Non avremmo mai pensato che il 150° dell’Unità nazionale potesse finire, nel nostro Paese, al centro di polemiche e politiche tanto sconcertanti. Nel 1911, il Cinquantesimo dell’indipendenza fu salutato da esposizioni memorabili che culminarono a Roma nella consacrazione del Vittoriano. Nel 1961, l’Italia del boom, allora in piena espansione economica, dopo le Olimpiadi di Roma confermava i valori fondanti della coesistenza unitaria, ponendo la lingua italiana e la formazione dei giovani al centro del riscatto di tante famiglie appena uscite dalla miseria.
E oggi? Dovremmo tornare ai dialetti, ai vessilli regionali, alla celebrazione dei Borbone o degli Asburgo? E da questa negazione del vincolo unitario che cosa dovremmo aspettarci? Pare lontano un nuovo Rinascimento, o un nuovo Medioevo comunale.
Crediamo che una classe dirigente complessivamente incapace di dar vita ad un autentico programma pedagogico di educazione nazionale, in grado di restituire dignità e orgoglio a noi tutti e a nostri figli, possa difficilmente dar prova di quella capacità di visione, d’immaginazione creativa, di cui l’Italia ha una disperata necessità per uscire dal cono d’ombra di un declino annunciato e apparentemente ineluttabile. Abbiamo bisogno di futuro, come le donne e gli uomini del Risorgimento. Il 150° dell’Unità a questo deve servire: non alla facile retorica o a celebrazioni dal sapore un po’ stantio, ma alla riflessione comune per progettare quello che dovremo essere. Tutti insieme.