Non c'è dubbio che, nel momento in cui i nostri padri stabilirono che il XX settembre di ogni anno dovesse segnare l'inizio dei lavori, essi guardarono a tale data nel suo significato storico concreto. Essi intesero cioè celebrare la presa di Roma e, con essa e in essa, il momento culminante del processo storico risorgimentale. Senza Roma, ed anzi con l'Italia praticamente divisa al centro da una «énclave» politicamente straniera e spiritualmente ostile, comprendente l'intero Lazio, il futuro stesso del nuovo Stato risultava incerto. Sul terreno diplomatico, il fatto che il cosiddetto Patrimonio di S. Pietro (vale a dire lo Stato temporale della Chiesa) continuasse ad esistere, rendeva molti Governi seriamente perplessi circa la legalità e la definitività della sparizione degli altri Stati indipendenti in cui l'Italia era stata divisa prima degli avvenimenti politico-militari del 1859-1861. In Italia, per di più, la permanenza del millenario Stato papale rappresentava uno stimolo psicologico incomprimibile per tutti coloro che avevano visto con malcontento il sorgere della nuova Italia - e sappiamo che ce n'erano molti, come è dimostrato se non altro dal drammatico fenomeno del banditismo meridionale, che spesso assunse forme di vera e propria guerriglia partigiana. Con Roma, veniva posto il suggello dei fatti ormai compiuti in forma irreversibile: l'Italia esisteva e bisognava accettarla, all'interno e all'estero.
A tutti questi eventi i massoni avevano partecipato in prima fila, pagando anche di persona con le persecuzioni, con il carcere, spesso con la morte sui campi di battaglia, quando non sui patiboli. In essi, la qualità di massoni e quella di cittadini erano inestricabilmente congiunte da mille vincoli. Anzi, l'essere massoni significava innanzitutto essere buoni italiani e la massoneria sembrava a molti avere un senso solo in quanto insegnasse a operare e, quando necessario, a morire per la propria Patria. E come sarebbe potuto mai essere diversamente, quando per quasi un secolo e mezzo diventar massoni aveva significato accettare coscientemente il destino del perseguitato? Quando ogni tirannello, re o granduca o delegato di polizia che fosse, riteneva suo dovere politico e suo merito religioso di incarcerar massoni? Quando il Cavour, il Mazzini, il Garibaldi, il Nigra, il Farina, e tanti e tanti altri, si erano iscritti alla Massoneria o comunque si erano dichiarati «fratelli ai fratelli»? Quando il gen. Cadorna varcò le vecchie mura che l'Imperatore Aureliano aveva eretto intorno a Roma, nulla sembrò più naturale che proclamare festa della Massoneria il XX settembre: Roma capitale, la corona di gemme preziose sul capo della risorta Italia. Non dobbiamo sorridere, oggi, a tanta distanza di tempo, degli entusiasmi di allora. Il XX settembre fu veramente una pietra miliare sul cammino storico del nostro Paese; e solo il cinismo trasformistico di molti e la cupidigia di servilismo di tanti e tanti altri fece sì che tale data fosse cancellata dalle solennità civili dello Stato.
Il fatto che il XX settembre meriti di essere ricordato dallo Stato e dai cittadini, giustifica che sia ricordato anche dai Massoni in quanto tali? La Massoneria italiana politicizzata del XIX Secolo, che si comportava così spesso come se fosse un partito politico, è comprensibile che scegliesse il XX settembre quale sua festività. Ma la Massoneria italiana di oggi, che va riscoprendo, al di là delle contingenze della storia civile, ragioni spirituali a carattere universale e soprattutto più intimamente proprie, che traggono origine da un passato che affonda le sue radici nelle tradizioni operative ed iniziatiche dell'Alto Medioevo, in quale senso e con quale significato può celebrare il XX settembre? Le cerimonie e le festività di ogni Massoneria, anche quando si ispirino ad esperienze o ad avvenimenti storici propri della Comunità nazionale in cui la Massoneria vive, devono purtuttavia esprimere significati che possano avere valore universale, così come universale - e cioè valido per tutti gli uomini liberi e di buoni costumi - è l'insegnamento spirituale che la Massoneria offre per il tramite del pensiero e delle opere dei propri associati. Ebbene, se negli anni immediatamente successivi al 1870 sembrò che il significato più importante della breccia di Porta Pia fosse la raggiunta unità d'Italia, oggi, a distanza di più di un secolo e dopo tante così drammatiche vicende, possiamo forse renderci conto del fatto che quelle poche cannonate hanno ormai acquisito un senso simbolico, e quindi molto più squisitamente massonico: quello di una vittoria del principio di tolleranza. Lo Stato pontificio fondava la sua esistenza su una visione della società fortemente comunitaria, basata sulla comune accettazione (vera o presunta che fosse) di un sistema dogmatico rigoroso, cui nessuno poteva derogare. Una ben precisa gerarchia, formalmente estranea allo Stato, ma in realtà con lo Stato strettamente intrecciata, sorvegliava affinché nessuno ardisse con parole o con atti mettere in dubbio la verità che lo Stato stesso doveva conservare e diffondere. Il dissenso non era e non poteva venire ammesso: il dissenziente, per il fatto stesso di essere tale, si poneva fuori della comunità, perdeva ogni diritto civile e morale e poteva venir legalmente perseguito nell'interesse della società, di cui - dissentendo - si rivelava nemico. Al limite, il dissenziente doveva venir perseguito nel suo stesso interesse: poiché il sistema assumeva di essere portatore di una verità chiara ed evidente, il dissenziente non poteva essere che un «traviato» che, attraverso la persecuzione, doveva venir aiutato a ritrovare la retta via. Una cosiffatta struttura statuale, se ben ci pensiamo, non è affatto propria soltanto del defunto Stato pontificio. Questo riteneva che fosse sua primaria finalità di difendere un suo proprio sistema religioso. Ma quale differenza sostanziale presentava tale tipo di Stato con uno Stato che pretenda di difendere un'ideologia totalitaria? Anche in tale caso, il dissenziente viene emarginato e diventa, anziché un nemico della santa religione, un nemico della nazione o un nemico del popolo. Anche in tal caso, il dissenziente va punito, nell'interesse presunto della società e, al limite, nel suo stesso interesse. E, come nello Stato teocratico pontificio, anche negli Stati totalitari moderni, il reo può talvolta salvarsi abiurando alle sue idee false e bugiarde, e poco importa se la moderna abiura si chiama invece autocritica. Non ha molta importanza, in verità, quale sia il valore intrinseco dell'ideologia di cui lo Stato presuma di doversi erigere a custode.
Non abbiamo difficoltà, per quanto ci riguarda, di riconoscere l'altezza morale e il profondo valore spirituale della esperienza religiosa cristiano-cattolica, quando essa sia vissuta con purezza di intenzioni. D'altronde, abbiamo letto e meditato abbastanza per non sapere come in ogni sistema ideologico si celi, a ben vedere, una qualche verità o almeno una qualche concreta giustificazione. Ciò che va respinto con ferma decisione non e quindi il sistema in sé, bensì la pretesa di chi presuma - in buona o in cattiva fede - di farne una Verità Assoluta, che si deve accettare al di fuori e magari contro il convincimento e la coscienza del singolo. Le cannonate di Porta Pia assumono così, al di là dell'importante, ma contingente episodio storico, il senso simbolico di una lotta fra la tolleranza e l'intolleranza, fra una società fondata sul rispetto delle opinioni e quindi sul rispetto del prossimo in quanto uomo, quali siano le idee che egli professi, e una società fondata sull'unanimismo ideologico e quindi sul rispetto solo di chi condivide le stesse idee e quindi sulla discriminazione e su un sostanziale disprezzo del prossimo.
Quale prova, infatti, di tolleranza rispettosa da parte dello Stato italiano verso il Sovrano del cessato Stato pontificio! Se il governo del Regno fosse stato intriso di spirito settario, se lo Stato italiano si fosse ispirato a un dogmatismo cattolico «a contrario», se il re d'Italia e i suoi ministri si fossero lasciati trascinare dai rigurgiti antireligiosi ed antipapali che pure allora comprensibilmente esistevano, anziché conformarsi, come fecero, a un superiore spirito di tolleranza, nulla avrebbe impedito di ripetere il gesto napoleonico, che commise a un plotone di gendarmi il compito di prelevare il Pontefice dal Vaticano non più difeso. Ma a che pro un simile gesto? Non il Papa in quanto suprema autorità religiosa era stato combattuto, non la religione si voleva offendere o conculcare. Gli uomini che guidavano l'Italia di allora sapevano che ogni persona umana ha il diritto originario di scegliere la propria strada e di conformare i suoi pensieri e i suoi atti alle proprie autonome scelte: e chi, nella libertà della sua coscienza e nella sua propria autonoma ricerca della verità intenda scegliere la via religiosa del cattolicesimo, deve ottenere dallo Stato la certezza della pienezza dei suoi diritti e dagli altri il rispetto delle sue convinzioni. E nulla di male se, per chi crede, questa credenza acquista il valore di una verità assoluta: ciò che importa alla società non è il convincimento del singolo, nell'intimo della sua coscienza, di aver acquisito la verità definitiva, bensì l'accettazione del principio che tale verità può venir accolta dal prossimo solo grazie ad una libera scelta, libera e quindi autonoma, e non invece in virtù di una imposizione esterna. Ogni uomo ha il diritto di perseguire liberamente le idee che meglio gli si confanno. Ogni uomo ha il diritto di ricercare la Parola Perduta. E se si convince di averla ritrovata, buon per lui. Ma senza iattanza, senza fanatismo, senza settarismo. Gesù di Nazareth disse: «se il tuo occhio pecca, strappalo e gettalo via», ma disse anche a chi voleva lapidare l'adultera: «chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». Cioè, siate rigorosi, voi stessi, nell'ossequio alle verità che avete accettato e al codice morale che avete prescelto, ma siate tolleranti verso le azioni altrui, almeno finché non siano tali da recarvi danno. Ma se la propria intima certezza pretende di trasformarsi in certezza comune, ecco allora emergere dagli oscuri abissi il fanatismo, il settarismo, il disprezzo degli altri, l'intolleranza. Le cannonate di Porta Pia, suggellando la fine di uno Stato fondato sull'imposizione di una ideologia religiosa, ebbero un ruolo liberatorio della società, che da chiusa e ostile diventava aperta e umana, e dei singoli uomini, che da servi diventavano liberi di ricercare la verità nelle autonome scelte della loro coscienza.
Ecco allora quale significato intimamente massonico assume la celebrazione del XX Settembre. Intimamente massonico, e quindi universale e necessario: il significato cioè di una vittoria del trinomio che riassume la più pura spiritualità del maestro massone: l'umanità, la tolleranza, la benevolenza. L'umiltà, perché essere umili significa essere coscienti dei limiti necessari della propria ragione e quindi delle proprie azioni; la tolleranza, perché essere coscienti dei propri limiti significa essere coscienti della possibilità che altri possano pensare in modo difforme dal nostro; la benevolenza, perché l'umiltà e la tolleranza rendono coscienti del fatto che ogni proprio simile è degno di rispetto e ha diritto alla propria dignità, alla propria vita e al proprio onore.
Trinomio che, trasfuso dal piano della coscienza individuale a quello dell'etica collettiva, assorbe l'altro trinomio, quello adottato a metà del secolo scorso: «eguaglianza, libertà, fraternità». Perché chi è umile si sente eguale ai propri simili, chi è tollerante ama la libertà e chi prova benevolenza verso gli altri si sente fratello di tutti gli uomini. Questo spirito di superiore illuminata ansia di un'etica umanitaria e filantropica è il contributo che la Massoneria universale offre al mondo. E nel celebrare il XX settembre 1870, al di là di ogni contingenza, la Massoneria italiana offre a tutti i fratelli del mondo un simbolo altissimo di questa medesima nobile ed elevata spiritualità. |