Il tuo browser non supporta il tag embed per questo motivo non senti alcuna musica |
Presentazione Trattando dei primi cabalisti, Charles Mopsick ha scritto (1) che, di tutti i nomi che la storia ne ha conservato, «quello di Rabbi Isaac il Cieco (morto verso il 1235) indica l'unico cabalista del quale si sia conservata un'opera scritta di una certa sostanza. Né R. Abraham ben David di Posquières, suo padre, né Jacob Nazir, che abitava anch'egli nella Linguadoca, presso Narbona, hanno lasciato, in questo campo, opere degne di questo nome, anche se i pochi frammenti dei loro scritti a noi giunti testimoniano la loro vicinanza alle idee e al simbolismo della cabala. È infatti ad Abraham ben David che si deve, tra le altre cose, la prima presentazione dei due principali attributi divini, quello della misericordia e quello del giudizio, sotto forma di una figura androgina i cui poli, maschile e femminile, sono incastrati l'uno con l'altro, secondo uno schema che sarà largamente diffuso e rielaborato dai cabalisti posteriori. Isaac il Cieco, suo figlio, è l'autore di un commento al Libro della creazione, di diversi testi sulla preghiera mistica, di un commento al racconto della Genesi e di uno sul significato esoterico dei comandamenti, del quale ci sono giunti solo pochi frammenti sparsi. Nel suo commento al Libro della creazione, le Sephiroth sono identificate con le "cause misteriose" procedenti dall'Infinito (l'Ein-Sof assolutamente nascosto) e che costituiscono le essenze di ogni realtà. Temi di origine neo-platonica sono stati così mescolati con i concetti del Libro della creazione e in certe formule di Isaac il Cieco e dei suoi immediati discepoli sono stati riconosciuti, a ragione, echi della terminologia del filosofo irlandese Giovanni Scoto Erigena (X secolo). L'esame dell'opera di Isaac il Cieco e dei frammenti dei suoi scritti e dei suoi insegnamenti che i cabalisti posteriori hanno trasmesso, mostra che, con questo autore, la cabala si è già pienamente costituita in un sistema teosofico e teurgico inglobante tutta la sfera religiosa del giudaismo, della quale propone una totale reinterpretazione». Molto più estesamente, dopo averlo definito come «la figura centrale della più antica Kabbalà» (2), il maggiore storico della Qabbalah nel secolo scorso, Gershom Scholem, ha tratteggiato la figura e l'opera di Isaac il Cieco nei seguenti termini:
«Isacco il Cieco domina su tutti i suoi contemporanei con la sua autorità e con la durevole influenza che ha esercitato sui più antichi kabbalisti. Nel secolo XIX, per gli esploratori della Kabbalà non era certamente niente di più che un semplice nome senza contenuto. La sua figura personale e il suo mondo di concezioni mistiche erano a tal punto oscuri che ci si è potuti smarrire fino al punto da credere, senz'ombra di giustificazione, che egli fosse l'autore del Sèfer Bahìr. In realtà un esame approfondito delle fonti kabbalistiche e, soprattutto, dei manoscritti prova che numerose informazioni e discorsi su di lui o derivati da lui sono stati conservati nella tradizione dei suoi discepoli e dei discepoli dei suoi discepoli. Possediamo trattati che senza dubbio sono stati redatti sotto la sua dettatura, e pure frammenti di trattati di questo genere, dettagli trasmessi sul suo carattere e sulle pratiche che seguiva, e non v'è alcun motivo per dubitare della loro autenticità. Le sue stesse parole, nella misura che ci sono pervenute, sono spesso formulate in modo molto misterioso e quanto mai difficili a capirsi. Quanto a me, non posso vantarmi di aver compreso più della metà dei materiali da lui trasmessi. Ha un suo modo proprio di esprimersi. La sintassi delle frasi è in parte impenetrabile, in particolare nel più lungo dei testi conservati e, molto frequentemente, espone idee che rimangono del tutto inspiegabili. Rimangono dunque, in ciò che dice, numerosi enigmi da risolvere, ed è solo attraverso un'accurata analisi e pesando ogni frase che si otterranno risultati sicuri nelle parti che gli scritti dei suoi discepoli non aiuterebbero a chiarire. Per fortuna, la produzione letteraria dei suoi allievi, anche là dove non lo citano direttamente, è molto istruttiva, poiché possiamo di massima pensare che ciò che v'è di comune nelle loro concezioni kabbalistiche deve essere ricondotto a lui.
Isacco il Cieco è un kabbalista puro. Non abbiamo di lui scritti esoterici, né halakhici, né omiletici o altri. Anche una lettera che rappresenta in qualche modo una consultazione sul testo di una delle benedizioni della 'Amidà, la preghiera delle diciotto Benedizioni, e che è conservata in un solo ed unico manoscritto, è piena di allusioni kabbalistiche. Appare chiaramente che la sua autorità e la sua grandezza non erano dovute al fatto che fosse eminente in altri campi dello studio della Torà. Secondo un'informazione di Shemtòv ibn Gaòn, suo padre, Rabèd, si sarebbe accontentato di indicare sommariamente le dottrine kabbalistiche di certi passi dei suoi commenti al Talmùd, rimettendosi completamente alla scienza mistica di suo figlio, che seguiva il suo insegnamento. In questa affermazione, sembra che vi sia confusione tra la causa e gli effetti. Il ritegno osservato da Rabèd si potrebbe benissimo spiegare in altro modo. Bisogna anche chiedersi se gli scritti di Isacco, questi scritti in cui, secondo Shemtòv ibn Gaòn, avrebbe fatto allusione, sotto il manto di ogni tipo di piccole parole, a grandi segreti, siano stati in realtà redatti, come ricettacoli di conoscenze kabbalistiche, prima della morte del padre. Non abbiamo alcuna data più precisa circa la sua vita e la composizione delle sue opere. Ma dobbiamo ammettere che ha raggiunto una tarda età, poiché la lettera inviata a Gerona, di cui parlerò nel prossimo capitolo, deve esser stata scritta verso il 1235. Tuttavia, citazioni dei suoi scritti si ritrovano già nelle opere che risalgono ad epoca anteriore, come, per esempio, il commento alle aggadòth del Talmùd di Ezrà ben Shelomò. Dev'essere per conseguenza vissuto all'incirca dal 1165 al 1235.
Anch'egli, senza alcun dubbio, faceva parte del gruppo dei perushìm di cui s'è già parlato, senza che lo si definisca con i termini di parush o di nazìr. Egli è sempre "il Chassìd". Negli scritti dei kabbalisti spagnoli, è a lui che si pensa quando si parla semplicemente del Chassìd, senza aggiungere un nome, come nelle opere dei chassidìm tedeschi, questo titolo onorifico caratterizza sempre Jehudà Chassìd. D'altra parte i suoi allievi non ricordano che raramente il suo nome, limitandosi per lo più all'appellativo: "il nostro Maestro il Chassìd" o "il Chassìd". Suo nipote, Ashèr ben Davìd, parla di lui in questi termini: "Il signor mio zio, il santo Chassìd R. Isacco, figlio del Rav"; ed altri lo presentano come "il Chassìd, figlio del Rav". Il "Maestro", Rav, senz'altro, era per loro Rabèd. A giudicare dal titolo che il suo commento al Libro della Creazione porta in numerosi manoscritti, Isacco sembra aver risieduto, almeno temporaneamente, a Posquières.
Tutta la tradizione kabbalistica, alla fine del secolo XII, afferma di sapere che egli era cieco. Ma l'affermazione, trasmessa dal solo Isacco d'Akko, secondo la quale "questo Chassìd, durante la sua vita, non ha visto niente con i suoi occhi terrestri", non mi sembra degna di fede. I suoi diretti allievi non par- lano mai di questa cecità. Era cieco fin dalla nascita? Questa ipotesi non sembra solamente smentita dalle considerazioni elaborate alle quali si dedica sulla mistica della luce in tutta una serie di frammenti conservati e nel commento al Sèfer Jetzirà. Essa è infirmata anche dagli argomenti contenuti nella sua lettera o consultazione sulla formula: "Dio di Davìd e Costruttore di Gerusalemme" che contiene una delle benedizioni della 'Amidà quotidiana. Queste righe tradiscono il sapiente che compulsa antichi manoscritti. Riferendosi a testi mistici assai poco diffusi, del periodo dei Gheonìm (un adattamento magico della 'Amidà sotto il titolo: "Preghiera d'Elia", Tzlotà de Elijàhu, conservata in alcuni manoscritti, e, in parte, ad opere che non ci sono conservate in nessun modo, egli scrive: "Ho trovato in un vecchio manoscritto del Machazòr" come se l'avesse trovato egli stesso e non per mezzo di uno degli allievi che lavorava al suo servizio. Il che ci fa supporre che egli non abbia perso la vista che nel corso della sua vita. D'altra parte, la sua mistica contemplativa manca effettivamente di plasticità. Comunque sia, gli aneddoti che circolano sul suo conto non provano che una cosa: che era cieco in età adulta. Si racconta di lui che egli intuiva l'atmosfera che circonda l'uomo e questa sensazione gli permetteva di predire chi sarebbe vissuto e chi sarebbe morto. Egli avrebbe anche saputo se l'anima di un uomo aveva già compiuto delle peregrinazioni o se essa faceva parte delle anime "nuove". Per ciò che riguarda i suoi doni taumaturgici, una tradizione ci rende noto che c'era tanta forza nella sua preghiera per i malati quanto in quella del celebre taumaturgo talmudista Chaninà ben Dossà. È senza dubbio a lui che pensa suo nipote, quando parla dei mistici del suo ambiente e sottolinea, a questo riguardo, la potenza della loro preghiera: "I mistici d'Israele [maskilè Israèl] che cercano Dio, che l'invocano e che sono esauditi, che condividono tutte le miserie dei loro simili e che supplicano e si mortificano per loro davanti alla faccia del loro Creatore, la cui preghiera [a Dio] è accolta e per mezzo dei quali si sono compiuti i molti miracoli in favore degli individui e della comunità". Isacco non è affatto il solo "maestro della preghiera", nel senso esatto del termine, in seno a questo gruppo, anche se ne è il più eminente. Una vita di intensa preghiera s'associa precisamente, in questo cenacolo, con la dottrina della kavvanà, e direttive particolareggiate di Isacco sono conservate per le meditazioni da praticarsi durante la recita di talune preghiere. Questa mistica liturgica si trova già colle- gata, in lui, con una dottrina pienamente sviluppata degli eoni, nella quale la gnosi kabbalistica s'è cristallizzata e che entra ora in stretto rapporto con la mistica contemplativa della Machahavà divina ed umana, il "Pensiero". Tutte le tracce che ci sono rimaste del suo insegnamento si fondano già su un simbolismo e su una teoria sviluppati delle sefiròth, che sono le middòth che scaturiscono dal Pensiero primordiale, dal "Pensiero puro". Oltre a queste kavvanòth, possediamo infatti di lui note di tendenza del tutto speculativa, che senza dubbio sono state redatte dai suoi allievi. Forse, egli stesso, prima di perdere la vista, ha pure scritto alcune cose. Ciò che, soprattutto, non solleva alcun dubbio è l'autenticità del commento al Sèfer Jetzirà, che gli è generalmente attribuito e di cui fino ad oggi si conoscono una quindicina di manoscritti. Brani di questo commento sono citati dai suoi allievi diretti o copiati pure senza indicazione della fonte. In uno dei passi del capitolo III, si riconosce ancora chiaramente l'allievo che scrive seguendo l'esposizione o sotto la dettatura di Isacco. Egli ne comincia lo sviluppo con la formula: "e il nostro maestro dice", che si deve certamente intendere, a giudicare dal contesto generale, non di un maestro di Isacco, ma dello stesso Isacco. Il testo stesso porta palesemente, almeno in larga misura, la sua impronta personale, come avviene anche per altre note. Citandolo, i suoi allievi parlano direttamente il leshòn he-Chassìd, il che concorda con la brevità e l'intensità spesso enigmatiche dell'espressione.
Il commento non conta più di 5000 parole, di cui circa i tre quarti riguardano i tre primi capitoli. Sfortunatamente, nessuno dei suoi allievi o degli allievi dei suoi allievi ha commentato a sua volta queste note; siamo così privi di un ulteriore commento di cui avremmo certamente avuto molto bisogno. Isacco d'Akko è il solo ad offrire, nel primo terzo del secolo XIV, una parafrasi delle sue spiegazioni su talune mishnajòth del capitolo I.
Inoltre, era conosciuto fino al secolo XIV uno scritto di Isacco, che conteneva i "segreti" circa i diversi passi della Torà; essi riguardavano, tra l'altro, la storia della Creazione ed i motivi mistici di parecchi comandamenti. Un certo numero di frammenti, alcuni dei quali sono abbastanza lunghi, si sono conservati in leshòn he-Chassìd presso i kabbalisti di Gerona ed i discepoli di Salomone ibn Adrèt. Nella scuola di quest'ultimo, a Barcellona, si trovavano a quanto pare numerosi materiali scritti, provenienti senza dubbio dall'eredità di Nachmanide. Siamo qui, in ogni modo, di fronte ad una tradizione scolastica continua. Meìr ben Sahula soprattutto ha conservato citazioni di questo genere, in numero abbastanza notevole, nel suo super commento di passi kabbalistici contenuti nel commento di Nachmanide sulla Torà. Il carattere relativamente omogeneo di questi testi mi fa supporre, come ho detto, che essi abbiano per origine una sola raccolta o scritto. A ciò vanno aggiunti alcuni frammenti più corti e tradizioni che i suoi allievi hanno raccolto oralmente, come pure materiali anonimi, che si devono attribuire a lui.
Così, presso tutti i suoi allievi si trova il capitolo sulla Sophia, Giob. 28, interpretato in un modo pressoché identico, nello spirito della dottrina delle sefiròth. Il passo di Giob. 28, 12: "Ma la saggezza da dove proviene?" è sempre commentato come se si dovesse intendere che "la saggezza proviene dal nulla", da questo nulla che è il "nulla del pensiero", il luogo ove cessa ogni pensiero, o piuttosto il luogo dove esso è lo stesso Pensiero divino, suprema sefirà designata ora come il nulla. Mi pare evidente che questa interpretazione di Giobbe 28 sia nata in Provenza. Essa rappresenta, infatti, la reinterpretazione, in senso kabbalistico, di una spiegazione, attestata da Sa'adjà, di platonici o atomisti ebrei del secolo IX, che riferivano questi stessi versetti alla dottrina dei "punti spirituali", per i quali si devono intendere le idee, ma forse anche gli atomi. Nell'antica parafrasi di Sa'adjà, che risale ad epoca pretibboniana e che è stata usata dai più antichi kabbalisti, prima che la traduzione di Tibbòn fosse adottata, si usa, anche per gli atomi, l'espressione ebraica, formata sul modello arabo, di ruchanijjìm. In Provenza non la si comprendeva più e non si sapeva gran che della dottrina degli atomisti, ed è così che si è formata l'identificazione degli "elementi spirituali" e dei "punti sottili" di Sa'adjà con le sefiròth. Sono ora gli "atomi mistici", e Giob. 28 è considerato come un locus classicus in appoggio a questa tesi. A parte il commento a Jetzirà, abbiamo di Isacco circa settanta frammenti, senza contare le indicazioni che si riferiscono a lui e a quelle delle sue tradizioni che si possono giudicare come autentiche.
Due volte solamente, si riferisce a suo padre. Benché la maggior parte di questi testi siano molto corti, si tratta tuttavia di materiale considerevole, anche se si fa astrazione, come giusto, da tutto ciò che a lui è stato più tardi attribuito, per errore o dai testi pseudo-epigrafici. Considero pure come brano autentico una spiegazione, conservata in un manoscritto di New York, all'inizio del Midràsh Konèn, composizione cosmogonica-cosmologica consistente in testi della Merkavà e di Bereshìth. Si fa risalire questa spiegazione ad un certo R. Jitzchàq ha-Zaqèn, cioè il Vecchio; ma la terminologia e la concezione s'avvicinano a tal punto a quella di Isacco il Cieco, nel commento a Jetzirà, che sono tentato di considerare i due Isacco come una sola persona. Non sorprende neppure che Isacco abbia fatto dei testi relativi alla Creazione del mondo, quali li trovava in Gen. 1, nel Sèfer Jetzirà e nel Midràsh Konèn, l'oggetto di commenti mistici. D'altra parte, la mistica della luce è formulata in modo particolarmente incisivo nell'ultimo di questi brani, il che si spiega, è vero, con il testo stesso di questo midràsh.
L'opinione di alcuni ricercatori, secondo la quale il soprannome di "padre della Kabbalà" dato ad Isacco il Cieco, nel 1291, dal kabbalista Bachjà ben Ashèr, proverebbe che i kabbalisti stessi consideravano Isacco come il creatore della Kabbalà, è del tutto priva di fondamento. Avì ha-kabbalà non significa altro che: eminente in modo particolare nella kabbalà. È un'imitazione del titolo onorifico Avì haChokhmà, conferito nel Talmùd palestinese, Nedarìm, a Jochanàn ben Zakkài. Mosè stesso è chiamato così all'inizio del midràsh Wajkrà Rabbà. Eleazàr di Worms, nel suo commento alle preghiere (Ms. Parigi 772, f. 73), chiama Jehudà Chassìd "padre della saggezza". Una fraseologia di tal genere non c'insegna niente circa l'origine della Kabbalà» (3).
La traduzione del Peruš Sefer Yetzirah è tratta da Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, a cura di Giulio Busi ed Elena Loewenthal, con introduzione di Giulio Busi, Einaudi, Torino, 1995, pp. 217-242, priva però delle numerose e pertinenti note al testo, per le quali si rinvia all'edizione italiana testè citata.
Il Curatore 1. MOPSIK CH., La Cabala e i cabalisti, Borla, Roma, 2000, pp. 32-33 (trad. it. di Claudio Masi; ed. orig. francese: Cabale et cabalistes, Bayard Éditions, Paris, 1997).
2. SCHOLEM G. G., Le origini della Kabbalà, il Mulino, Bologna, 1973, p. 312 (trad. it. di Augusto Segre, con introduzione di Franco Michelini Tocci; ed. orig. tedesca: Ursprung und Anfänge der Kabbala, Walter de Gruyter & C., Berlin, 1962). 3. Ibidem, pp. 313-322; ad Isaac il Cieco e al suo commento del Libro della creazione Scholem dedica buona parte della stessa opera.
• Presentazione • Capitolo Primo • Capitolo Secondo • Capitolo Terzo • • Capitolo Quarto • Capitolo Quinto • Capitolo Sesto •
|