Il periodo della Restaurazione avviò i primi contrasti di interpretazione del pensiero religioso in Italia, con la corrente legittimista ed autoritaria da un lato, con quella del cattolicesimo liberale dall'altro e con quella della reazione gesuitica dall'altro ancora; per cui la borghesia italiana, presa appunto tra le spire del legittimismo autoritario, del cattolicesimo liberale e del reazionismo gesuitico, si consumò per molti anni in uno sforzo di conciliazione fra l'idea civile e quella religiosa, senza riuscire a raggiungere mai un equilibrio spontaneo, che a me pare di non scorgere neppure nel tanto fascinoso neoguelfismo giobertiano. Infatti, le lezioni della storia - superiore, sempre, al rigore delle astrazioni - riportarono alla realtà un paese che, nella ricerca di una individualità nazionale, negò inesorabilmente le pregiudiziali dell'universalismo cattolico; la rivoluzione del '48, nata indubbiamente sotto il segno del neo-guelfismo, smentì le profezie dello stesso Gioberti e
l'enciclica del 20 aprile annullò tutti i precedenti atti del pontificato di Pio IX. Lo stesso neoguelfismo, pur vinto sul piano politico, andò assumendo una posizione di critica e di polemica contro l'Italia liberale; inoltre, non esaurendosi nel compromesso giobertiano, oppose allo Stato italiano l'idea dell'impossibilità di concepire la politica al di fuori della morale, la democrazia senza la religione, l'Italia senza il Papa.
Ma il Risorgimento, come processo unitario, acquista un senso solo contrapponendosi alla visione ecumenica e supernazionale del Papato e attinge la piena coscienza di se stesso solo nella drammatica dialettica con la Chiesa. Se si prescinde dalla concezione mazziniana, che partiva da una opposizione ideale alla Chiesa di Roma, tutte le altre correnti del pensiero risorgimentale avanzarono esigenze di ammodernamento, di aggiornamento, senza mai porre, fra coscienza religiosa e coscienza civile, un vero e proprio dissidio, dissidio posto invece, approfondito - e anche esasperato - dall'atteggiamento di Pio IX durante la rivoluzione, dalla sua fuga a Gaeta, dalla sua collusione con i Borboni, dall'invocazione dell'intervento straniero a porre fine alla Repubblica Romana e a travolgere le ultime speranze nazionali. Il neoguelfismo pronuncia, ora, il suo solenne atto di contrizione con il Rinnovamento morale e civile; d'altra parte insorge la rivista gesuitica Civiltà Cattolica a condurre al più grande duello del secolo, quello fra cattolicismo e liberalismo. Né valsero, ad evitare la rottura o ad attenuare il contrasto, gli sforzi generosi di uomini come d'Azeglio, Giorgini, Tommaseo, perché ben presto l'insurrezione delle Legazioni nel '59 e l'occupazione delle Marche e dell'Umbria dopo l'impresa garibaldina svelarono la fatalità degli eventi, chiaramente intuita da Cavour nella sua solenne dichiarazione alla Camera dell'11 ottobre 1860 sulla necessità di Roma come capitale del Regno italiano.
Cavour tentò, con sforzi illuminati e magnanimi, di realizzare un accordo sincero e durevole con la Chiesa (le missioni Stellardi, de Roussy, Pantaleoni, Passaglia), ma la pace religiosa non venne, né vennero quegli accordi diplomatici necessari alla possibile coesistenza dei due poteri. Anzi Pio IX ribadì l'intangibilità del potere temporale col
Sillabo, che scopertamente denuncia le preoccupazioni e le inquietudini contingenti, a scapito delle stesse pregiudiziali teoriche. E, nello stesso spirito del Sillabo, con la «Ad apostolicae sedis» affermò - rinnovando a distanza di oltre cinque secoli il linguaggio di un Giovanni XXII contro Marsilio da Padova - che la Chiesa ha la «potestà di usare la forza», in quanto ha «potestà temporale diretta e indiretta». Gli accordi diplomatici non vennero neppure con gli uomini della Destra storica, i quali, sotto l'influenza della filosofia storicista e del pensiero hegeliano, mirarono ad affermare la supremazia ideale dello Stato. Anche se la Convenzione di settembre sembrò smentire le audacie ideali della Destra - suggellando, col trasporto della capitale a Firenze, la rinuncia a Roma - la linea obbligata di quella politica non mutò mai e, in ogni caso, gli ultimi rivoluzionari - i garibaldini di Aspromonte e Mentana - provvidero ad agitare il problema davanti alla coscienza nazionale.
Le leggi eversive del '66 e del '67, che abolivano la personalità giuridica delle comunità religiose, sopprimevano privilegi del clero, alienavano allo Stato i beni ecclesiastici, e la lotta contro i vescovi ribelli, che toccò, dopo la emanazione del Sillabo, punte asperrime, obbedivano al concetto dell'assoluta prevalenza del diritto civile su quello religioso e dimostravano che il conflitto fra le due istituzioni non poteva adagiarsi più negli schemi della tolleranza e della neutralità reciproca. Intanto, diffondendosi i particolari delle drammatiche circostanze in cui si era svolta la breve vicenda bellica di Mentana, esplodono violente proteste contro il pontefice che aveva sollecitato l'intervento di truppe straniere a quell'evento, e vive polemiche contro la non più tollerabile soggezione del governo regio al governo francese, e imperiose pressioni per la occupazione italiana di Roma. Così che, una volta registrata - non certo ad onore del governo di allora - l'attesa del crollo di Sedan per procedere alla breccia della città, il XX settembre perde il carattere mortificante del compromesso e assurge, col miracolo del sangue di Mentana, alla grandezza di Roma capitale d'Italia. E la legge delle guarentigie consacra, con una riaffermazione integrale dei poteri dello Stato, la trasformazione di Roma cattolica in Roma italiana.
Ad alcuni sembrò che, con le guarentigie, lo Stato eccedesse nelle sue concessioni; invece, in realtà, era lo Stato che ammetteva la libertà della Chiesa, riconosceva il magistero del pontefice, gli attribuiva un complesso di diritti. Ovviamente il Papa non accettò la legge, ne condannò gli autori con l'enciclica Ubi nos, ricorse a scomuniche e interdetti che mai raggiunsero tanta violenza di linguaggio e tanta intransigenza di stile. Nonostante ciò, la vecchia Destra proseguì nel suo programma teso a fondare in Italia lo Stato laico, lo Stato moderno e, a pochi anni di distanza dal XX settembre, soppresse tutti gli ordini, istituzioni e congregazioni religiose che importassero vita comune e avessero carattere ecclesiastico, tolse ai chierici il privilegio dell'esenzione della leva, abolì le facoltà di teologia nelle università. Ovviamente, in tale atmosfera, tutti i tentativi di compromesso, naufragarono nel nulla e il dominio di Roma e la sua intangibilità come capitale d'Italia trovarono la loro definitiva consacrazione - in sede di politica internazionale - nel trattato della Triplice Alleanza, che coronò, con la garanzia delle potenze conservatrici, le fortune rivoluzionarie del Risorgimento. Proprio nel trattato della Triplice e nella conseguente situazione diplomatica sono da spiegarsi gli atteggiamenti conciliatoristi assunti da Leone XIII che sollevarono in tutta la penisola entusiasmi e aspettazioni, per ricadere tuttavia ben presto, sia per i dissensi interni della Curia, che per il veto della Francia - nella dura logica di una lotta che non consentiva intermezzi e transazioni. La Sinistra accentua tale lotta con la legge sugli abusi dei ministri del culto, con quella sulla soppressione delle decime e quella sulla disciplina delle opere pie, con la inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, con la sua filosofia - il positivismo - con la sua arte - il verismo. Il ghibellino Francesco Crispi vide soltanto nel potere laico, nell'autorità civile, nella potestà umana la grande leva di resistenza alle ingerenze e alle sopraffazioni clericali; Giovanni Giolitti invece considerò Chiesa e Stato come «parallele che non si incontrano mai».
La virtuale abrogazione del non expedit e il patto Gentiloni fecero sì che di conciliazione vera e propria non si parlasse più, mentre il nuovo papa Pio X riaffermò solennemente la sua condizione di schiavitù nella Roma italiana, dichiarando giorno di grave lutto per la Chiesa il giorno in cui fu innalzato a Roma il monumento a Vittorio Emanuele II. Con questo Papa si delinea quel movimento di corporativismo e di socialismo cattolico, che sarà uno dei fondamenti dell'iniziativa politica confessionale in Italia, mentre, agli albori della prima guerra mondiale, con al soglio pontificio Benedetto XV, l'enciclica Ad beatissimi, riaffermava - con l'intransigenza dei Gregori e dei Bonifaci - la visione cattolica della civiltà politica moderna, che portava in sé il germe della guerra e della discordia, il seme di tutti i conflitti. E così, neppure nel periodo che va circa dal '14 al '20, i tentativi di conciliazione arrivarono in porto e le trattative impostate dal gabinetto Orlando si arenarono prima ancora della caduta di quel ministero.
Interviene ora, nel conflitto tra Stato e Chiesa, un nuovo elemento, che ne avrebbe presto mutato la fisionomia e il carattere: la nascita, cioè, del partito popolare, che si muove su una piattaforma esclusivamente politica e sociale, libera da tutte le influenze del criticismo e del revisionismo filosofico, pur rinnovando, nel suo programma, in termini aggiornati ma non mutati, la critica di Rosmini e del neoguelfismo. Di fronte a un movimento che riassumeva posizioni antiche e nuove con un successo tale da stupire gli stessi promotori (ben cento deputati popolari entrarono allora in Parlamento), il Vaticano non poteva mantenere le posizioni pregiudiziali di ostilità, anzi di scomunica, verso l'Italia moderna.
Però - bisogna dirlo - quando la dittatura irruppe, la resistenza dei popolari non fu pari alla loro forza e si dovettero annotare la tacita sconfessione di don Sturzo nel congresso di Torino, le numerose deviazioni dei popolari stessi verso il nuovo regime, la crisi parlamentare all'indomani della secessione dell'Aventino. Ma sta il fatto che il Vaticano giunse alla Conciliazione solo col regime di Mussolini, dimostrando una volta di più come la Chiesa non volesse accettare alcun accordo con quel liberalismo che le aveva opposto e le opponeva l'idea dello Stato moderno. Stipulando i patti del Laterano con la dittatura fascista, la Chiesa riprendeva l'antica tradizione di preminenza delle sue premesse ideali - indissolubilità del matrimonio, insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, garanzie del principato civile -; mentre il calcolo di Mussolini, di rafforzare la dittatura con l'appoggio del Vaticano e il regime con la forza del cattolicesimo, veniva smentito e travolto dalla logica della storia. |