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62. Ed ora, benché sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perciò smetterò di parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo perché qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a compiacermi di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di non produrre documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove senza preoccuparmi che siano pertinenti.
In primo luogo, tutti sono persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo è somma sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti così grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Già in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti. Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti più si estende, tanto più vale?
63. Ma forse per i cristiani l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e porcospino, perché dalla sua Sorbona per un po' si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di furto, come se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c'è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.
Torniamo in argomento. Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto". Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "perché, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."
Ritorniamo all'Ecclesiaste. Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità", che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta un gioco della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc'anzi: "Tutto il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21] di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
Alla stessa conclusione approda il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".
Non riteneva, infatti, che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia". E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo è l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare l'ultimo posto, il che è conforme al dettato evangelico.
Che poi la Follia è superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa è più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e dappoco?" perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare per la strada oro e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli più segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde quanto è più prezioso, mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza è migliore dell'uomo che nasconde la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede nessuno suo simile? Così infatti intendo le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo lui stolto, crede che tutti lo siano". E non è forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri ciò che in te c'è di buono? Perciò il gran re Salomone non si vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo [Prov. 30, 2], disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il più dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse sconveniente.
Qui mi danno sulla voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie - cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa [il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]). Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue parole non cerca di farsi passare per più stolto degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato, con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri, rettifica: "ma io lo sono anche di più", perché nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia come copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire la verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli pazzi.
Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento.
64. Ma perché mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico, tanto è vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa: "Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi figli di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o cinque parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto. Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono tratti a invidiare i teologi.
Che mai hanno più da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di più ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco, Cristo, perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così poco equipaggiati da non avere né calzari contro le spine e i sassi, né bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non intenda il giusto significato di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo anche più inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non quella, però, di cui si servono predoni e parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla vi resti, salvo la pietà.
Orbene, state un po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo. Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non rendendo male per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio dei passeri e dei gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La comprino, a costo di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine spada indichi tutto ciò che può servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i bisogni vitali. Così l'interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perché non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato. né il brav'uomo è turbato neppure dal fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato di comprare a così caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione.
C'è poi un altro, e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra" - ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.
Di recente partecipai io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. poiché uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]: "Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona strada, evitalo". E più volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Finì con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico, e poiché qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorità irrefragabile: "State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico è malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici". Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione e all'ubriachezza.
65. Sono una sciocca a volermi dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto è stato concesso a quei maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto esatte.
E ora, tornando finalmente a Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".
In Luca [34, 25] Gesù chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia di Dio è più saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio: "La parola della croce è follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].
Ma perché mai insisto nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è bisogno, se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e Cassio - mentre di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.
Lo attesta chiaramente san Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto", e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perché attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi".
E ancora quando Gesù lo ringrazia perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zof¢i ). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le più lontane dall'astuzia della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po' dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. né c'è animale più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità di quell'animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome: "Ecco l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. né volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della sapienza, quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.
Forse c'è anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Così infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa così: "É chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non che non l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza della follia.
66. Per non dilungarmi all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.
Infine non c'è pazzo che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'è intenzione d'offesa; considerate piuttosto i fatti. C'è in primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò, finché l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi in piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora è pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito del divino.
Non c'è dubbio: questo accade perché la mente, libera in parte dall'influenza del corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell'ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati che in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell'antro afferma di avere contemplato le cose reali, e che loro s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista se non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti in così grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze, al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono esista perché l'occhio non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia: ossia all'anima, che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno, ed è come se non avessero; posseggono, ed è come se non possedessero. Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto, il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto, la volontà.
Dato che la potenza dell'anima risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone religiose, poiché tutta la forza dell'animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi, subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega così ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece di vino.
E anche fra le passioni dell'anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall'animo anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo è opera di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.
Con questo medesimo criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile, se non è da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai moti d'ira o di superbia, perché lo spirito già meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto dicasi della Eucaristia. Benché non vada sottovalutato l'aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura è pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cioè del contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui.
Queste le azioni, questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se, come ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio altro non è se non una forma di follia.
67. Considerate in primo luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più gode. E quando l'animo si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si può parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è in sé", o anche "torna in te stesso", e "è tornato in se stesso"? D'altra parte quanto più è perfetto l'amore, tanto più è grande, tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo punto l'uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.
Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!
68. Dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne.
Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio l'ascoltatore che ricorda". Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia. 62. Ed ora, benché sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perciò smetterò di parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo perché qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a compiacermi di me stessa, e perché i legulei non mi accusino di non produrre documenti. Perciò, prendendo esempio da loro, allegherò le prove senza preoccuparmi che siano pertinenti.
In primo luogo, tutti sono persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia". Perciò è bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo è somma sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti così grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Già in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, è detto a più riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti. Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode più alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti più si estende, tanto più vale?
63. Ma forse per i cristiani l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se credete, possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa più di ogni istrice e porcospino, perché dalla sua Sorbona per un po' si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di furto, come se per farmi una così bella preparazione teologica alla chetichella avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c'è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.
Torniamo in argomento. Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è il numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto". Ma perché, ottimo Geremia, non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "perché, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."
Ritorniamo all'Ecclesiaste. Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità; tutto è vanità", che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana è tutta un gioco della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc'anzi: "Tutto il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici, è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21] di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.
Alla stessa conclusione approda il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più conosce, più spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".
Non riteneva, infatti, che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia". E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo è l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità deve occupare l'ultimo posto, il che è conforme al dettato evangelico.
Che poi la Follia è superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa è più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e dappoco?" perché tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perché lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri maestri. O forse qualcuno di voi è così stolto da lasciare per la strada oro e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli più segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perciò, se si nasconde quanto è più prezioso, mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico vieta di nascondere non sarà palesemente meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza è migliore dell'uomo che nasconde la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede nessuno suo simile? Così infatti intendo le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo lui stolto, crede che tutti lo siano". E non è forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri ciò che in te c'è di buono? Perciò il gran re Salomone non si vergognò di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo [Prov. 30, 2], disse: "Sono il più folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il più dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse sconveniente.
Qui mi danno sulla voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie - cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa [il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]). Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue parole non cerca di farsi passare per più stolto degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato, con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri, rettifica: "ma io lo sono anche di più", perché nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adottò la follia come copertura, e disse "parlo da dissennato", perché sapeva che dire la verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli pazzi.
Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne taccio il nome, perché i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche più folle vi sembrerò ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di sé, cambia argomento.
64. Ma perché mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in là come un elastico, tanto è vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così, letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa: "Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi figli di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o cinque parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto. Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono tratti a invidiare i teologi.
Che mai hanno più da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di più ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco, Cristo, perché i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così poco equipaggiati da non avere né calzari contro le spine e i sassi, né bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non è chi non intenda il giusto significato di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo anche più inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non quella, però, di cui si servono predoni e parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, sì che nulla vi resti, salvo la pietà.
Orbene, state un po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo. Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non rendendo male per male, perché beati sono i mansueti, non i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio dei passeri e dei gigli, non li volesse più vedere partire senza la spada. La comprino, a costo di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine spada indichi tutto ciò che può servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i bisogni vitali. Così l'interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perché non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato. né il brav'uomo è turbato neppure dal fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato di comprare a così caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione.
C'è poi un altro, e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra" - ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.
Di recente partecipai io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. poiché uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]: "Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona strada, evitalo". E più volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Finì con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico, e poiché qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorità irrefragabile: "State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico è malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici". Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione e all'ubriachezza.
65. Sono una sciocca a volermi dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto è stato concesso a quei maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto esatte.
E ora, tornando finalmente a Paolo, parlando di sé dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".
In Luca [34, 25] Gesù chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia di Dio è più saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio: "La parola della croce è follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].
Ma perché mai insisto nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è bisogno, se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente antipatia le persone troppo intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e Cassio - mentre di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.
Lo attesta chiaramente san Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera stolto", e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perché attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Manderò in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza dei saggi".
E ancora quando Gesù lo ringrazia perché aveva rivelato ai piccoli, cioè agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti (népioi) in contrapposizione ai sapienti (zof¢i ). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le più lontane dall'astuzia della volpe. Perciò preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po' dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. né c'è animale più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidità di quell'animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome: "Ecco l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza, lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per risanarci dai peccati. né volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della sapienza, quasi che la scienza fosse il veleno della felicità. San Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.
Forse c'è anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Così infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa così: "É chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina perché nella mia incredulità ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa "perciò ho ottenuto misericordia", se non che non l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è venuto in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia gioventù e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza della follia.
66. Per non dilungarmi all'infinito cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò, per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.
Infine non c'è pazzo che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro non è se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'è intenzione d'offesa; considerate piuttosto i fatti. C'è in primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perché, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò, finché l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi in piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora è pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito del divino.
Non c'è dubbio: questo accade perché la mente, libera in parte dall'influenza del corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.
Se ciò accade nell'ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati che in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi nell'antro afferma di avere contemplato le cose reali, e che loro s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista se non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti in così grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto più una cosa è attinente al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze, al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono esista perché l'occhio non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia: ossia all'anima, che più di tutto è vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno, ed è come se non avessero; posseggono, ed è come se non possedessero. Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, benché tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto, il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto, la volontà.
Dato che la potenza dell'anima risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone religiose, poiché tutta la forza dell'animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi, subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega così ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece di vino.
E anche fra le passioni dell'anima alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall'animo anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo è opera di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sé il lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.
Con questo medesimo criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile, se non è da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai moti d'ira o di superbia, perché lo spirito già meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto dicasi della Eucaristia. Benché non vada sottovalutato l'aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura è pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cioè del contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui.
Queste le azioni, questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di pietà e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ciò risulterà più chiaro se, come ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio altro non è se non una forma di follia.
67. Considerate in primo luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone quando scrisse che il delirio degli amanti è il più felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sé e si trasferisce in lui tanto più gode. E quando l'animo si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si può parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è in sé", o anche "torna in te stesso", e "è tornato in se stesso"? D'altra parte quanto più è perfetto l'amore, tanto più è grande, tanto più beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che è il più forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto più facilmente perché già in vita lo avrà mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo punto l'uomo sarà interamente fuori di sé, e solo per questo felice, perché, essendo fuori di sé, subirà non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a sé.
Anche se questa felicità sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità, ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicità futura!
68. Dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne.
Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio l'ascoltatore che ricorda". Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.
Parla la Follia Esaminare la questione Se fossero come Asini Le Rane del Portico I Giureconsulti Conclusione dell'Elogio
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