, Alfarabi. Scrissero in lingua araba le loro opere, essendo questa la lingua dotta dell’impero musulmano; e noi perciò, con manifesto errore, li abbiam detti arabi e tali tuttavia li reputiamo.
7. - Ugualmente splendida é la storia della letteratura. Dell’antica, per quanto riguarda la Persia in particolare, assai poco sappiamo, e soltanto per congettura; ma un’ampia e copiosa letteratura essa doveva pur essere, perché tanto splendore di civiltà, durato per più secoli, non si potrebbe comprendere quando non l’avesse accompagnato e illustrato ugual splendore nelle lettere. Però, di annali regi persiani, in cui si notavano gli avvenimenti più importanti, si ha memoria nel libro di Ester nella Bibbia. Inoltre, lo storico Ctesia, che visse lungamente alla corte di Artaserse Mnemone, potè consultar gli annali regi per trarne la sua storia persiana. Si parla anche di bardi che alla corte recitavano o cantavano antiche canzoni epiche, toccanti le imprese degli eroi del tempo antico; e frammenti, come a dire, di epopea si trovano in tutta la narrazione che tocca l’adolescenza di Ciro, educato fra i pastori. Trovasene anzi un chiaro cenno nel Libro dei Re di Firdusi. V’erano poi racconti romanzeschi (e romanzo appartenente a quest’antica letteratura é indubbiamente la Ciropedia di Senofonte) nei quali, tolto a prestito dalla storia un personaggio, se ne’racconta con molta finzione e con colorito tra l’eroico e il romanzesco, aggiuntovi qualche intento morale, tutta quanta la vita, piena di molte avventure.
Ma cospicuo monumento letterario e religioso è l’Avesta, o, come anche suol dirsi, benché con errore, il Zendavesta, che è il codice sacro che la pia tradizione iranica asserisce essere stato rivelato a Zarathustra da Auramazda stesso. Appartiene all’antica letteratura, ed era in origine, poiché a noi non ne é pervenuta che una minima parte, tutta un’ampia e molteplice raccolta del sapere di quei tempi remoti, comprendendovisi la morale e la religione, la scienza medica e la giuridica, oltre i canti alla Divinità, gl’inni di natura tra l’epica e la lirica, le invocazioni e le preghiere rituali del culto. Fu opera di più secoli e di più autori, mentre a Zarathustra non si può attribuir con qualche certezza, in quella parte che ce ne resta tuttora, null’altro che alcuni canti oscuri, onorati col titolo di santi dal restante Avesta stesso, dettati in un dialetto particolare, e contenenti astrusi pensieri filosofici e religiosi. L’Avesta che ci rimane, é in gran parte libro rituale, pieno e ingombro d’infinite prescrizioni, interrotto qua e là da qualche passo che ha colorito poetico, per tacer della raccolta degl’inni, accennata or ora, in cui quegli antichi e ignoti cantori celebravano con entusiasmo epico le gloriose imprese degli Dei e degli eroi della stirpe.
Tace lungamente la letteratura al tempo dei successori d’Alessandro e al tempo degli Arsacidi, tra perché la cultura ellenica era penetrata nel paese, tra perché sedevano sul trono di Dario principi di sangue non iranico, animati da ben altri sentimenti, guidati da ben altri intenti. Si leggono intanto e si studiano le opere greche e si traducono in persiano, come Longino attesta, i poemi di Omero. I re Parthi assistono alla rappresentazione delle tragedie d’Euripide, recitate in greco da attori greci, e Artavasde re d’Armenia, nelle ore che gli lasciavano libere le cure del regno, si diletta del compor tragedie alla greca. Ma poi, quando l’avvenimento al trono di Ardeshir primo dei Sassanidi, nel 226, ridestò il sopito sentimento nazionale e richiamò in onore l’antica religione, ebbe subito principio una vasta e varia letteratura che discese, si può dire, fino al IX e al X secolo dell’Era volgare.
8. - S’incominciò dal voltare nella lingua iranica d’allora, che era la pehlevica, l’Avesta, quando, fattine raccogliere dal re Shahpur, cioé Sapore II (310- 379 d. C.), gli sparsi frammenti e fissatone il canone per decreto reale, si sentì il bisogno dai più d’intenderne la parola nella lingua del tempo. Venne poi una lunga serie di scritti esegetici d’ogni specie, e il lungo lavorio si protrasse per più secoli, producendo tutta quanta una letteratura monotona e pedantesca, capziosa, minuziosa, arida nella forma, uggiosa e tetra nell’argomento. Accanto alla quale fiorì un’altra letteratura, tutta profana, non molto poetica nella forma, ma poetica nel contenuto, perché data ai racconti del passato, eroici o romanzeschi che fossero, ai racconti delle avventure più tenere d’amore, toltine i protagonisti ora alla storia, ora alla feconda tradizione popolare. Sennonché, mentre quella si conservò per buona parte, raccomandata alla cura sollecita degli ultimi seguaci di Zarathustra, ai Guebri o Parsi d’India e di Persia, quest’altra, abbandonata al volgo, si perdé tutta quanta, tranne alcuni pochi resti, come, per esempio, il romanzo d’amore di Ardeshir e della bella Guinara. Ma poi, quasi per ricompensarci di tanta perdita, rimangono nella successiva letteratura, sia araba, sia persiana, dal VIII secolo in poi, alcuni rifacimenti di quelle opere di questa perduta letteratura, almeno delle più celebri e cospicue.
9. - Così siam giunti alla letteratura più recente che s’inizia tra il IX e il X secolo dell’Era nostra. Appartengono a quell’epoca Rudeghi, uno dei primi lirici persiani, e Firdusi, poiché il primo precede di poco più che mezzo secolo il secondo. Esaurita poi l’epopea coi poeti ciclici schieratisi intorno a Firdusi, e passata la lirica dal dire ed esprimere il vero al fare mistico e simbolico, fiorì con Nizami, nel XI e nel XII secolo, la poesia romanzesca. Il secolo XIII ebbe la gloria di Saadi, osservatore finissimo, gran conoscitore del cuore umano, scrittore forbitissimo in verso e in prosa, e il XIV ebbe quella di Hafiz che a ragione fu detto l’Anacreonte e l’Orazio della Persia, perché cantò il vino e gli amori e la pompa smagliante delle rose dei giardini persiani. E passiam sotto silenzio molti e molti altri nomi di poeti illustri, che della letteratura persiana fanno una delle più belle d’Oriente, perché di ciascuno d’essi abbiam dato bastevole saggio nella nostra Storia della poesia persiana.
10. - In così lungo spazio di tempo, è naturale che non sempre fosse adoperata nell’Iran la stessa lingua. Più lingue invece, sebbene tutte iraniche, vi furono e parlate e scritte. Di quella dell’Avesta non si conosce bene né il nome né la patria. Si pensò che fosse la lingua antica della Battriana; poi, che fosse quella antica della Media, e forse per questa opinione vi ha probabilità maggiore. Ora, per evitar dubbi ed equivoci, si preferisce chiamarla avestaica dal nome del libro che in essa é stato composto. Si chiamò anche, ma erroneamente, lingua zenda. Non v’ha dubbio però che appartenga alla parte settentrionale dell’Iran, mentre alla meridionale appartiene la lingua delle iscrizioni di Ciro, di Dario, di Serse, che é la persiana antica, strettamente affine all’avestaica, anzi sorella, non però la stessa, come da alcuni erroneamente ancora si crede. A questo stesso ramo meridionale appartiene anche la pehlevica, nella quale fu tradotto l’Avesta al tempo dei Sassanidi, e che è la lingua di tutto il Medio Evo iranico, dal III al VII e al VIII secolo. È lingua molto singolare, o piuttosto, la sua scrittura é molto singolare, perché adopera ad arbitrio voci d’origine aramaica o siriaca, che poi il lettore deve rilevare e leggere con le corrispondenti iraniche. L’altra lingua, detta comunemente parsi, sembra essere la stessa pehlevica, priva di quelle voci d’origine straniera. L’idioma, in fine, della bella letteratura più recente che incomincia con Rudeghi e con Firdusi, é il così detto neo-persiano (anch’esso del ramo meridionale), risuonante puro e semplice nel bel verso epico di Firdusi, misto, anzi gonfio di parole arabiche, per mal vezzo letterario, in tutte le altre opere e prosaiche e poetiche.
11. - La scrittura venne tutta quanta agl’Irani dagli stranieri. Dagli Assiri e dai Babilonesi ebbero essi l’alfabeto cuneiforme usato nelle iscrizioni; dai Siri, quello usato in una forma nell’Avesta, e in un’altra nei libri pehlevici; dagli Arabi, quello di tutta la letteratura recente dal IX e dal X secolo in poi. Così, in tanto e lungo lavorio letterario, non usaron mai scrittura che fosse di loro propria invenzione.
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