Della Bittul ha-Yesch, della tecnica dello svuotare per riempire, che poi è lo spirituale annullamento dell’esistenza nel Nulla divino, Aïn, poco se ne è parlato e ancora meno divulgato, la stessa loquacità di Abulafia si interrompe deferente a proposito di tale soggetto, limitandosi soltanto ad accenni laconici, fornendoci, comunque come ora vedremo, indizi nodali.

É a tutti noi noto che le istruzioni sulle metodiche in uso nella meditazione della Qabalah ed in quella ebraica in generale, formavano parte degli insegnamenti occulti e segreti, e se si escludono alcune regole generali, non venivano mai resi pubblici, la trasmissione avveniva bocca orecchio.

Abulafia fu, in un certo senso, il maestro di cabala demitizzante, al diritto di non dare sostituì il coraggio di dire e a proposito dell’Itbodenut, cioè della tecnica meditativa incentrata sull’isolamento di se, così si esprime: si deve osservare ciò che è dentro la testa, la lunga osservazione, continua, conduce il cabalista ad una condizione in cui cessa di essere un semplice cabalista per divenire un profeta. Allora egli conosce Dio non più perché una luce lo illumina dallo esterno, non per via mentale, ma perché il suo spirito lo abbandona, si unisce a Dio e forma un tutt’uno con Lui, conoscendolo per identità.

In un certo senso sono queste delle affermazioni estreme, scioccanti per noi ma ancora di più per i contemporanei del maestro, del resto il personaggio Abulafia non era estraneo a simili stimoli estremi.

L’imbarazzo, attenzione, non emerge però da questa ipotesi di conoscenza per identità, la quale anche se è vero che non fu mai apertamente questionata nelle Pilpul cabaliste, era comunque sussurrata… presente in forma strisciante… è partecipe, infatti, come interiore aspirazione nelle Yihudin (unificazioni), sistema Luriano in uso presso la scuola di Eliezer Azikri nel 1601, e nella Kavvanah, da intendersi come l’attenzione spirituale rivolta alla forma simbolica delle lettere del Tetragramma hwhy, azione in cui lo spirito sovra razionale e iper mentale dello invocante, tutto proiettato sulla realtà divina infinita che si cela nelle lettere, fa si che tutto l’essere dell’uomo si raduni in questo raccoglimento del suo spirito e si unifichi in questa unione con l’Uno.

Il turbamento emerge proprio dalle modalità operative che introduce il termine osservare, Vaerè.

Fin dagli albori la Hitbonenuth, vale a dire la tecnica meditativa incentrata sulla comprensione di se, da non confondersi con la Hitbodenuth di Abulafia, che riguardava l’isolamento di se, fu intesa soltanto come concentrazione protratta del pensiero, sulle luci superne del mondo divino e dei mondi spirituali in genere. A metà del XIV secolo, negli scritti dei maestri, compaiono i termini Kavvanah e Devequt con il significato di attaccamento prolungato del pensiero ad un distinto soggetto.

 

Sulla Devequth consulta in questa stessa sezione

La Devequth

 

La Hitboneuth è interpretata, quindi, soprattutto come possibilità di valutazione massima di un dato o situazione, e solo dopo avervi indugiato per un periodo prolungato l’intelletto passava ad un gradino di comprensione più alto, era in altri termini intesa, soprattutto per i circoli esterni, come una sorta di lavorio mentale particolare.

Con la Bittul ya Yesch, la concentrazione protratta è sostituita dal puro Vaerè, dal puro osservare.

Non esistono, a nostra conoscenza, riferimenti documentali su questa tecnica, per cui quanto verrà riferito in questo seminario ha il privilegio dell’originalità.

Questa tecnica poggia su di un assioma abbastanza intuitivo, e su di un postulato che non tenteremo di dimostrare, anche se nella prima stesura di questa relazione tutto questo era contemplato, vi facciamo quindi grazia di una ventina di pagine irte di riferimenti allo Zohar e di citazioni.

 

Postulato

L’essenza originale dell’uomo è in definitiva Aïn il Nulla, che in effetti è la realtà suprema, assoluta; la sua forma originale, il suo archetipo primo, è EHIEH  l’Essere, cioè l’eterna auto conoscenza, auto affermazione e auto rivelazione della Realtà Suprema.

 

Assioma

Tutto ciò che É deve essere Reale, ritenuto che Aïn è tutto ciò che è Reale, esso deve essere tutto ciò che É.

Induzione: Al di fuori di Aïn non esiste niente altro.

 

Come può avvertirsi sono due scritti molto forti, le cui implicanze per l’essere, si differenziano notevolmente da quelle proposte dagli immanentisti, dai monisti dai teisti e trascendentisti e separa nettamente la Qabalah dal Panteismo.

Qui affermiamo apertamente che nella loro essenza increata ed eterna, tutte le realtà sono Aïn stesso, solo in quanto creature esse manifestano il divino con diverso grado di perfezione, secondo la loro conformità o difformità con il principio supremo.

Per onestà di informazione occorre precisare che nonostante la storia di Israele conosca oltre a Enoch, Mosè ed Elia alcuni altri profeti che realizzarono questo processo, non siamo in grado di presentare ai Fratelli testimonianze dirette, della identità di essenza fra l’uomo e Aïn. Nessuna scuola e nessun maestro ne ha mai espressamente parlato; e come sopra accennavamo, soltanto il maestro Abulafia ne ha tratteggiato, Nacmanide laconicamente l’ha indicata come lo strumento catartico di soluzione radicale, e Luria l’ha segnalata nella sua opera Ghilgul Ghilgulim o Trasmigrazione delle Anime. Se questo è però sufficiente ad ipotizzare che i tre maestri di Qabalah la conoscessero, altrettanto facilmente non si può congetturare sulla paternità o filiazione a scuole specifiche.

Tuttavia, data la natura della stessa, ma soprattutto le finalità operative perseguite, possiamo avanzare l’ipotesi che si tratti di una tecnica super scolae, le cui origini si perdono in un passato remoto, e fondata su esperienze personali caratterizzate dall’assenza dell’elemento esegetico.

Del resto possiamo convenire che non vi è alcuna necessità di utilizzare i versetti della Sacra Scrittura per legittimare un esperienza personale; la pratica vissuta è sufficiente a ratificare i tre gradi della stessa.

La tecnica, vantando una finalità in se stessa, ed essendo, quasi certamente, un insegnamento scaturente da esperienze individuali, pratiche imitabili, esposizione di un percorso diretto, non avverte la necessità della legittimazione Scritturale.

La Bittul ha Yesch è, comunque, ampiamente documentata nel Sepher ha- Zohar e confortata dalla tradizione Aggadica.

Cosa intende con conoscenza per identità? Come è da leggere questo termine, quali gli strumenti idonei ad attuarla. Non può essere certo accettata come una identità fisica. Del resto mi sembra di ricordare che proprio noi della Montesion a proposito del passaggio scritturale ad immagine di Dio lo creò, la prima cosa che facemmo fu il sorridere sull’ipotesi di una lettura fisica.

D’altro canto non possiamo non essere d’accordo sul dato che una identità può essere stabilita soltanto tra elementi della stessa natura, non possiamo ignorare che una reintegrazione, come quella ipotizzata dalla Bittul ha Yesch, è realizzabile soltanto se l’essenza tra gli elementi di relazione è identica… e osservandomi non mi sembra di appartenere alla natura dell’Assoluto, anzi tutto è testimonianza della dualità, la mia stessa esistenza è determinata da una dualità (padre madre), il mio stesso mondo di manifestazione è la dualità relazionale, il tempo e lo spazio, poi, sembrano essere le coordinate assolute sulle quali mi muovo.

Siamo quindi condannati per intero e in una maniera irreversibile, ad essere interamente sottomessi alle condizioni della relatività? Siamo condannati, come qualche Fratello erroneamente sostiene, al solo piacere intellettuale della ricerca? Siamo condannati alla sperimentazione irreversibile della dualità… piacere dolore, vita morte, bene male, amore odio? Si e no. La risposta è si… se la coordinata di riferimento è quella che percorre l’aspetto del particolare, quello del separato, di ciò che sembra essere, la coordinata dell’Emek ha Melek (letteralmente ombra della divinità), la risposta è no… se al contrario seguiamo la coordinata del divino, vale a dire la via centrale dell’Albero.

Ora secondo l’insegnamento della Qabalah, l’anima umana possiede una natura molteplice, e alla pari degli elementi corporei che rivestono l’uomo, possiede una quintessenza da cui si enuclea la sua quadruplice natura e dove si consacra in unità.

Non è però una quintessenza materiale come per il corpo, ma spirituale, la quale si identifica con lo spirito umano universale, vale a dire con Metradon che a sua volta, forma un tutt’uno con la presenza dell’Uno, in altri termini della Shekhinah.

I quattro aspetti o gradi o proprietà interiori dell’anima, rammentiamolo in modo rapido, sono Nephesh (letteralmente soffio vitale) che è l’anima animale, Ruach (letteralmente aria o vento) che è l’anima pensante, Neschamah (testualmente il respiro) vale a dire l’anima puramente spirituale o sacrale, Chajah o anima vivente eternamente.

Questi quattro aspetti dell’anima umana hanno pertanto in comune un'unica quintessenza, detta appunto l’Unica Jechidah, cioè l’unità in se stessa, e la sua propria essenza consiste, secondo quanto riferito dall’insegnamento tradizionale, nell’unità fondamentale assoluta di tutte le varietà dell’Uno assoluto originario. Essa è analoga alla Shekhinah e con la quale, in quanto realtà di Metradon, vi si identifica concretamente. [L'uomo e l'Assoluto secondo la Cabala, di Leo Schaya. Edizioni Rusconi 1976].

 

Sull’anima, secondo il pensiero cabalista, consulta in questa stessa sezione

  L’anima secondo la Qabalah

 

 

 

Indice della Sezione


PreliminariLa TecnicaPrima Fase I Saggi del Pardes  Seconda Fase

Terza Fase