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La nostra stella - aveva detto Cavour l'11 ottobre 1860 - è di fare che la Città Eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico.

Cavour si pose a quest'opera per la strada della diplomazia: incaricò Diomede Pantaleoni di saggiare il terreno per una conciliazione. Il Pantaleoni gli sottopose un progetto per uno status che attribuisse Roma all'Italia, garantendo libertà alla Chiesa ed ai cattolici di tutto il mondo la indipendenza del Pontefice dal potere civile. Il P. Passaglia fu poi associato al Pantaleoni dopo che Pio IX ed il Card. Antonelli mostrarono di voler considerare l'argomento.

Ma il Papa, in una allocuzione, professa di respingere ogni idea di accordo con l'Italia e allora Cavour si procura un ordine del giorno, fatto votare alla unanimità dalla Camera dei deputati, che dovrà essere la bandiera della politica che condurrà a Roma:

«La Camera, udite le dichiarazioni del Ministero, confida che, assicurata l'indipendenza, la dignità ed il decoro del Pontefice e la piena libertà della Chiesa, abbia lungo, col concerto della Francia, l'applicazione del principio di non intervento e che Roma capitale acclamata dall'opinione nazionale, sia resa alla Italia».

Cavour, nell'aprile 1861 chiese al principe Napoleone di ottenere, da Napoleone III, il ritiro del presidio francese a Roma e la proclamazione del non intervento in Italia, compreso lo Stato Pontificio.

Allora il principe mandò a Cavour un abbozzo di convenzione secondo la quale la Francia avrebbe ritirato le sue truppe da Roma e l'Italia avrebbe, dal canto suo, assunto l'impegno di non aggredire il rimanente dello Stato Pontificio, di ammettere l'organizzazione di un esercito pontificio di volontari cattolici stranieri, nei limiti di diecimila effettivi. Infine, l'Italia accettava di trattare col governo pontificio, per prendere a proprio carico «la parte proporzionale che le spetterebbe, nella passività degli antichi Stati della Chiesa».

Da queste basi le parti sembrava che fossero quasi pervenute ad un accordo quando il 6 giugno 1861 il Cavour moriva.

 

Il 10 settembre, il Ricasoli riprende a sollecitare dal Card. Antonelli un accordo «che lasciando intatti i diritti della nazione, provvederebbe efficacemente alla dignità e grandezza della Chiesa».

Ma il Card. Antonelli, con l'ambasciatore francese a Roma, De La Vallette, diceva: Quant à pactiser avec les spoliateurs, nous ne le ferons jamais.

La successione di Urbano Rattazzi al Ricasoli, il 6 maggio 1862, ridestò l'agitazione delle sinistre, sfiduciate del tutto del governo moderato.

Garibaldi si presentò a Palermo, naturalmente senza alcun mandato governativo, vi ricevette le autorità e vi passò in rivista la guardia nazionale. Si gridava: Viva Garibaldi! Roma o morte!

Il Ministero non seppe ricorrere che ad un proclama reale ma Garibaldi proseguì la sua marcia «verso Catania» suscitando l'entusiasmo delle popolazioni.

La Francia si agitava con rimostranze ed il governo si aspettava uno sbarco dei garibaldini sul continente. Intanto spediva a Parigi il marchese Tripoli per rabbonire l'imperatore ma il Moniteur del 21 agosto 1862 proclamava che davanti a minacce ed alle conseguenze di una insurrezione demagogica il dovere del governo, l'onore della Francia, esigevano la difesa del Santo Padre.

Garibaldi sbarcò a Mileto ma fu respinto dalle guarnigioni di Reggio e quindi inseguito ed «avviluppato» dalle truppe del colonnello Pallavicini, rimanendo ferito e prigioniero ad Aspromonte.

Il ministero si dimise senza aspettare un formale voto di sfiducia e fu rimpiazzato da un ministero di Luigi Carlo Farini, l'8 dicembre 1862. Il Farini, gravemente ammalato, veniva sostituito dal Minghetti. Il quale riprese le trattative precedenti con Napoleone III, che non si contentava più delle proposte fatte a Cavour e pretendeva maggiori garanzie.

 

Siccome Minghetti fece intendere all'imperatore la possibilità di trasportare la capitale in una città più centrale, come guarentigia maggiore per lui e per il Pontefice, Napoleone avrebbe dovuto ravvisarvi una implicita rinuncia del governo italiano a Roma capitale. Rassicurato lui, la convenzione venne firmata il 15 settembre 1864. Essa portava la clausola dello sgombero delle truppe francesi da Roma entro due anni con la condizione del trasporto della capitale da Torino a Firenze.

Il primo articolo era concepito come segue: «Et l'Italie s'engage à ne pas attaquer le territoire actuel du Saint Père, et à empêcher, même par la force, toute attaque venant de l'exterieur contre le dit territoire».

A Torino, la notizia dello spostamento della capitale determinò tumulti gravissimi, con 52 morti e 187 feriti. Il 28 settembre il re congeda il ministero ed incarica Lamarmora di comporne un altro.

Il nuovo ministero accettò la convenzione del 15 settembre, già sottoscritta dal re e dall'imperatore, riservandosi però di modificare il trattato nel senso che il trasferimento della capitale da Torino a Firenze venisse preventivamente approvato dal parlamento.

Il Ministro degli esteri francese avvertì il nostro ministero che con tali atti rinunciava a Roma e che Firenze non sarebbe stata capitale provvisoria ma permanente.

Ci fu uno scambio di telegrammi e di lettere finché Lamarmora indirizzò al Nigra, il 7 novembre, una nota nella quale si stabiliva che essendosi il ministro degli esteri di Francia riservata «intera libertà di azione» in caso di una rivoluzione che scoppiasse spontaneamente a Roma e rovesciasse il potere temporale pontificio, l'Italia faceva la stessa riserva.

Il riconoscimento del diritto di Italia su Roma riposò tutto sulla prevista azione degli estremisti!

 

La grande maggioranza del parlamento, nella seduta del 19 novembre 1864 approvò il trasferimento a Firenze della capitale.

I Francesi avevano sgombrato Roma l'11 dicembre 1866 e subito il Comitato Nazionale Romano, l'Unione liberale italiana e il Centro di insurrezione del F:. Giacinto Bruzzesi, cognato del futuro G:. M:. Adriano Lemmi, avevano concentrata la preparazione e la propaganda per Roma italiana.

 

Essendo presidente del consiglio Urbano Rattazzi (succeduto al Ricasoli il 10 aprile 1867 e questi succeduto al Lamarmora il 20 giugno 1866) fu arrestato Garibaldi a Sinalunga mentre continuava l'arruolamento dei garibaldini, intorno a Menotti, e la loro invasione del territorio pontificio. Il 1° ottobre infatti il Giornale Ufficiale dello stato pontificio annunziava che bande di insorti dopo aver forzato il confine ad Acquapendente, erano state poste in fuga dalle truppe papali.

Una corrispondenza del 13 ottobre 1867 diretta dal ministro degli esteri al Nigra, a Parigi, rileva che «le cose sono giunte a tale, che è difficile uscirne senza una occupazione del territorio pontificio per parte delle nostre truppe».

Lo stesso giorno, Napoleone III telegrafava al Re d'Italia: «Vedo con dolore che i volontari entrano in gran numero sul territorio pontificio e che, così, la Convenzione del 15 settembre si trova elusa. Se ciò dura, sarò costretto, mal mio grado, ad inviare un corpo d'esercito a Roma. Prego V. M. di fare ogni sforzo onde rendere inutile un intervento».

Risponde il Re lo stesso giorno accampando «la estensione della frontiera e le difficoltà ch'essa presenta per essere custodita» ma confessandogli che «lo spirito delle popolazioni italiane é eccitato, e che la sola idea di un intervento francese potrebbe avere delle conseguenze della più alta gravità». Assicura che avrebbero fatto «tutto il possibile per paralizzare l'invasione dei volontari» ma che «se le cose arrivassero al punto previsto da V. M., l'unico mezzo per accomodar tutto sarebbe quello di mandare le nostre truppe a Roma. Quanto alla questione politica potremo intenderci dopo».

Il 16 ottobre il ministro degli esteri raccomanda a Nigra di fare ogni sforzo per impedire la occupazione francese e gli annuncia che «siamo risoluti a che le nostre truppe varchino la frontiera e marcino su Roma, al primo annunzio che la flotta francese sia partita da Tolone».

Il 17 ottobre l'incaricato di affari di Francia a Roma riceve queste istruzioni dal Marchese Moustier: Il governo pontificio continui a difendersi energicamente (un paio di giorni prima i garibaldini avevano avuto un insuccesso a Montelibretti); l'assistenza della Francia non gli farà difetto!

Il governo francese sollecita il rispetto della Convenzione, chiede che si sopprimano uffici di arruolamento e comitati di soccorso e che si disponga a che i volontari siano disarmati, arrestati e internati.

 

Il 19 ottobre, il Re rivolge un appello a Napoleone III. Dopo vari preamboli, entra a trattare della rivoluzione. Ebbene, «ora che essa minaccia la sicurezza della Santa Sede, io non posso far nulla per impedirla, non potendo passare il confine».

«Se V.M. crede dover inviare delle truppe a Civitavecchia o a Roma, in tal caso io dovrei simultaneamente oltrepassare il confine, e si metterebbe bentosto termine a cotesto stato anormale di cose. Farei nel medesimo tempo un proclama, nel quale dichiarerei di non avere alcuna idea ostile contro l'appoggio francese, e dichiarerei anche formalmente che é per ristabilir lo ordine, violato nostro malgrado, che noi ci avanziamo. V. M., nell'alta sua saggezza troverà poi il modo di accomodare le cose in guisa che gl'interessi delle due nazioni siano messi in salvo».

 

Garibaldi evade da Caprera lo stesso giorno per opera del genero Canzio e col danaro di Lemmi. Il 22 arringa il popolo di Firenze, nella piazza di S. Maria Novella.

Rattazzi, sollecitato dall'incaricato di Francia a fare arrestare Garibaldi, gli ha risposto che «sta per dare l'ordine relativo».

Ma, subito dopo il discorso, Garibaldi lascia Firenze ed il giorno dopo parla a Rieti.

Allora, il governo si dimette. Il gen. Cialdini rinuncia all'incarico dopo un infruttuoso tentativo (per mala sorte, come prevede, il 25, il Moustier). Vi riuscirà il gen. Menabrea, il 27 ottobre.

Il 21 ottobre, Napoleone III ha risposto che «una occupazione mista non farebbe che complicare la questione», esorta il Re a «separarsi con una risoluzione energica dall'elemento rivoluzionario» e pertanto spera che adotterà tutte le misure necessarie «onde rendere inutile una spedizione francese a Roma». Conclude con la promessa che «appena cessata l'insurrezione» egli é «pronto a cercare con voi i mezzi propri a regolare la questione romana».

 

Intanto, i cospiratori romani si erano mossi. Il 22 ottobre, avevano distrutta un'ala della caserma Serritori, gettano bombe, attaccato pattuglie, combattuto in casa Ajani ma i settanta di Enrico Cairoli non erano riusciti a penetrare entro le mura e l'insurrezione era stata soffocata.

Il 25 il Re telegrafa all'Imperatore affermando che Garibaldi é stato arrestato due volte e che lo sarebbe stato una terza «senza la crisi ministeriale». Che i volontari,invece di aumentare, sono diminuiti «pel gran numero di quelli che vennero internati». Nega che si siano forniti cannoni e cavalli.

Il giorno dopo, l'Imperatore gli risponde di avere finora sospesa la partenza della flotta («dietro vostra domanda») ma che non può ritardare più oltre l'occupazione di Civitavecchia. Misura che non ha nulla di aggressivo contro l'Italia. Quando l'ordine sarà ristabilito, farà tutti i suoi sforzi per impegnare le Potenze a regolare una questione che interessa «a sì alto grado, l'Europa tutta». Sempre il 26, Napoleone III telegrafa a Vittorio Emanuele II che la fregata spagnola Città di Madrid ha avuto l'ordine di partenza immediata per Civitavecchia e che lo autorizza, se crede, a darne l'annuncio. Annuncio che veniva, del resto, pubblicato dal Moniteur.

Intanto, lo stesso 26 ottobre Garibaldi debellava la guarnigione di Monterotondo e si impossessava di quell'importante castello.

L'indomani il Re risponde a Napoleone III di aver dato ordine alle proprie truppe che si trovano al confine di «avanzarsi sul territorio romano e di concorrere al ristabilimento dell'ordine e della legalità». Annota che le truppe hanno anche ricevuto l'ordine «di evitare ogni conflitto con le truppe francesi» e manifesta fiducia che anche lui darà alla sua armata le stesse istruzioni.

 

Il Re emana anche un proclama «agli Italiani» che dovrebbe rassicurare Napoleone ma questi si affretta a deplorare «profondamente» l'ingresso delle truppe italiane nel territorio pontificio.

E Vittorio Emanuele, il 28, gli risponde: «Credo che avrete già letto il mio proclama di ieri, di cui, son certo, sarete soddisfatto. Nello stato attuale della opinione pubblica, in Italia, mi sarebbe impossibile, senza correre i maggiori pericoli, rinunciare all'entrata sul territorio romano, se le truppe di V.M. sbarcano a Civitavecchia. Secondo gli ordini che ho dato alle mie truppe, e qualora V.M. lo voglia, le complicazioni che essa teme non sono per nulla da temersi.

«Io dubito che Garibaldi possa tanto facilmente entrare in Roma. In ogni caso, sia che si occupi, o non occupi, tutto potrebbe accomodarsi, se V.M. vuol fare una proposta per regolare gli affari di Roma».

La flotta francese arriva, la sera del 28 ottobre, in vista di Civitavecchia e la Gazzetta Ufficiale del 30 scrive che: Avendo il Moniteur di Francia annunziato, che la bandiera francese sventola sulle mura di Civitavecchia, il Governo del Re, coerentemente alle dichiarazioni da lui antecedentemente fatte anche alle Potenze amiche in vista di tale eventualità, ha dato l'ordine alle regie truppe di varcare la frontiera, per occupare alcuni punti del territorio pontificio.

Alle quattro del pomeriggio del 30, il 29° reggimento francese di fanteria entra in Roma mentre il gen. Lamarmora parte per Parigi in «missione confidenziale». Il 31, da Civitavecchia, il comandante del corpo francese di spedizione, gen. De Failly annuncia al popolo romano che l'Imperatore Napoleone manda di nuovo le sue truppe a Roma, per proteggere il Santo Padre ed il trono pontificio dagli attacchi armati di bande rivoluzionarie.

 

Garibaldi era rimasto, dal 27 al 30, con Fabrizi, Mario, Canzio e qualche milite nei dintorni di Castel Giubileo e della Cascina di S. Colombo, per intravedere gli eventi di Roma. Il 30, si spinge addirittura al Casale de' Pazzi di fronte a Monte Sacro, per stimolare la rivolta. Infine, si risolve a ordinare la retromarcia e concentrare le sue forze a Monterotondo.

Di fronte alla notizia dell'intervento francese, il 1° novembre scrive questo proclama:

«Se però fatti infami, continuazione della vigliacca Convenzione del settembre, spingessero il gesuitismo di una sudicia consorteria a farci mettere giù le armi in obbedienza agli ordini del Due Dicembre, allora ricorderò al mondo che, qui, io solo generale romano con pieni poteri, dal solo governo legale, della repubblica romana, eletto con suffragio universale, ho il diritto di mantenermi armato in questo territorio di mia giurisdizione».

Il De Failly potrà poi vantarsi che «les chassepots ont fait merveilles», il 3 novembre a Mentana, dove duemila francesi e tremila pontifici incontravano e battevano le «bande», assai inferiori di numero ed enormemente inferiori di armi, di Giuseppe Garibaldi.

Arrestato lui per la terza volta, le truppe italiane si ritirano al di qua del confine sperando che i francesi ritornino a casa.

Ma il ministro Rouher dichiara alla Camera francese «que l'Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu'elle ne s'emparera jamais de cette ville. La France ne supportera jamais cette violence faite à son honneur et au catholicisme».

Assumendo l'ufficio di presidente della Camera dei Deputati, Lanza gli risponde il 9 dicembre che «giammai» l'Italia rinuncerà a Roma.

Il governo Menabrea si trascina fino al 22 dicembre quando la maggioranza della Camera vota contro un o.d.g. di approvazione della condotta del governo nelle recenti vicende dello Stato Pontificio.

Menabrea si dimette e viene incaricato di comporre un altro ministero, che regge stentatamente e per poco.

Alla fine, il 15 dicembre 1869 Lanza si presenta alla Camera con un nuovo governo: il governo che arriverà a Roma.

 

La Convenzione del 15 settembre 1864 era ormai polverizzata; i francesi occupavano Roma e Giuseppe Petroni, il futuro G:.M:. del Grande Oriente d'Italia, vi era in carcere già da sedici anni.

Un tentativo di alleanza tra Francia, Austria e Italia era naufragato perché Napoleone respingeva la pretesa dell'Italia, di far ritirare le truppe francesi e di avere mano libera sullo stato pontificio.

Napoleone il piccolo decideva così la propria sorte, scegliendo Prussiani a Parigi piuttosto che gli Italiani a Roma.

Il 24 novembre 1876, all'assemblea francese, Gerolamo Napoleone rilevava amaramente che la conservazione del potere temporale era stata la causa della perdita dell'Alsazia e della Lorena.

Il Concilio Vaticano che tanto tempo dopo si sarebbe detto I° impensierì le Potenze a causa del tema della infallibilità papale, rivelatore di tendenze assolutistiche decisamente antistoriche e non conciliabili con il principio di nazionalità.

La proclamazione del dogma, denunciando il prevalere di quelle tendenze veniva a disporre a favore dell'Italia la pubblica opinione europea.

Poco dopo l'inizio delle ostilità con la Prussia, la Francia avverte il governo italiano che é pronta a far rivivere la Convenzione del 15 settembre 1864 ed a richiamare le sue truppe.

Siccome la Convenzione escludeva i casi straordinari (e lo stesso Napoleone III si era valso, nel 1867, di tale clausola), non c'era bisogno di denunciarla, come chiedevano Mancini, Guerzoni, Cairoli, Nicotera, Della Porta ed altri.

 

Ma la sorte di Francia si aggravava ed il 19 agosto l'ultimo soldato francese si era reimbarcato a Civitavecchia sebbene l'Imperatrice reggente trepidasse anche per il Papa e spedisse nelle stesse acque la nave da guerra Orénoque.

Il principe Gerolamo, però, veniva spedito a Firenze per chiedere soccorsi all'Italia, che venivano negati.

Il 2 settembre la Francia é definitivamente sconfitta a Sédan. Cade prigioniero lo stesso Imperatore. Il 4 settembre é proclamata la Repubblica.

Pur con tutti i riguardi per le Potenze e per lo stesso Pontefice, la strada di Roma, sgomberata dalla sorte, sarà percorsa.

 

Il 29 agosto il ministro degli esteri dirama una circolare ai rappresentanti di S.M. all'estero. In essa viene descritta la posizione dell'Italia cui la «forza delle cose fa sentire più imperiosamente la necessità di risolvere la questione romana».

Il governo pontificio si rivolge ai medesimi destinatari affinché si oppongano «alle violenze dal governo sardo minacciate» ma le potenze o non rispondono o rispondono picche.

Lanza spedisce l'otto settembre due telegrammi rispettivamente ai prefetti di Caserta e di Sassari per raccomandare loro, rispettivamente, la miglior custodia di Mazzini e di Garibaldi e fa mandare a Roma, per il conte Ponza di San Martino, una lettera autografa del Re:

 

 

Beatissimo Padre!

Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo di italiano, mi indirizzo, come altre volte, al cuore di Vostra Santità.

Un turbine di pericoli minaccia l'Europa: giovandosi della guerra che desola il centro del Continente, il partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia e prepara, specialmente in Italia e nelle provincie governate da Vostra Santità, le ultime offese alla monarchia e al papato.

So che la grandezza dell'animo vostro non sarebbe mai minore della grandezza degli avvenimenti; ma essendo io re cattolico e re italiano, e come tale custode garante per disposizione della Provvidenza e per la volontà nazionale dei destini di tutti gli italiani, sento il dovere di prendere in faccia all'Europa ed alla cattolicità la responsabilità di mantenere l'ordine nella Penisola, e la sicurezza della Santa Sede.

Ora, Beatissimo Padre, le condizioni d'animo delle popolazioni romane,e la presenza fra loro di truppe straniere venute con diversi intendimenti da luoghi diversi, sono fomite di agitazioni e di pericoli evidenti. In caso di effervescenza, le passioni possono condurre alle violenze e alla effusione di un sangue che é mio. Il vostro dovere é di evitare ciò, di impedirlo.

Veggo l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe già poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili, per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine.

La Santità Vostra non vorrà vedere, in questo provvedimento di precauzione, un atto ostile. Il mio Governo e le mie forze, si restringeranno assolutamente ad un'azione conservatrice e a tutelare i diritti, facilmente conciliabili delle popolazioni romane, coll'inviolabilità del Sommo Pontefice, e la sua spirituale autorità, coll'indipendenza della Santa Sede.

Se Vostra Santità, come non ne dubito, come il sacro carattere e la benignità dell'animo mi danno il diritto a sperare, ispirarsi a un desiderio eguale al mio di evitare un conflitto, e sfuggire al pericolo della violenza, potrà prendere col conte San Martino, latore di questo monito, gli opportuni concerti col mio Governo, concernenti l'intento desiderato.

Mi permetta la Santità Vostra di sperare ancora che il momento attuale sia solenne per l'Italia e per la Chiesa. Il papato aggiunga l'efficacia allo spirito di benevolenza inestinguibile dell'animo vostro, verso questa terra che é pure vostra patria, e ai sentimenti di conciliazione che mi studiai sempre con incrollabile perseveranza di tradurre in atto, perché, soddisfacendo alle aspirazioni nazionali, il capo della cattolicità, circondato dalla devozione delle popolazioni italiane, conservasse, sulle sponde del Tevere, una Sede gloriosa ed indipendente da ogni umana sovranità.

La Santità Vostra, liberando Roma dalle truppe straniere, togliendola al pericolo continuo d'essere il campo di battaglia dei partiti sovversivi, avrà dato compimento ad un'opera meravigliosa, restituita la pace alla Chiesa, mostrato all'Europa spaventata dagli orrori della guerra, come si possano vincere grandi battaglie ed ottenere vittorie immortali con un atto di giustizia, con una sola parola di affetto.

Prego Vostra Beatitudine di volermi impartire la Sua Apostolica Benedizione, e riprotesto alla Santità Vostra i sentimenti del mio profondo rispetto.

 

Firenze, 8 settembre 1870.

Di Vostra Santità
Umilissimo, obbedientissimo e devotissimo

VITTORIO EMANUELE

 

Il San Martino riceveva, ovviamente, dal Lanza istruzioni che lo facevano avvisato che «Ci riserviamo adunque di far entrare le nostre truppe nel territorio romano, quando le circostanze ce lo dimostrino necessario, lasciando alle popolazioni la cura di provvedere alla propria amministrazione».

Il conte San Martino, arrivato la mattina del nove insieme al segretario marchese Guiccioli, vedrà la sera stessa il cardinale Antonelli mentre l'udienza papale gli é fissata per la mattina del 10 alle dieci e mezza.

Nelle due ore abbondanti di conversazione con Antonelli, gli comunica che le nostre truppe hanno pronto l'ordine di entrare nel territorio pontificio e che ben presto ne sarà cominciata la esecuzione «come unico mezzo per evitare una rivoluzione, che poteva trascinare essi e noi nell'estrema rovina». Che, insomma, quella era la sola maniera di mettere il Papa in condizione di rimanere in Roma con tutte le sue istituzioni, libero e sicuro.

Il cardinale fu fermo nel rispondere che «la Santa Sede non poteva rinunziare a nessuno dei propri diritti, che si trattava di vera violenza, non giustificata neppure dal pericolo di una rivoluzione perché Roma era in tali condizioni di tranquillità da escludere questa supposizione e che il Papa non poteva consacrare una violenza».

«Il Papa era profondamente addolorato, ma non mi parve disconoscere che gli ultimi avvenimenti rendono inevitabile per l'Italia l'azione su Roma che intraprende. Esso non la riconoscerà legittima, protesterà in faccia al mondo, ma espresse troppo raccapriccio per le carnificine francesi e prussiane, per non darmi sperare che non siano i modelli che vuol prendere. Io studiai di essere molto mite nella forma, e durante un'ora fui ascoltato con benevolenza, ma fui fermo nel dirgli che l'Italia trova il suo proposito di avere Roma, buono e morale, e che é inutile di sperare che ceda. Il papa mi disse, leggendo la lettera, che erano inutili tante parole, che avrebbe amato meglio gli si dicesse a dirittura che il Governo era costretto di entrare nel suo Stato.

«Intanto quel che era di forma è fatto; il Governo pontificio fu uffizialmente prevenuto che le nostre truppe entrano. Se vorrà battersi, spero sarà battuto. Ed avremo fatto ogni sforzo per evitare questa lotta».

 

Il giorno seguente, le truppe italiane si disponevano ad entrare nello stato pontificio mentre il Papa rispondeva al Re:

 

Maestà,

Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non é degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. lo benedico Iddio, il quale ha sofferto che V.M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua lettera, né aderire ai principii ch'essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che é interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V.M. per liberarla da ogni pericolo, e renderla partecipe delle misericordie ond'Ella ha bisogno.

 

Dal Vaticano, 11 settembre 1870.

PIUS PP. IX

 

Ritornato a Firenze, il Conte di San Martino riferiva poi la frase pronunziata da Pio IX: «Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in verità vi dico che non entrerete in Roma».

Le operazioni militari cominciarono il 10 agosto, con il conferimento del comando di un «corpo di osservazione» al gen. Raffaele Cadorna, in quell'epoca comandante interinale del 1° corpo d'esercito, succeduto al gen. Cialdini, dimissionario.

Le istruzioni erano, per il momento, di impedire la violazione della frontiera degli Stati Pontifici, di mantenere l'ordine e di reprimere ogni possibile moto insurrezionale e - qualora moti insurrezionali dovessero verificarsi negli Stati pontifici, impedire che si estendessero di qua dal confine.

Per i tre divisionari, il ministro propose al gen. Cadorna i generali Ferrero, Mazé de la Roche e Bixio.

Siccome Bixio avrebbe detto che i cardinali erano da gettarsi tutti nel Tevere, Caderne lo riteneva non convenire ad una tale missione. Al suo posto, fu destinato il gen. Cosenz.

Le forze che alla fine risultarono poste a disposizione furono di sessantamila uomini, di cui cinquantamila combattenti, contro quattordicimila pontifici.

La possibilità di dovere attaccare luoghi fortificati e il ricordo che trentamila francesi contro diecimila garibaldini avevano, nel 1849, impiegato un mese per impadronirsi della città, consigliava questa sovrabbondanza di forze.

 

Il 18 agosto fu stabilito il Quartier generale a Spoleto, nella stessa casa che nel 1860 aveva ospitato il Quartier generale di Lamoriciére, che combatteva per il Papa contro gli Italiani.

Furono successivamente aggiunte altre due divisioni, del gen. Angioletti e del gen. Bixio, la quale ultima aveva l'obiettivo di occupare Civitavecchia e quindi di congiungersi al corpo d'esercito.

Una brigata mista, non facente parte del corpo di spedizione, col compito di presidiare le città che venivano occupate, era comandata dal gen. Bonvicini.

Il gen. Cadorna stabilì due punti di attacco vero, a Porta Salaria e a Porta Pia e due punti di attacco simulati, Porta Maggiore e Porta San Giovanni. Il piano d'operazioni fu turbato gravemente dallo stravagante comportamento del Ministro della guerra, le cui «fluttuanti» disposizioni culminarono con una improvvisa chiamata del gen. Cadorna a Firenze.

A Firenze, Cadorna constata che le condizioni mentali di Govone sono anormali e che, purtroppo, il presidente del Consiglio ed i colleghi suoi non mostrano di essersene accorti.

Il gen. Cadorna riparte con lo scrupolo di aver loro taciuta la sua constatazione. Continua il tira e molla di disposizioni sempre più assurde fino a quando, il giorno 7, ministro della guerra diventa Ricotti e del povero Govone la storia non parlerà più.

 

Ricotti raccomanda di tagliare fuori da Roma le truppe straniere di Viterbo, in modo che se non si potrà evitare un combattimento questo non accada, possibilmente, nelle vicinanze di Roma.

Quel che é peggio, attraverso un «parlamentario», si deve far sapere che le forze «indigene» non saranno disarmate né sciolte e che a ufficiali e sottufficiali saranno conservati grado, stipendio e anzianità.

E questo moderatismo risulterà esagerato persino a Cadorna, che sa quanto le forze indigene pontificie sono invise all'esercito «perché nemiche dichiarate d'Italia».

Con nota successiva, il ministro sopprime le parole «stipendio e anzianità».

Il 16 settembre il comandante della piazza di Civitavecchia si arrende al gen. Bixio mentre il giorno prima Cadorna manda un «parlamentario» a Roma, con la seguente lettera:

 

Posta della Storta, 15 settembre 1870.

A nome di S.M. il Re d'Italia, il sottoscritto domanda l'ingresso della truppa italiana in Roma, onde occupare militarmente la città.

La missione delle RR. truppe e puramente conservatrice, e diretta e tutelare l'ordine.

Gli ufficiali e sott'ufficiali indigeni sarebbero conservati nei loro gradi.

Le truppe straniere debbono essere licenziate, concedendo loro il rimpatrio colla conservazione di tutti i diritti regolarmente stipulati col Governo pontificio.

 

Il luogotenente-generale
comandante il 4° corpo d'esercito
R. CADORNA.

 

Kanzler risponde:

 

Ho ricevuto l'invito di lasciar entrare le truppe sotto il comando dell'E.V.

Sua Santità desidera di veder Roma occupata dalle proprie sue truppe, e non da quelle di altri Sovrani.

Pertanto, ho l'onore di rispondere, che sono risoluto di fare resistenza coi mezzi che stanno a mia disposizione, come m'impone l'onore e il dovere.

 

Il generale comandante
le truppe pontificie

KANZLER

 

 

È l'ora dell'attacco e le truppe si muovono di conseguenza ma il Ministero della guerra ordina di fare un altro tentativo, di far sapere al pontifice la resa di Civitavecchia e di indurre il loro governo a non opporre resistenza.

Kanzler risponde ancora rifiutando e sperando che Cadorna rifletterà sulla «immensa responsabilità che incontra innanzi a Dio ed al Tribunale della Storia, spingendo fino all'ultimo la già troppo inoltrata violenza».

E finalmente parte l'ordine di passaggio del Tevere, mentre anche il ministro di Prussia, che si era adoperato per la resa di Roma, desisteva dal tentativo ed il Ministro della Guerra telegrafava il 18 a Cadorna di impadronirsi di forza della città di Roma, salva la Città Leonina, pur rammentandogli ancora una volta prudenza, moderazione prontezza.

Cadorna non aveva potuto capire ne se, nell'ipotesi che le truppe pontificie vi si fossero appunto concentrate continuando a combattere, avrebbe dovuto continuare a rispettare la Città Leonina.

Chiese ragguaglio e ne ottenne uno che non rispondeva affatto. Ma, insomma, emanò l'ordine definitivo di attacco per il 20, l'indomani.

Bixio, giunto il 19 a Castel Guido, vi riceveva l'ordine di recarsi sollecitamente sotto Roma, sbarrando gli accessi alla città sulla destra del Tevere per impedire la dispersione di truppe pontificie. Egli lo eseguì puntualmente, come riconobbe Cadorna, cui pure era antipatico.

Una batteria della divisione Angioletti, dalla cascina Matteis alle cinque e trenta della mattina del 20 apre il fuoco su Porta S. Giovanni e lo continua intensissimo fino alle 7,30.

Un quarto d'ora prima era cominciato il fuoco contro «l'opera che difendeva l'accesso della ferrovia», sulla Tiburtina.

Il F:. Bixio attaccava Porta S. Pancrazio, fino alle 10, quando vi venne inalberata la bandiera bianca.

Su Porta Pia, il gen. Mazé batteva dalla Nomentana, e verso le 9 essendovi ormai praticabile la breccia per circa 30 metri, sconvolto il trinceramento e allontanati i difensori, Mazé e Cosenz ebbero l'ordine di fare avanzare più verso la piazza le truppe a ciò destinate.

Sboccando dalla villa Patrizi, il 39° reggimento di fanteria si lanciava all'assalto della Porta Pia, mentre il 35° bersaglieri lo proteggeva dalla villa e si affiancavano nell'assalto altre colonne con alla testa, una di esse, il 34° bersaglieri che perdeva il suo comandante, raggiunto da una palla.

Poco dopo, arrivavano al Comando i parlamentari pontifici con una lettera di Kanzler, che chiedeva di trattare la resa.

Arrivato Kanzler, presentò una nota di proposte - concordate col Papa dal Card. Antonelli - che a Cadorna parvero più vantaggiose delle condizioni previste dal suo governo:

 

Sarà circondata del massimo rispetto la Sacra persona del Santo Padre, verrà rispettato il Sacro Collegio ed il clero tutto non solo ma saranno conservate tutte le corporazioni religiose di ambo i sessi, incluse quelle tolte dalle leggi del Regno italiano.

I luoghi di condanna verranno guardati dalle truppe pontificie, fino a che saranno regolarmente concambiate dalle truppe italiane.

3° Il Governo pontificio scioglierà le sue truppe dal giuramento di fedeltà

4° Le truppe indigene saranno ricevute nelle loro caserme e conserveranno le armi. Tanto agli uffiziali che alla bassa forza, si garantiscono quei diritti che i regolamenti pontifici garantivano, in caso di giubilazione per forza maggiore.

Le truppe di riserva, volontari e squadriglieri, saranno rimandate libere alle loro case.

Le guardie nobili, palatine e ex-svizzere, essendo guardie speciali di Sua Santità, resteranno in piena libertà di continuare il loro servizio.

I corpi esteri verranno sciolti, e saranno mandati liberi alle loro patrie.

8° Tutti gli ufficiali conserveranno le loro armi.

9' Ai corpi esteri, ugualmente, vengono assicurati i diritti che ad essi accordano i regolamenti militari pontifici, in caso di scioglimento.

10° Tutte le truppe, tanto indigene che estere, verranno dalle regie truppe guarentite e protette contro qualunque insulto.

 

Non un cenno alla conservazione di qualsiasi territorio al Papa, neppure la Città Leonina che il governo italiano aveva già deliberato di lasciargli.

Ma Cadorna esibì le proprie condizioni, che furono sottoscritte da ambo le parti:

 

Villa Albani, 20 settembre 1870

Capitolazione per la resa della piazza di Roma, stipulata fra il comandante generale delle truppe di S.M. il re d'Italia ed il comandante generale delle truppe pontificie, rispettivamente rappresentati dai sottoscritti

I

La città di Roma, tranne la parte che è limitata al Sud dai bastioni Santo Spirito, e che comprende il monte Vaticano e Castel Sant'Angelo costituenti la Città Leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini da polvere, tutti gli oggetti di spettanza governativa, saranno consegnati alle truppe di S.M. il Re d'Italia.

II

Tutta la guarigione della Piazza escirà cogli onori della guerra, con bandiere, in armi e bagaglio. Resi gli onori militari, deporrà le bandiere e le armi, ad eccezione degli uffiziali, i quali conserveranno la loro spada, i cavalli e tutto ciò che loro appartiene. Esciranno prima le truppe straniere, e le altre in seguito, secondo il loro ordine di battaglia colla sinistra in testa. L'uscita della guarnigione avrà luogo domattina alle sette.

III

Tutte le truppe straniere saranno sciolte, e subito rimpatriate per cura del Governo italiano, mandandole fino da domani per ferrovia al confine del loro paese. É in facoltà del Governo di prendere in considerazione i diritti di pensione, che potrebbero avere regolarmente stipulati col Governo pontificio.

IV

Le truppe indigene costituite in deposito senza armi, colle competenze che attualmente hanno, mentre é riservato al Governo del Re di determinare sulla loro posizione futura.

V

Nella giornata di domani saranno inviate a Civitavecchia.

VI

Sarà nominata da ambe le parti una Commissione, composta d'un ufficiale d'artiglieria, uno del genio ed un funzionario d'intendenza, per la consegna di cui all'articolo I.

Per la piazza di Roma
Il capo di stato maggiore
RIVALTA

Per l'esercito italiano Il capo di stato maggiore

D. PRIMERANO

Il luogotenente generale
Comandante il 4' corpo d'esercito
CADORNA

Visto, ratificato ed approvato
Il generale comandante le armi a Roma
KANZLER

 

 

Quanto alla Città Leonina, che il governo aveva voluto lasciare al Papa, vi si produsse un conflitto fra gendarmi pontifici e cittadini per cui il Papa - attraverso l'ambasciatore Arnim - chiese ed ottenne dal gen. Cadorna la occupazione anche della Città Leonina da parte delle truppe italiane.

E Cadorna poteva emanare finalmente il primo manifesto celebrativo del 20 settembre, manifesto nel quale, parlando di Roma, intendeva veramente tutta Roma, senza omissioni eufemisticamente sottintese, come dopo l'11 febbraio 1929:

 

ROMANI!

La bontà del diritto e la virtù del'l'esercito, mi hanno in poche ore condotto fra voi, rivendicandovi in libertà. Ormai l'avvenir vostro, quello della Nazione è nelle vostre mani. Forte de' vostri liberi suffragi, l'Italia avrà la gloria di sciogliere finalmente il gran problema che sì dolorosamente affatica la moderna società!

Grazie, romani, a nome anche dell'esercito, delle liete accoglienze che ci faceste. L'ordine mirabilmente finora serbato, continuate a guardarlo; chè senz'ordine non v'è libertà.

Romani! La mattina del 20 settembre 1870 segna una data delle più memorabili nella storia. Roma, anche una volta è tornata, e per sempre, ad essere la grande capitale d'una grande Nazione!

Viva il Re, viva l'Italia.

Roma, 21 settembre 1870

Il comandante generale
il IV corpo d'esercito
R. CADORNA

 

Per il Manifesto Originale

 

Alle 11 antimeridiane del 20, il Gran Maestro Frapolli aveva indirizzato ai Venerabili di tutte le Logge d'Italia e ai Massoni tutti del Mondo, questo messaggio:

 

Fratelli,

Il Governo Italiano prende possesso di Roma. Il Grande Oriente della Massoneria d'Italia e le sue Colonie ha deliberato di stabilirvisi senza indugio. Ho quindi impartiti ordini per l'immediato trasferimento di esso da Firenze a Roma, nella Capitale della Nazione.

 


  

Indice

La Porta Pia Il XX Settembre e il GOI Il XX Settembre solennità civile Il "Paese Sera del 20 Settembre 1870

Come accadde L'anno che segui Porta Pia Genesi e Conseguenze del XX settembre Il Vero Trinomio

Come venne ricordato il 20 Settembre nei 30 anni successivi Il I° Manifesto Commemorativo