Primo Dialogo

Interlocutori: Elitropio, Filoteo, Armesso.

 

•Elitrapio•Qual rei nelle tenebre avezzi, che, liberati dal fondo di qualche oscura torre, escono alla luce, molti degli essercitati nella volgar filosofia ed altri paventaranno, admiraranno e, non possendo soffrire il nuovo sole de' tuoi chiari concetti, si turbaranno.
 

•Filateo•Il difetto non è di luce, ma di lumi: quanto in sé sarà più bello e più eccellente il sole, tanto sarà agli occhi de le notturne strige odioso e discaro di vantaggio.
 

•Elitrapio•La impresa che hai tolta, o Filoteo, è difficile, rara e singulare, mentre dal cieco abisso vuoi cacciarne e amenarne al discoperto, tranquillo e sereno aspetto de le stelle, che con sì bella varietade veggiamo disseminate per il ceruleo manto del cielo. Benché agli uomini soli l'aitatrice mano di tuo piatoso zelo soccorra, non saran però meno varii gli effetti de ingrati verso di te, che varii son gli animali che la benigna terra genera e nodrisce nel suo materno e capace seno; se gli è vero che la specie umana, particularmente negl'individui suoi, mostra de tutte l'altre la varietade per esser in ciascuno più espressamente il tutto, che in quelli d'altre specie. Onde vedransi questi che, qual'appannata talpa, non sì tosto sentiranno l'aria discorperto, che di bel nuovo, risfossiccando la terra, tentaranno agli nativi oscuri penetrali; quelli, qual notturni ucelli, non sì tosto arran veduta spuntar dal lucido oriente la vermiglia ambasciatrice del sole, che dalla imbecillità degli occhi suoi verranno invitati alla caliginosa ritretta. Gli animanti tutti, banditi dall'aspetto de le lampadi celesti e destinati all'eterne gabbie, bolge ed antri di Plutone, dal spaventoso ed erinnico corno d'Alecto richiamati, apriran l'ali e drizzaranno il veloce corso alle lor stanze. Ma gli animanti nati per vedere il sole, gionti al termine dell'odiosa notte, ringraziando la benignità del cielo e disponendosi a ricevere nel centro del globoso cristallo degli occhi suoi gli tanto bramosi e aspettati rai, con disusato applauso di cuore, di voce e di mano adoraranno l'oriente; dal cui dorato balco, avendo cacciati gli focosi destrieri il vago Titane, rotto il sonnacchioso silenzio de l'umida notte, raggionaranno gli uomini, belaranno gli facili, inermi e semplici lanuti greggi, gli cornuti armenti sotto la cura de' ruvidi bifolchi muggiranno. Gli cavalli di Sileno, perché di nuovo, in favor degli smarriti dei, possano dar spavento ai più de lor stupidi gigantoni, ragghiaranno; versandosi nel suo limoso letto, con importun gruito ne assordiranno gli sannuti ciacchi. Le tigri, gli orsi, gli leoni, i lupi e le fallaci golpi, cacciando da sue spelunche il capo, da le deserte alture contemplando il piano campo de la caccia, mandaranno dal ferino petto i lor grunniti, ricti, bruiti, fremiti, ruggiti ed orli. Ne l'aria e su le frondi di ramose piante, gli galli, le aquile, li pavoni, le grue, le tortore, i merli, i passari, i rosignoli, le cornacchie, le piche, gli corvi, gli cuculi e le cicade non sarran negligenti di replicar e radoppiar gli suoi garriti strepitosi. Dal liquido e instabile campo ancora, li bianchi cigni, le molticolorate anitre, gli solleciti merghi, gli paludosi bruchii, le ocche rauche, le querulose rane ne toccaranno l'orecchie col suo rumore, di sorte ch'il caldo lume di questo sole, diffuso all'aria di questo più fortunato emisfero, verrà accompagnato, salutato e forse molestato da tante e tali diversitadi de voci, quanti e quali son spirti che dal profondo di proprii petti le caccian fuori.
 

•Filateo•Non solo è ordinario, ma anco naturale e necessario, che ogni animale faccia la sua voce; e non è possibile che le bestie formino regolati accenti e articulati suoni come gli uomini, come contrarie le complessioni, diversi i gusti, varii gli nutrimenti.
 

•Armesso•Di grazia, concedetemi libertà di dir la parte mia ancora; non circa la luce, ma circa alcune circustanze, per le quali non tanto si suol consolare il senso, quanto molestar il sentimento di chi vede e considera; perché, per vostra pace e vostra quiete, la quale con fraterna caritade vi desio, non vorrei che di questi vostri discorsi vegnan formate comedie, tragedie, lamenti, dialogi, o come vogliam dire, simili a quelli che poco tempo fa, per esserno essi usciti in campo a spasso, vi hanno forzato di starvi rinchiusi e retirati in casa.
 

•Filateo•Dite liberamente.
 

•Armesso•Io non parlarò come santo profeta, come astratto divino, come assumpto apocaliptico, né quale angelicata asina di Balaamo; non raggionarò come inspirato da Bacco, né gonfiato di vento da le puttane muse di Parnaso, o come una Sibilla impregnata da Febo, o come una fatidica Cassandra, né qual ingombrato da le unghie de' piedi sin alla cima di capegli de l'entusiasmo apollinesco, né qual vate illuminato nell'oraculo o delfico tripode, né come Edipo esquisito contra gli nodi della Sfinge, né come un Salomone inver gli enigmi della regina Sabba, né qual Calcante, interprete dell'olimpico senato; né come un inspiritato Merlino, o come uscito dall'antro di Trofonio. Ma parlarò per l'ordinario e per volgare, come uomo che ho avuto altro pensiero che d'andarmi lambiccando il succhio de la grande e piccola nuca, con farmi al fine rimanere in secco la dura e pia madre; come uomo, dico, che non ho altro cervello ch'il mio; a cui manco gli dei dell'ultima cotta e da tinello nella corte celestiale (quei dico che non bevono ambrosia, né gustan nettare, ma vi si tolgon la sete col basso de le botte e vini rinversati, se non vogliono far stima de linfe e ninfe, quei, dico, che sogliono esser più domestici, familiari e conversabili con noi), come è dire né il dio Bacco, né quel imbreaco cavalcator de l'asino, né Pane, né Vertunno, né Fauno, né Priapo, si degnano cacciarmene una pagliusca di più e di vantaggio dentro, quantunque sogliano far copia de' fatti lor sin ai cavalli.
 

•Elitrapio•Troppo lungo proemio.

 

•Armesso•Pacienza, che la conclusione sarà breve. Voglio dir.brevemente, che vi farò udir paroli, che non bisogna disciferarle come poste in distillazione, passate per lambicco, digerite dal bagno di maria, e subblimate in recipe di quinta essenza; ma tale quali m'insaccò nel capo la nutriccia, la quale era quasi tanto cotennuta, pettoruta, ventruta, fiancuta e naticuta, quanto può essere quella londriota, che viddi a Westmester; la quale, per iscaldatoio del stomaco, ha un paio di tettazze, che paiono gli borzacchini del gigante san Sparagorio, e che, concie in cuoio, varrebbono sicuramente a far due pive ferrarese.
 

•Elitrapio•E questo potrebe bastare per un proemio.
 

•Armesso•Or su, per venire al resto, vorrei intendere da voi (lasciando un poco da canto le voci e le lingue a proposito del lume e splendor che possa apportar la vostra filosofia) con che voci volete che sia salutato particolarmente da noi quel lustro di dottrina, che esce dal libro de la Cena de le ceneri? Quali animali son quelli che hanno recitata la Cena de le ceneri? Dimando, se sono acquatici, o aerei, o terrestri, o lunatici? E lasciando da canto gli propositi di Smitho, Prudenzio e Frulla, desidero di sapere, se fallano coloro che dicono, che tu fai la voce di un cane rabbioso e infuriato, oltre che talvolta fai la simia, talvolta il lupo, talvolta la pica, talvolta il papagallo, talvolta un animale talvolta un altro, meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e comici?
 

•Filateo•Non vi maravigliate, fratello, perché questa non fu altro ch'una cena, dove gli cervelli vegnono governati dagli affetti, quali gli vegnon porgiuti dall'efficacia di sapori e fumi de le bevande e cibi. Qual dunque può essere la cena materiale e corporale, tale conseguentemente succede la verbale e spirituale; cossì dunque questa dialogale ha le sue parti varie e diverse, qual varie e diverse quell'altra suole aver le sue; non altrimente questa ha le proprie condizioni, circonstanze e mezzi, che come le proprie potrebbe aver quella.
 

•Armesso•Di grazia, fate ch'io vi intenda.
 

•Filateo•Ivi, come è l'ordinario e il dovero, soglion trovarsi cose da insalata da pasto, da frutti da ordinario, da cocina da speciaria, da sani da amalati, di freddo di caldo, di crudo di cotto, di acquatico di terrestre, di domestico di selvatico, di rosto di lesso, di maturo di acerbo, e cose da nutrimento solo e da gusto, sustanziose e leggieri, salse e inspide, agreste e dolci, amare e suavi. Cossì quivi, per certa conseguenza, vi sono apparse le sue contrarietadi e diversitadi, accomodate a contrarii e diversi stomachi e gusti, a' quali può piacere di farsi presenti al nostro tipico simposio, a fine che non sia chi si lamente di esservi gionto invano, e a chi non piace di questo, prenda di quell'altro.
 

•Armesso•È vero; ma che dirai, se oltre nel vostro convito, ne la vostra cena appariranno cose, che non son buone né per insalata né per pasto, né per frutti né per ordinario, né fredde né calde, né crude né cotte, né vagliano per l'appetito né per fame, non son buone per sani né per ammalati, e conviene che non escano da mani di cuoco né di speciale?
 

•Filateo•Vedrai che né in questo la nostra cena è dissimile a qualunqu'altra esser possa. Come dunque là, nel più bel del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone, di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o piangendo e lagrimando mandarlo vagheggiando per il palato sin tanto che se gli possa donar quella maladetta spinta per il gargazzuolo al basso; overo ti si stupefà qualche dente, o te s'intercepe la lingua che viene ad esser morduta con il pane, o qualche lapillo te si viene a rompere e incalcinarsi tra gli denti per farti regittar tutto il boccone, o qualche pelo o capello del cuoco ti s'inveschia nel palato per farti presso che vomire, o te s'arresta qualche aresta di pesce ne la canna a farti suavemente tussire, o qualche ossetto te s'attraversa ne la gola per metterti in pericolo di suffocare; cossì nella nostra cena, per nostra e comun disgrazia, vi si son trovate cose corrispondenti e proporzionali a quelle. Il che tutto avviene per il peccato dell'antico protoplaste Adamo, per cui la perversa natura umana è condannata ad aver sempre i disgusti gionti ai gusti.
 

•Armesso•Pia e santamente. Or che rispondete a quel che dicono, che voi siete un rabbioso cinico?

 

•Filateo•Concederò facilmente, se non tutto, parte di questo.
 

•Armesso•Ma sapete che non è vituperio ad un uomo tanto di ricevere oltraggi, quanto di farne?
 

•Filateo•Ma basta che gli miei sieno chiamati vendette, e gli altrui sieno chiamati offese.
 

•Armesso•Anco gli Dei son suggetti a ricevere ingiurie, patir infamie e comportar biasimi: ma biasimare, infamare e ingiuriare è proprio de' vili, ignobili, dappoco e scelerati.
 

•Filateo•Questo è vero; però noi non ingiuriamo, ma ributtiamo l'ingiurie, che son fatte non tanto a noi, quanto a la filosofia spreggiata, con far di modo ch'agli ricevuti dispiaceri non s'aggiongano degli altri.
 

•Armesso•Volete, dunque, parer cane che morde, a fin che non ardisca ognuno di molestarvi?
 

•Filateo•Cossì è, perché desidero la quiete, e mi dispiace il dispiacere.
 

•Armesso•Sì, ma giudicano che procedete troppo rigorosamente.
 

•Filateo•A fine che non tornino un'altra volta essi, ed altri imparino di non venir a disputar meco e con altro, trattando con simili mezzi termini queste conclusioni.
 

•Armesso•La offesa fu privata, la vendetta è publica.
 

•Filateo•Non per questo è ingiusta; perché molti errori si commettono in privato, che giustamente si castigano in publico.
 

•Armesso•Ma con ciò venite a guastare la vostra riputazione, e vi fate più biasimevole che coloro; perché publicamente se dirà che siete impaziente, fantastico, bizarro, capo sventato.
 

•Filateo•Non mi curo, pur che oltre non mi siano essi o altri molesti; e per questo mostro il cinico bastone, acciò che mi lascino star co' fatti miei in pace; e se non mi vogliono far carezze, non vegnano ad esercitar la loro inciviltà sopra di me.
 

•Armesso•Or vi par che tocca ad un filosofo di star su la vendetta?
 

•Filateo•Se questi che mi molestano fussero una Xantippe, io sarei un Socrate.
 

•Armesso•Non sai che la longanimità e pazienza sta bene a tutti, per la quale vegnano ad esser simili agli eroi ed eminenti Dei; che, secondo alcuni, si vendicano tardi, e, secondo altri, né si vendicano né si adirano?
 

•Filateo•T'inganni pensando ch'io sia stato su la vendetta.
 

•Armesso•E che dunque?
 

•Filateo•Io son stato su la correzione, nell'esercizio della quale ancora siamo simili agli Dei. Sai che il povero Vulcano è stato dispensato da Giove di lavorare anco gli giorni di festa; e quella maladetta incudine non si lassa o stanca mai a comportar le scosse di tanti e sì fieri martelli, che non sì tosto è alzato l'uno che l'altro è chinato, per far che gli giusti folgori, con gli quali gli delinquenti e rei si castigheno, non vegnan meno.
 

•Armesso•È differenza tra voi e il fabro di Giove e marito della ciprigna dea.
 

•Filateo•Basta che ancora non son dissimile a quelli forse nella pazienza e longanimità; la quale in quel fatto ho essercitata, non rallentando tutto il freno al sdegno, né toccando di più forte sprone l'ira.
 

•Armesso•Non tocca ad ognuno di essere correttore, massime de la moltitudine.
 

•Filateo•Dite ancora, massime quando quella non lo tocca.
 

•Armesso•Si dice che non devi esser sollecito nella patria aliena.
 

•Filateo•E io dico due cose: prima, che non si deve uccidere un medico straniero, perché tenta di far quelle cure che non fanno i paesani; secondo dico, che al vero filosofo ogni terreno è patria.
 

•Armesso•Ma se loro non ti accettano né per filosofo né per medico, né per paesano?
 

•Filateo•Non per questo mancarà ch'io sia.
 

•Armesso•Chi ve ne fa fede?
 

•Filateo•Gli numi che me vi han messo, io che me vi ritrovo, e quelli ch'hanno gli occhi, che me vi veggono.
 

•Armesso•Hai pochissimi e poco noti testimoni.
 

•Filateo•Pochissimi e poco noti sono gli veri medici, quasi tutti sono veri amalati. Torno a dire, che loro non hanno libertà altri di fare, altri di permettere che sieno fatti tali trattamenti a quei che porgono onorate merci, o sieno stranieri o non.
 

•Armesso•Pochi conoscono queste merci.
 

•Filateo•Non per questo le gemme sono men preciose e non le doviamo con tutto il nostro forzo defendere e farle defendere, liberare e vendicare dalla conculcazione de' piè porcini con ogni possibil rigore. E cossì mi sieno propicii gli superi, Armesso mio, che io mai feci di simili vendette per sordido amor proprio o per villana cura d'uomo particulare, ma per amor della mia tanto amata madre filosofia e per zelo della lesa maestà di quella. La quale da' mentiti familiari e figli (perché non è vil pedante, poltron dizionario, stupido fauno, ignorante cavallo, che, o con mostrarsi carco di libri, con allungarsi la barba o con altre maniere mettersi in prosopopeia, non voglia intitolarsi de la fameglia) è ridutta a tale, che appresso il volgo tanto val dire un filosofo, quanto un frappone, un disutile, pedantaccio, circulatore, saltainbanco, ciarlatano, buono per servir per passatempo in casa e per spavantacchio d'ucelli a la campagna.
 

•Elitrapio•A dire il vero, la famiglia de' filosofi è stimata più vile dalla maggior parte del mondo, che la famiglia de' cappellani; perché non tanto quelli, assunti da ogni specie di gentaglie, hanno messo il sacerdocio in dispregio, quanto questi, nominati da ogni geno di bestiali, hanno posto la filosofia in vilipendio.
 

•Filateo•Lodiamo, dunque, nel suo geno l'antiquità, quando tali erano gli filosofi che da quelli si promovevano ad essere legislatori, consiliarii e regi; tali erano consiliarii e regi, che da questo essere s'inalzavano a essere sacerdoti. A questi tempi la massima parte di sacerdoti son tali, che son spreggiati essi, e per essi son spreggiate le leggi divine; son tali quasi tutti quei che veggiamo filosofi, che essi son vilipesi, e per essi le scienze vegnono vilipese. Oltre che, tra questi la moltitudine de forfanti, come di urtiche, con gli contrari sogni suole dal suo canto ancora opprimere la rara virtù e veritade, la qual si mostra ai rari.
 

•Armesso•Non trovo filosofo che s'adire sì per la spreggiata filosofia, né, o Elitropio, scorgo alcuno sì affetto per la sua scienza, quanto questo Teofilo; che sarebbe, se tutti gli altri filosofi fussero della medesima condizione, voglio dire sì poco pazienti?
 

•Elitrapio•Questi altri filosofi non hanno ritrovato tanto, non hanno tanto da guardare, non hanno da difender tanto. Facilmente possono ancor essi tener a vile quella filosofia che non val nulla, o altra che val poco, o quella che non conoscono; ma colui che ha trovata la verità, che è un tesoro ascoso, acceso da la beltà di quel volto divino, non meno doviene geloso perché la non sia defraudata, negletta e contaminata, che possa essere un altro sordido affetto sopra l'oro, carbuncolo e diamante, o sopra una carogna di bellezza feminile.
 

•Armesso•Ma ritorniamo a noi, e vengamo al quia. Dicono di voi, Teofilo, che in quella vostra Cena tassate e ingiuriate tutta una città, tutta una provinzia, tutto un regno.
 

•Filateo•Questo mai pensai, mai intesi, mai feci; e se l'avesse pensato, inteso o fatto, io mi condannerei pessimo, e sarei apparecchiato a mille retrattazioni, a mille revocazioni, a mille palinodie; non solamente s'io avesse ingiuriato un nobile e antico regno, come è questo, ma qualsivoglia altro, quantunque stimato barbaro: non solamente dico qualsivoglia città, quantunque diffamata incivile, ma e qualsivoglia lignaggio, quantunque divolgato salvaggio, ma e qualsivoglia fameglia, quantunque nominata inospitale: perché non può essere regno, città, prole o casa intiera, la quale possa o si deve presupponere d'un medesimo umore, e dove non possano essere oppositi o contrarii costumi; di sorte che quel che piace a l'uno, non possa dispiacere all'altro.
 

•Armesso•Certo, quanto a me, che ho letto e riletto e ben considerato il tutto, benché circa particolari non so perché vi trovo alquanto troppo effuso, circa il generale vi veggo castigata ragionevole e discretamente procedere: ma il rumore è sparso nel modo ch'io vi dico.
 

•Elitrapio•Il rumore di questo e altro è stato sparso dalla viltà di alcuni di quei che si senton ritoccati; li quali, desiderosi di vendetta, veggendosi insufficienti con propria raggione, dottrina, ingegno e forza, oltre che fingono quante altre possono falsitadi, alle quali altri che simili a loro non possono porger fede, cercano compagnia con fare ch'il castigo particolare sia stimato ingiuria commune.
 

•Armesso•Anzi credo che sieno di persone non senza giudicio e conseglio, le quali pensano l'ingiuria universale, perché manifestate tai costumi in persone di tal generazione.
 

•Filateo•Or quai costumi son questi nominati, che simili, peggiori e molti più strani in geno, specie e numero non si trovino in luoghi delle parti e provinze più eccellenti del mondo? Mi chiamerete forse ingiurioso e ingrato alla mia patria, s'io dicesse che simili e più criminali costumi se ritrovano in Italia, in Napoli, in Nola? Verrò forse per questo a digradir quella regione gradita dal cielo e posta insieme insieme talvolta capo e destra di questo globo, governatrice e domitrice dell'altre generazioni, e sempre da noi ed altri è stata stimata maestra, nutrice e madre de tutte le virtudi, discipline, umanitadi, modestie e cortesie, se si verrà ad essagerar di vantaggio quel che di quella han cantato gli nostri medesimi poeti che non meno la fanno maestra di tutti vizii, inganni, avarizie e crudeltadi?
 

•Elitrapio•Questo è certo secondo gli principii della vostra filosofia; per i quali volete che gli contrarii hanno coincidenza ne' principii e prossimi suggetti: perché que' medesimi ingegni, che sono attissimi ad alte, virtuose e generose imprese, se fian perversi, vanno a precipitar in vizii estremi. Oltre che là si sogliono trovare più rari e scelti ingegni, dove per il comune sono più ignoranti e sciocchi, e dove per il più generale son meno civili e cortesi, nel più particulare si trovano de cortesie e urbanitadi estreme: di sorte che, in diverse maniere, a molte generazioni pare che sia data medesima misura de perfezioni e imperfezioni.
 

•Filateo•Dite il vero.
 

•Armesso•Con tutto ciò io, come molti altri meco, mi dolgo, Teofilo, che voi nella nostra amorevol patria siate incorsi a tali suppositi, che vi hanno porgiuta occasione di lamentarvi con una cinericia cena, che ad altri ed altri molti che vi avesser fatto manifesto, quanto questo nostro paese, quantunque sia detto da' vostri penitus toto divisus ab orbe, sia prono a tutti gli studi de buone lettere, armi, cavalleria, umanitadi e cortesie; nelle quali, per quanto comporta delle nostre forze il nerbo, ne forziamo di non essere inferiori a' nostri maggiori e vinti da le altre generazioni; massime da quelle che si stimano aver le nobilitadi, le scienze, le armi, e civilitadi come da natura.
 

•Filateo•Per mia fede, Armesso, che in quanto riferisci io non debbo né saprei con le paroli, né con le raggioni, né con la conscienza contradirvi, perché con ogni desterità di modestia e di argomenti fate la vostra causa. Però io per voi, come per quello che non vi siete avicinato con un barbaro orgoglio, comincio a pentirmi, e prendere a dispiacere di aver ricevuta materia da que' prefati, di contristar voi e altri d'onestissima e umana complessione: però bramarei che que' dialogi non fussero prodotti, e se a voi piace, mi forzarò che oltre non vengan in luce.
 

•Armesso•La mia contristazione, con quella d'altri nobilissimi, tanto manca che proceda dalla divolgazione de quei dialogi, che facilmente procurarei che fussero tradotti in nostro idioma, a fin che servissero per una lezione a quei poco e male accostumati, che son tra noi; che forse, quando vedessero con qual stomaco son presi e con quai delineamenti son descritti gli suoi discortesi rancontri e quanto quelli sono mal significativi, potrebbe essere che, se, per buona disciplina e buono essempio che veggano negli megliori e maggiori, non si vogliono ritrar da quel camino, almeno vegnano a cangiarsi e conformarsi a quelli, per vergogna di esserno connumerati tra tali e quali; imparando che l'onor de le persone e la bravura non consiste in posser e saper con que' modi esser molesto, ma nel contrario a fatto.
 

•Elitrapio•Molto vi mostrate discreto e accorto nella causa de la vostra patria, e non siete verso gli altrui buoni uffici ingrato e irreconoscente, quali esser possono molti poveri d'argumento e di consiglio. Ma Filoteo non mi par tanto aveduto per conservar la sua riputazione e defendere la sua persona; perché, quanto è differente la nobiltade dalla rusticitade, tanto contrarii effetti si denno sperare e temere in un Scita villano, il quale riuscirà savio e per il buon successo verrà celebrato, se, partendosi dalle ripe del Danubio, vada con audace riprensione e giusta querela a tentar l'autorità e maestà del Romano Senato; che dal colui biasimo e invettiva sappia prendere occasione di fabricarvi sopra atto di estrema prudenza e magnanimitade, onorando il suo rigido riprensore di statua e di colosso; che se un gentiluomo e Senator Romano per il mal successo possa riuscir poco savio, lasciando le amene sponde del suo Tevere, sen vada, anco con giusta querela e raggionevolissima riprensione, a tentar gli scitici villani; che da quello prendano occasione di fabricar torri e Babilonie d'argumenti di maggior viltade, infamia e rusticitade, con lapidarlo, rallentando alla furia populare il freno, per far meglio sapere all'altre generazioni quanta differenza sia di contrattare e ritrovarsi tra gli uomini e tra color che son fatti ad imagine e similitudine di quelli.
 

•Armesso•Non fia mai vero, o Teofilo, che io debba o possa stimare che sia degno ch'io, o altro che ha più sale di me, voglia prendere la causa e protezione di costoro, che son materia de la vostra satira, come per gente e persone del paese, alla cui difensione dall'istessa legge naturale siamo incitati; perché non confessarò giamai, e non sarò giamai altro che nemico de chi affirmasse, che costoro sieno parte e membri de la nostra patria, la quale non consta d'altro che di persone cossì nobili, civili, accostumate, disciplinate, discrete, umane, raggionevoli come altra qualsivoglia. Dove, benché vegnan contenuti questi, certo non vi si trovano altrimente che come lordura, feccia, lettame e carogna; di tal sorte, che non potrebono con altro modo esser chiamati parte di regno e di cittade, che la sentina parte de la nave. E però per simili tanto manca che noi doviamo risentirci, che, risentendoci, doveneremmo vituperosi. Da questi non escludo gran parte di dottori e preti, de' quali quantunque alcuni per mezzo del dottorato doventano signori, tuttavolta per il più quella autorità villanesca, che prima non ardivano mostrare, appresso per la baldanza e presunzione, che se gli aggiunge dalla riputazion di letterato e prete, vegnono audace e magnanimamente a porla in campo; laonde non è maraviglia se vedete molti e molti, che con quel dottorato e presbiterato sanno più di armento, mandra e stalla, che quei che sono attualmente strigliacavallo, capraio e bifolco. Per questo non arrei voluto che sì aspramente vi fuste portato verso la nostra Universitade ancora, quasi non perdonando al generale, né avendo rispetto a quel che è stata, sarà o potrà essere per l'avvenire, e in parte è al presente.
 

•Filateo•Non vi affannate, perché, benché quella ne sia presentata per filo in questa occasione, tutta volta non fa tale errore che simile non facciano tutte l'altre che si stimano maggiori, e per il più sotto titolo di dottori cacciano annulati cavalli e asini diademati. Non gli toglio però quanto da principio sia stata bene instituita, gli begli ordini di studii, la gravità di ceremonie, la disposizione degli esercizii, decoro degli abiti e altre molte circostanze che fanno alla necessità e ornamento di una academia; onde, senza dubio alcuno, non è chi non debba confessarla prima in tutta l'Europa e per conseguenza in tutto il mondo. E non niego che, quanto alla gentilezza di spirti e acutezza de ingegni, gli quali naturalmente l'una e l'altra parte de la Brittannia produce, sia simile e possa esser equale a quelle tutte che son veramente eccellentissime. Né meno è persa la memoria di quel, che, prima che le lettere speculative si ritrovassero nell'altre parti de l'Europa, fiorirno in questo loco; e da que' suoi principi de la metafisica, quantunque barbari di lingua e cucullati di professione, è stato il splendor d'una nobilissima e rara parte di filosofia (la quale a' tempi nostri è quasi estinta) diffuso a tutte l'altre academie de le non barbare provinze. Ma quello che mi ha molestato e mi dona insieme insieme fastidio e riso, è, che con questo che io non trovo più romani e più attici di lingua che in questo loco, del resto (parlo del più generale) si vantano di essere al tutto dissimili e contrarii a quei che furon prima; li quali, poco solleciti de l'eloquenza e rigor grammaticale, erano tutti intenti alle speculazioni, che da costoro son chiamate Sofismi. Ma io più stimo la metafisica di quelli, nella quale hanno avanzato il lor prencipe Aristotele (quantunque impura e insporcata con certe vane conclusioni e teoremi, che non sono filosofici né teologali, ma da ociosi e mal impiegati ingegni), che quanto possono apportar questi de la presente etade con tutta la lor ciceroniana eloquenza e arte declamatoria.
 

•Armesso•Queste non son cose da spreggiare.
 

•Filateo•È vero; ma, dovendosi far elezione de l'un de' doi, io stimo più la coltura dell'ingegno, quantunque sordida la fusse, che di quantunque disertissime paroli e lingue.
 

•Elitrapio•Questo proposito mi fa ricordar di fra Ventura: il quale, trattando un passo del santo Vangelo, che dice reddite quae sunt Caesaris Caesari, apportò a proposito tutti gli nomi de le monete che sono state a' tempi di romani, con le loro marche e pesi, che non so da qual diavolo di annale o scartafaccio l'avesse racolti, che furono più di cento e vinti, per farne conoscere quanto era studioso e retentivo. A costui, finito il sermone, essendosegli accostato un uom da bene, li disse: - Padre mio reverendo, di grazia, imprestatemi un carlino. - A cui rispose che lui era de l'ordine mendicante.
 

•Armesso•A che fine dite questo?
 

•Elitrapio•Voglio dire che quei che son molto versati circa le dizioni e nomi, e non son solleciti delle cose, cavalcano la medesima mula con questo reverendo padre de le mule.
 

•Armesso•Io credo che, oltre il studio de l'eloquenza, nella quale avanzano tutti gli loro antiqui, e non sono inferiori agli altri moderni, ancora non sono mendichi nella filosofica e altrimente speculative professioni; senza la perizia de le quali non possono esser promossi a grado alcuno; perché gli Statuti de l'università, alle quali sono astretti per giuramento, comportano che nullus ad philosophiae et theologiae magisterium et doctoratum promoveatur, nisi epotaverit e fonte Aristotelis.
 

•Elitrapio•Oh, io ve dirò quel ch'han fatto per non esser pergiuri. Di tre fontane, che sono nell'Università, all'una hanno imposto nome Fons Aristotelis, l'altra dicono Fons Pythagorae, l'altra chiamano Fons Platonis. Da questi tre fonti traendosi l'acqua per far la birra e la cervosa (de la qual acqua pure non mancano di bere i buoi e gli cavalli), conseguentemente non è persona, che, con esser dimorata meno che tre o quattro giorni in que' studii e collegii, non vegna ad esser imbibito non solamente del fonte di Aristotele, ma e oltre di Pitagora e Platone.
 

•Armesso•Oimè, che voi dite pur troppo il vero. Quindi aviene, o Teofilo, che li dottori vanno a buon mercato come le sardelle, perché come con poca fatica si creano, si trovano, si pescano, cossì con poco prezzo si comprano. Or dunque, tale essendo appresso di noi il volgo di dottori in questa etade (riserbando però la reputazione d'alcuni celebri e per l'eloquenza e per la dottrina e per la civil cortesia, quali sono un Tobia Mattheo, un Culpepero, e altri che non so nominare), accade che tanto manca che uno, per chiamarsi dottore, possa esser stimato aver novo grado di nobiltade, che più tosto è suspetto di contraria natura e condizione, se non sia particolarmente conosciuto. Quindi accade che quei, che per linea o per altro accidente son nobili, ancor che gli s'aggiunga la principal parte di nobiltà che è per la dottrina, si vergognano di graduarsi e farsi chiamar dottori, bastandogli l'esser dotti. E di questi arrete maggior numero ne le corti, che ritrovar si possano pedanti nell'Universitade.
 

•Filateo•Non vi lagnate, Armesso, perché in tutti i luoghi, dove son dottori e preti, si trova l'una e l'altra semenza di quelli; dove quei che sono veramenti dotti e veramente preti, benché promossi da bassa condizione, non può essere che non sieno inciviliti e nobilitati, perché la scienza è uno esquisitissimo camino a far l'animo umano eroico. Ma quegli altri tanto più si mostrano espressamente rustici, quanto par che vogliano o col divum patero col gigante Salmoneo altitonare, quando se la spasseggiano da purpurato satiro o fauno con quella spaventosa e imperial prosopopeia, dopo aver determinato nella catedra regentale a qual declinazione appartenga lo hic, et haec, et hoc nihil.
 

•Armesso•Or lasciamo questi propositi. Che libro è questo che tenete in mano?
 

•Filateo•Son certi dialogi.
 

•Armesso•La Cena?
 

•Filateo•No.
 

•Armesso•Che dunque?
 

•Filateo•Altri, ne li quali si tratta De la causa, principio e uno secondo la via nostra.
 

•Armesso•Quali interlocutori? Forse abbiamo quall'altro diavolo di Frulla o Prudenzio, che di bel nuovo ne mettano in qualche briga.
 

•Filateo•Non dubitate, che, tolto uno, tra gli altri tutti son suggetti quieti e onestissimi.
 

•Armesso•Sì che, secondo il vostro dire, arremo pure da scardar qualche cosa in questi dialogi ancora?
 

•Filateo•Non dubitate, perché più tosto sarrete grattato dove vi prore, che stuzzicato dove vi duole.
 

•Armesso•Pure?
 

•Filateo•Qua per uno trovarete quel dotto, onesto, amorevole, ben creato e tanto fidele amico Alessandro Dicsono, che il Nolano ama quanto gli occhi suoi; il quale è causa che questa materia sia stata messa in campo. Lui è introdutto come quello, che porge materia di considerazione al Teofilo. Per il secondo avete Teofilo, che sono io; che secondo le occasioni, vegno a distinguere, definire e dimostrare circa la suggetta materia. Per il terzo avete Gervasio, uomo che non è de la professione; ma per passatempo vuole esser presente alle nostre conferenze; ed è una persona che non odora né puzza e che prende per comedia gli fatti di Poliinnio e da passo in passo gli dona campo di fargli esercitar la pazzia. Questo sacrilego pedante avete per il quarto: uno de' rigidi censori di filosofi, onde si afferma Momo, uno affettissimo circa il suo gregge di scolastici, onde si noma nell'amor socratico; uno, perpetuo nemico del femineo sesso, onde, per non esser fisico, si stima Orfeo, Museo, Titiro e Anfione. Questo è un di quelli, che, quando ti arran fatto una bella construzione, prodotta una elegante epistolina, scroccata una bella frase da la popina ciceroniana, qua è risuscitato Demostene, qua vegeta Tullio, qua vive Salustio; qua è un Argo, che vede ogni lettera, ogni sillaba, ogni dizione; qua Radamanto umbras vocat ille silentum; qua Minoe, re di Creta, urnam movet. Chiamano all'essamina le orazioni; fanno discussione de le frase, con dire: - queste sanno di poeta, queste di comico, questa di oratore; questo è grave, questo è lieve, quello è sublime, quell'altro è humile dicendi genus; questa orazione è aspera; sarrebe leve, se fusse formata cossì; questo è uno infante scrittore, poco studioso de la antiquità, non redolet Arpinatem, desipit Latium. Questa voce non è tosca, non è usurpata da Boccaccio, Petrarca e altri probati autori. Non si scrive homo, ma omo; non honore, ma onore; non Polihimnio, ma Poliinnio. - Con questo triomfa, si contenta di sé, gli piaceno più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove, che, da l'alta specula, remira, e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori, calamitadi, miserie, fatiche inutili. Solo lui è felice, lui solo vive vita celeste, quando contempla la sua divinità nel specchio d'un Spicilegio, un Dizionario, un Calepino, un Lessico, un Cornucopia, un Nizzolio. Con questa sufficienza dotato, mentre ciascuno è uno, lui solo è tutto. Se avvien che rida si chiama Democrito, s'avvien che si dolga si chiama Eraclito, se disputa si chiama Crisippo, se discorre si noma Aristotele, se fa chimere si appella Platone, se mugge un sermoncello se intitula Demostene, se construisce Virgilio lui è il Marone. Qua correge Achille, approva Enea, riprende Ettore, esclama contro Pirro, si condole di Priamo, arguisce Turno, iscusa Didone, comenda Acate; e in fine, mentre verbum verbo reddit e infilza salvatiche sinonimie, nihil divinum a se alienum putat. E cossì borioso smontando da la sua catedra, come colui ch'ha disposti i cieli, regolati i senati, domati eserciti, riformati i mondi, è certo che, se non fusse l'ingiuria del tempo, farebbe con gli effetti quello che fa con l'opinione. - O tempora, o mores! Quanti son rari quei che intendeno la natura de' participi, degli adverbii, delle coniunctioni! Quanto tempo è scorso, che non s'è trovata la raggione e vera causa, per cui l'adiectivo deve concordare col sustantivo, il relativo con l'antecedente deve coire, e con che regola ora si pone avanti, ora addietro de l'orazione; e con che misure e quali ordini vi s'intermesceno quelle interiezione dolentis, gaudentis, heu, oh, ahi, ah, hem, ohe, hui, ed altri condimenti, senza i quali tutto il discorso è insipidissimo?
 

•Elitrapio•Dite quel che volete, intendetela come vi piace; io dico, che per la felicità de la vita è meglio stimarsi Creso ed esser povero, che tenersi povero ed esser Creso. Non è più convenevole alla beatitudine aver una zucca che ti paia bella e ti contente, che una Leda, una Elena, che ti dia noia e ti vegna in fastidio? Che dunque importa a costoro l'essere ignoranti e ignobilmente occupati, se tanto son più felici, quanto più solamente piaceno a se medesimi? Cossì è buona l'erba fresca a l'asino, l'orgio al cavallo, come a te il pane di puccia e la perdice; cossì si contenta il porco de le ghiande e il brodo, come un Giove de l'ambrosia e nettare. Volete forse toglier costoro da quella dolce pazzia, per la qual cura appresso ti derrebono rompere il capo? Lascio che, chi sa se è pazzia questa o quella? Disse un pirroniano: chi conosce se il nostro stato è morte, e quello di quei che chiamiamo defunti, è vita? Cossì chi sa se tutta la felicità e vera beatitudine consiste nelle debite copulazioni e apposizioni de' membri dell'orazioni?
 

•Armesso•Cossì è disposto il mondo: noi facciamo il Democrito sopra gli pedanti e grammatisti, gli solleciti corteggiani fanno il Democrito sopra di noi, gli poco penserosi monachi e preti democriteggiano sopra tutti; e reciprocamente gli pedanti si beffano di noi, noi di corteggiani, tutti degli monachi; e in conclusione, mentre l'uno è pazzo all'altro, verremo ad esser tutti differenti in specie e concordanti in genere et numero et casu.
 

•Filateo•Diverse per ciò son specie e maniere de le censure, varii sono gli gradi di quelle, ma le più aspre, dure, orribili e spaventose son degli nostri archididascali. Però a questi doviamo piegar le ginocchia, chinar il capo, converter gli occhi ed alzar le mani, suspirar, lacrimar, esclamare e dimandar mercede. A voi dunque mi rivolgo, o chi portate in mano il caduceo di Mercurio per decidere ne le controversie, e determinate le questioni ch'accadeno tra gli mortali e tra gli dei; a voi, Menippi, che, assisi nel globo de la luna, con gli occhi ritorti e bassi ne mirate, avendo a schifo e sdegno i nostri gesti; a voi, scudieri di Pallade, antesignani di Minerva, castaldi di Mercurio, magnarii di Giove, collattanei di Apollo, manuarii d'Epimeteo, botteglieri di Bacco, agasoni delle Evante, fustigatori de le Edonide, impulsori delle Tiade, subagitatori delle Menadi, subornatori delle Bassaridi, equestri delle Mimallonidi, concubinarii della ninfa Egeria, correttori de l'intusiasmo, demagoghi del popolo errante, disciferatori di Demogorgone, Dioscori delle fluttuanti discipline, tesorieri del Pantamorfo, e capri emissarii del sommo pontefice Aron; a voi raccomandiamo la nostra prosa, sottomettemo le nostre muse, premisse, subsunzioni, digressioni, parentesi, applicazioni, clausule, periodi, costruzioni, adiettivazioni, epitetismi. O voi, suavissimi aquarioli, che con le belle eleganzucchie ne furate l'animo, ne legate il core, ne fascinate la mente, e mettete in prostribulo le meretricole anime nostre; riferite a buon conseglio i nostri barbarismi, date di punta a' nostri solecismi, turate le male olide voragini, castrate i nostri Sileni, imbracate gli nostri Nohemi, fate eunuchi di nostri macrologi, rappezzate le nostre eclipsi, affrenate gli nostri taftologi, moderate le nostre acrilogie, condonate a nostre escrilogie, iscusate i nostri perissologi, perdonate a' nostri cacocefati. Torno a scongiurarvi tutti in generale, e in particulare te, severo supercilioso e salvaticissimo maestro Poliinnio, che dismettiate quella rabbia contumace e quell'odio tanto criminale contra il nobilissimo sesso femenile; e non ne turbate quanto ha di bello il mondo, e il cielo con suoi tanti occhi scorge. Ritornate, ritornate a voi, e richiamate l'ingegno, per cui veggiate che questo vostro livore non è altro che mania espressa e frenetico furore. Chi è più insensato e stupido, che quello che non vede la luce? Qual pazzia può esser più abietta, che per raggion di sesso, esser nemico all'istessa natura, come quel barbaro re di Sarza, che, per aver imparato da voi, disse:


Natura non può far cosa perfetta
Poi che natura femina vien detta.

 

Considerate alquanto il vero, alzate l'occhio a l'albore de la scienza del bene e il male, vedete la contrarietà ed opposizione ch'è tra l'uno e l'altro. Mirate chi sono i maschi, chi sono le femine. Qua scorgete per suggetto il corpo, ch'è vostro amico, maschio, là l'anima che è vostra nemica, femina. Qua il maschio caos, là la femina disposizione; qua il sonno, là la vigilia; qua il letargo, là la memoria; qua l'odio, là l'amicizia; qua il timore, là la sicurtà; qua il rigore, là la gentilezza; qua il scandalo, là la pace; qua il furore, là la quiete; qua l'errore, là la verità; qua il difetto, là la perfezione; qua l'inferno, là la felicità; qua Poliinnio pedante, là Poliinnia musa. E finalmente tutti vizii, mancamenti e delitti son maschi; e tutte le virtudi, eccellenze e bontadi son femine. Quindi la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza, la bellezza, la maestà, la dignità, la divinità, cossì si nominano, cossì s'imaginano, cossì si descriveno, cossì si pingono, cossì sono. E per uscir da queste raggioni teoriche, nozionali e grammaticali, convenienti al vostro argumento, e venire alle naturali, reali e prattiche: non ti deve bastar questo solo essempio a ligarti la lingua, e turarti la bocca, che ti farà confuso con quanti altri sono tuoi compagni, se ti dovesse mandare a ritrovare un maschio megliore o simile a questa Diva Elizabetta, che regna in Inghilterra; la quale, per esser tanto dotata, esaltata, faurita, difesa e mantenuta da' cieli, in vano si forzaranno di desmetterla l'altrui paroli o forze? A questa dama, dico, di cui non è chi sia più degno in tutto il regno, non è chi sia più eroico tra' nobili, non è chi sia più dotto tra' togati, non è chi sia più saggio tra' consulari? In comparazion de la quale, tanto per la corporal beltade, tanto per la cognizion de lingue da volgari e dotti, tanto per la notizia de le scienze ed arti, tanto per la prudenza nel governare, tanto per la felicitade di grande e lunga autoritade, quanto per tutte l'altre virtudi civili e naturali, vilissime sono le Sofonisbe, le Faustine, le Semirami, le Didoni, le Cleopatre ed altre tutte, de quali gloriar si possano l'Italia, la Grecia, l'Egitto e altre parti de l'Europa ed Asia per gli passati tempi? Testimoni mi sono gli effetti e il fortunato successo, che non senza nobil maraviglia rimira il secolo presente; quando nel dorso de l'Europa, correndo irato il Tevere, minaccioso il Po, violento il Rodano, sanguinosa la Senna, turbida la Garonna, rabbioso l'Ebro, furibondo il Tago, travagliata la Mosa, inquieto il Danubio; ella col splendor degli occhi suoi, per cinque lustri e più s'ha fatto tranquilla il grande Oceano, che col continuo reflusso e flusso lieto e quieto accoglie nell'ampio seno il suo diletto Tamesi; il quale, fuor d'ogni tema e noia, sicuro e gaio si spasseggia, mentre serpe e riserpe per l'erbose sponde. Or dunque, per cominciar da capo, quali....
 

•Armesso•Taci, taci, Filoteo non ti forzar di gionger acqua al nostro Oceano e lume al nostro sole: lascia di mostrarti abstratto, per non dirti peggio, disputando con gli absenti Poliinnii. Fatene un poco copia di questi presenti dialogi, a fine che non meniamo ocioso questo giorno e ore.
 

•Teofilo•Prendete, leggete.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

De Causa, Principio e Uno

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Musica: "Caelum non animum" (Carmina Burana  secolo XIII)