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25. Comunque, se fossero come asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici affari, ci si potrebbe passare sopra; il guaio è che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a pranzo un sapiente: disturberà col suo cupo silenzio, o con le sue noiose questioncelle. Invitalo alla danza: diresti che balla come un cammello. Portalo ad uno spettacolo: basterà la sua espressione a guastare il divertimento alla gente e, come il saggio Catone, sarà costretto a lasciare il teatro perché non può spianare il cipiglio. Se per caso capiterà durante una conversazione, sarà come il lupo della favola. Se c'è da fare un acquisto, un contratto, insomma qualcuna delle cose indispensabili alla vita di ogni giorno, questo sapiente ti sembrerà un pezzo di legno, non un uomo. A tal punto è incapace di rendersi utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perché inesperto delle faccende usuali e perché tanto lontano dal giudizio corrente e dalle accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa anche odiare, per questa sua grande diversità di vita e di intendimenti. Tra i mortali, infatti, che cosa mai si fa che non trabocchi di follia, e che non sia opera di folli in un mondo di folli? Perciò, se qualcuno volesse opporsi da solo a tutti, io gli consiglierei di ritirarsi, come Timone, in un deserto, per godervi, da solo, la propria saggezza.
26. Ma, per tornare all'argomento proposto, quale forza, se non l'adulazione, raggruppò nella città quegli uomini primitivi, simili ai sassi e alle querce? Questo solo vuole indicare la famosa cetra di Anfione e di Orfeo. Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe romana che già stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo e puerile apologo del ventre e delle altre membra. Altrettanto si dica dell'analogo apologo di Temistocle, della volpe e del riccio. E quale discorso di un sapiente avrebbe potuto raggiungere l'efficacia della famosa cerva immaginata da Sertorio, o della trovata dei due cani, dello spartano Licurgo, o dell'altra ridicola storia, sempre di Sertorio, sul modo di strappare i peli dalla coda del cavallo? Per non parlare di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta moltitudine con invenzioni favolose. É con simili sciocchezze che si fa presa su quella grossa e potente bestia che è il popolo.
27. Viceversa, quale città ha mai fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i precetti di Socrate?
Che cosa persuase i Deci a votarsi spontaneamente agli Dèi Mani? Che cosa trascinò nella voragine Quinto Curzio, se non la vanagloria, dolcissima sirena (ma quanto esecrata dai sapienti!).
Che c'è infatti di più sciocco, dicono, di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo, che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati a un uomo insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni scelleratissimi elevati con pubbliche cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche manifestazioni di follia, e per riderci sopra non basterebbe un solo Democrito. Chi lo nega? Tuttavia, proprio di qui sono nate le grandi imprese degli eroi, levate al cielo dall'opera di tanti letterati. Questa follia genera le città; su di essa poggiano i governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.
28. Quanto poi alle arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell'animo umano la brama d'inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono uomini davvero stoltissimi quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose veglie quella fama di cui niente può essere più vano. Ma intanto voi dovete alla Follia tante cose e così egregie della vita, e, ciò che soprattutto conta, la follia altrui fa la vostra cuccagna.
29. C'è, ora, qualcosa di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l'operosità, rivendicherò anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che è come accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo che riuscirò anche in questo purché voi, come prima, mi prestiate benevola attenzione. In primo luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza, a chi meglio conviene fregiarsi dell'appellativo di saggio? Al sapiente che, parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al folle che né il pudore, di cui è privo, né il pericolo, che non misura, distolgono da qualche cosa? Il sapiente si rifugia nei libri degli antichi e ne trae solo sottigliezze verbali. Il folle affronta da vicino le situazioni coi relativi rischi e così acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che sembra avere visto, benché cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i fatti". Sono due infatti i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.
perché, se preferiscono attingere quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle cose, state a sentire, vi prego, quanto ne sono lontani coloro che si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'è noto, tutte le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce affatto diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono, vedi la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa, al posto della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto, della ricchezza la miseria, dell'infamia la gloria, della dottrina l'ignoranza, del vigore la debolezza, della generosità l'abiezione, della letizia la malinconia, della prosperità la sventura, dell'amicizia l'inimicizia, del salutare il nocivo: in breve, se apri il Sileno, trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno giudica troppo filosofico questo discorso, mi spiegherò, come suol dirsi, più alla buona.
Chi negherà che un re è ricco e potente? Eppure, se manca del tutto dei beni dell'animo, se non è mai contento di nulla, è davvero il più povero di tutti. Se poi il suo animo è una sentina di vizi, è addirittura uno schiavo abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare anche per gli altri. Ma accontentiamoci dell'esempio proposto. A che scopo? domanderà qualcuno. State a sentire dove voglio arrivare.
Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un re, d'improvviso diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo da nulla. Dissipare l'illusione significa togliere senso all'intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione, il trucco. L'intera vita umana non è altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un'altra, ognuno recita la propria parte finché, ad un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento.
A questo punto, se un sapiente caduto dal cielo si levasse d'improvviso a gridare che il personaggio a cui tutti guardano come a un Dio e a un potente, non è neppure un uomo, perché come le bestie si lascia dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni così numerosi e turpi, è l'ultimo degli schiavi; e, se ad un altro che piange il padre morto ordinasse di ridere perché il padre, finalmente, ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non è che morte; e se chiamasse plebeo e bastardo un terzo che mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben lontano dalla virtù, unica fonte di nobiltà: se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla di più stolto di una saggezza intempestiva; nulla di più fuori posto del buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi non sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti, e dimentica persino la regola conviviale: o bevi o te ne vai, e vorrebbe che una commedia non fosse più una commedia. Invece, per un mortale, è vera saggezza non voler essere più saggio di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso all'andazzo generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio questo è follia. Non lo contesterò, purché riconoscano in cambio che questo è recitare la commedia della vita.
30. Quanto al resto, Dèi immortali, parlerò o tacerò? E perché mai dovrei tacere cose più vere della verità? Ma forse, in così grave frangente, meglio sarebbe chiamare in aiuto dall'Elicona le Muse che i poeti sono soliti invocare anche troppo spesso per vere sciocchezze. Assistetemi dunque per un poco, figlie di Giove, finché non dimostri che nessuno senza la guida della follia può accedere alla sapienza, a quella che chiamano la rocca della felicità.
In primo luogo, è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia: ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione. Perciò gli stoici spogliano il sapiente di tutte le passioni come fossero delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi, non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano al bene. Anche se qui fieramente leva la sua protesta Seneca, col suo stoicismo integrale, negando al sapiente ogni passione. Ma così facendo distrugge anche l'uomo e crea al suo posto un Dio di nuovo genere, che non è mai esistito e non esisterà mai; anzi, per parlare ancora più chiaro, scolpisce la statua di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di qualunque sentimento umano. Perciò, se lo desiderano, si godano pure il loro saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui nella Repubblica di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei giardini di Tantalo.
Chi, infatti, non sfuggirà con orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto, sordo ad ogni naturale richiamo, incapace d'amore o di pietà, come "una dura selce o una rupe Marpesia"? Un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, ma che con l'occhio acuto di Linceo tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona; solo di sé contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui solo libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza amici, pronto a mandare all'inferno gli stessi Dèi, e che condanna come insensato e risibile tutto ciò che si fa nella vita. Eppure quel perfetto sapiente è proprio un animale fatto così. Ma, di grazia, se si dovesse decidere con i voti, quale città lo vorrebbe come magistrato, quale esercito lo designerebbe come capo? Quale donna vorrebbe o sopporterebbe un simile marito, quale anfitrione un simile convitato, quale servo un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque, uno della folla dei pazzi più segnalati, che, pazzo com'è, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando la simpatia dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si possa convivere, che, infine, non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano? Ma ormai del sapiente ne ho abbastanza. Perciò torniamo a parlare degli altri vantaggi che offro.
31. Supponiamo che potendo spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno - come, secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della gioventù, e com'è pesante la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle malattie, dei vari accidenti, l'incalzare delle contrarietà: nulla mai che sia immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l'uomo subisce dall'uomo, come la povertà, la prigionia, l'infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto è come mettersi a contare i granelli di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui per quali colpe gli uomini abbiano meritato questa sorte, o quale Dio irato li abbia costretti a nascere tanto infelici. Chi rifletta a tutto questo non sarà forse portato ad approvare l'esempio, pur così penoso, delle vergini di Mileto? E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati la morte? Non sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di più? Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni, i Cassi, i Bruti, prendiamo il famoso Chirone che, potendo diventare immortale, preferì cercare spontaneamente la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si diffondesse; sarebbe necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di plasmare altri uomini. Io, invece, puntando ora sull'ignoranza e ora sulla spensieratezza, a volte facendo dimenticare i malanni, a volte suscitando speranze di cose favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla di miele, in così grandi malanni, sono così soccorrevole che nessuno vuole lasciare la vita, neppure quando il filo delle Parche è già esaurito e la vita stessa viene meno. Anzi chi ha minori motivi di restare in vita, tanto più ama vivere, tanto è lontano dall'essere comunque sfiorato dal tedio della vita.
Si deve certo a me, se si vedono in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi che non hanno più neppure volto d'uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati, canuti, calvi, o, per dirla con Aristofane, lerci, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che ora si tingono i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e ora si servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c'è tra loro chi si strugge d'amore per una fanciulla e, in fatto di amorose sciocchezze, dà punti anche a un ragazzino. Che vecchi rammolliti, già pronti per il cataletto, sposino giovinette, anche se prive di dote e destinate a fare la gioia di altri, è cosa ormai così frequente da costituire quasi motivo di vanto.
Ma nulla c'è di più spassoso di certe vecchie praticamente già morte tanto sono decrepite, a tal punto cadaveriche da sembrare reduci dagl'inferi, ma che hanno sempre sulle labbra il ritornello: "la vita è bella"; fanno ancora le vezzose; mandano sentore di capra - come dicono i Greci; conquistano a caro prezzo un qualche Faone, s'imbellettano di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono i peli del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano con tremuli mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; ed hanno ragione: ma loro, le vecchie, sono tanto contente di sé, nuotano in un mare di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e tutto per merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d'irrisione riflettesse un po': è meglio trascorrere nella follia una vita colma di dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una trave a cui impiccarsi?
Che la loro condotta sia giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa proprio nulla: nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore, non ne tengono nessun conto. Prendersi un sasso in testa, questo sì che fa male. La vergogna, l'infamia, il disonore, le offese, nuocciono nella misura in cui fanno soffrire. Per chi non se la prende, non sono neppure un male. Che t'importa se tutti ti fischiano, se tu ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola Follia.
32. Mi pare di sentire protestare i filosofi: l'infelicità, dicono, è proprio qui, nell'essere prigionieri della Follia, sbagliare, vivere nell'inganno, nell'ignoranza. Ma essere uomo è appunto questo. né riesco a capire perché parlino d'infelicità: così siete nati, educati, formati: questa è la sorte comune a tutti. Nessuno è infelice quand'è in armonia con la propria natura, a meno di compiangere l'uomo perché non può volare con gli uccelli, né camminare a quattro zampe con gli altri mammiferi, o perché, a differenza dei tori, non è armato di corna. Da tal punto di vista chiameremo infelice anche un bellissimo cavallo perché non sa di grammatica e non mangia dolciumi, infelice il toro in quanto negato agli esercizi della palestra. In realtà, come non è infelice il cavallo che ignora la grammatica, così non è infelice l'uomo per la sua follia, che è conforme alla sua natura.
Ma ecco che quegli esperti del ragionamento tortuoso tornano alla carica. É dono peculiare dell'uomo, dicono, la conoscenza scientifica, di cui si serve per compensare con l'ingegno ciò che la natura gli ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita nei confronti delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, avesse tirato via solo nella creazione dell'uomo, rendendogli necessarie quelle scienze che Theuth, col suo genio ostile al genere umano, inventò per nostra somma iattura: tanto inadatte a renderci felici che anzi contrastano col loro presunto fine, come con eleganza sostiene in Platone un re molto saggio a proposito dell'invenzione dell'alfabeto. Le scienze dunque sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre calamità della vita mortale, per opera di coloro da cui partono tutti i malanni, i demoni che ne hanno anche derivato il nome, in greco DAEMONES, ossia "coloro che sanno". La gente semplice dell'età dell'oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l'unica guida della natura e dell'istinto. Che bisogno c'era della grammatica, quando tutti parlavano la stessa lingua e niente altro si chiedeva se non di capirsi l'un l'altro? A che la dialettica, se non c'era contrasto di opposte posizioni? A che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che bisogno c'era della giurisprudenza, se non c'erano quei cattivi costumi che, senza dubbio, hanno fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con empia curiosità i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl'influssi delle stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo di conoscere più di quanto era loro concesso. Lo stolto desiderio di andare a cercare cosa ci fosse di là dal cielo non passava neppure per la mente. Col graduale esaurirsi dell'età dell'oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con la loro superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi loro interessi svagati, moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente. Con la sola grammatica ce ne sarebbe già di troppo per il tormento di una vita intera.
33. Tuttavia tra queste scienze le più pregiate sono le più vicine al senso comune, cioè alla Follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano nulla, mentre un solo medico vale quanto molti uomini. In questa professione quanto più uno è ignorante, avventato, leggero, tanto più è considerato dagli stessi prìncipi con tanto di corona in testa. La medicina, infatti, specialmente come viene esercitata oggi dai più, si riduce, come la retorica, a una forma di adulazione. Il secondo posto, con un brevissimo stacco, spetta ai legulei - e starei per dire il primo; la loro professione, per non esprimere pareri personali, è irrisa per lo più dai filosofi, fra il generale consenso, come un'arte da asini. Tuttavia gli affari, dai più grandi ai più piccoli, sono a discrezione di questi asini. I loro latifondi si estendono, mentre il teologo, dopo essersi documentato su tutti gli aspetti della divinità, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua con cimici e pidocchi.
Ma, se le arti più fortunate sono quelle più affini alla Follia, più fortunati fra tutti sono coloro che riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che in nessuna parte è manchevole, a meno che non pretendiamo di oltrepassare i confini della nostra sorte mortale. La natura odia gli artifici: fortunato chi è rimasto immune dalla contaminazione delle arti.
34. Orsù, non vedete che fra le varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio le più lontane dalle arti, quelle che hanno per unica maestra e guida la natura? che c'è di più felice o mirabile delle api? E dire che non hanno neppure tutti i sensi. Come potrebbe un architetto realizzare qualcosa di simile alle loro costruzioni? quale filosofo mai fondò una Repubblica come la loro? Il cavallo, invece, poiché è simile all'uomo dal punto di vista dei sensi ed è diventato suo compagno, è anche partecipe delle umane calamità. Non di rado, vergognandosi di perdere in gara, si sfianca nella corsa; in guerra, assetato di vittoria, viene colpito e morde la polvere insieme al cavaliere. Per non parlare del morso, degli sproni aguzzi, della stalla dove è quasi prigioniero, del frustino, del bastone, delle redini, del cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica schiavitù a cui si è votato spontaneamente nel tentativo di vendicarsi a ogni costo del nemico emulando gli eroi. Quanto più invidiabile la condizione delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo solo al naturale istinto, sempre che lo consentano le insidie degli uomini! Gli uccelli, infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare la voce umana, quanto si allontanano dal primitivo splendore! A tal segno, sotto tutti i rispetti, il prodotto di natura è migliore di quello che l'arte ha adulterato.
Perciò non loderò mai abbastanza il gallo in cui si reincarnò Pitagora che, essendo stato tutto, filosofo, uomo, donna, re, principe, privato cittadino, pesce, cavallo, rana e, credo, anche spugna, nessun animale, tuttavia, giudicò più disgraziato dell'uomo, perché, mentre tutti gli altri sono contenti dei loro limiti naturali, soltanto l'uomo tenta di oltrepassare i confini della sua condizione.
35. E tra gli uomini, sotto molti punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi. Molto più saggio di Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo che preferì di grugnire in un porcile piuttosto che andare con lui incontro a tante calamità. Mi pare la pensi così anche Omero, padre delle favole, che, mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a più riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. perché mai? Soltanto perché, quell'astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade, e, quanto mai sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello.
Perciò i più lontani dalla felicità sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza, doppiamente stolti perché, dimentichi della loro condizione di uomini, si atteggiano a Dèi immortali e, a somiglianza dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi di ordigni costruiti dalla loro perizia; i meno infelici, invece, sembrano quelli che restano più vicini all'istinto e alla stupidità dei bruti, né tentano mai di oltrepassare le capacità dell'uomo. Proverò anche a dimostrarlo, e non con gli entimèmi degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di tutti. Per gli Dèi immortali, vi è forse al mondo qualcosa di più felice di quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui, sciocchi? appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò anzi una cosa che, se a prima vista può sembrare una sciocchezza ed un'assurdità, in fondo è di una verità indiscutibile.
Loro, innanzitutto, non hanno paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano rimorsi di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni; non si crucciano per il timore di mali incombenti; non entrano in ansia nella speranza di beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei mille affanni a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi più si avvicina alla stupidità dei bruti - ne sono garanti i teologi - è anche immune dal peccato. Ed ora, mio sciocchissimo saggio, vorrei che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte e giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel mucchio di tutti i tuoi guai; alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi che, non solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere, scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perciò, mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono senza eccezione sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li stringono in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possono dire o fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono davvero sacri agli Dèi, e a me in particolare. Perciò, a buon diritto, sono da tutti onorati.
36. Grandi re, tanto se ne dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un'ora, possono farne a meno né a tavola né a passeggio. Non di poco preferiscono questi buffoni agli austeri filosofi, che tuttavia sono soliti mantenere per ragioni di prestigio. perché poi li preferiscano, non mi sembra un mistero, né deve destare stupore; quei saggi, per i prìncipi, sono solo apportatori di tristezza; talora fidando nella loro dottrina, non si peritano di sfiorare quelle orecchie delicate con qualche pungente verità. I buffoni, invece, offrono ai prìncipi la sola cosa che questi desiderano con tutta l'anima: delizie come passatempo, scherzi, risate, divertimenti. E non dimenticate anche questa non trascurabile dote dei folli: solo loro sono schietti e veritieri.
E che c'è mai di più lodevole della verità? Anche se in Platone un detto d'Alcibiade attribuisce la verità al vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia di un elogio che, in assoluto, spetta soprattutto a me. Ne fa fede Euripide che a me si riferisce col celebre detto: "Il folle dice cose folli". Il folle porta scritto in faccia, e traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo Euripide, hanno due linguaggi: quello della verità e quello dell'opportunismo. É loro caratteristica mutare il nero in bianco, spirando dalla medesima bocca ora il freddo ora il caldo, avendo in fondo al cuore tutt'altro da quello che dicono nei loro artefatti discorsi. Nella loro fortuna i prìncipi a me sembrano sotto questo rispetto molto sfortunati: non hanno nessuno che dica loro la verità, e sono costretti ad avere come amici degli adulatori.
Ma, si potrebbe osservare, le orecchie dei prìncipi detestano la verità e proprio per questo rifuggono dai saggi, nel timore che qualcuno di lingua più sciolta osi dire cose vere piuttosto che gradevoli. Così è: i re non amano la verità. Tuttavia proprio questo si volge mirabilmente in vantaggio per i miei folli: da loro si ascoltano con piacere, non solo la verità, ma anche indubbie insolenze, a tal punto che, la stessa cosa, detta da un sapiente, gli frutterebbe la morte, detta da un buffone diverte il signore oltre ogni dire. La verità, infatti, ha un non so quale schietta capacità di piacere, purché non si accompagni all'intenzione di offendere: ma questo è un dono che gli Dèi hanno elargito ai soli folli.
Sono press'a poco medesime le ragioni per cui le donne, più inclini per natura al divertimento e alle frivolezze, si trovano di solito tanto bene con un simile genere di uomini. Perciò, qualunque cosa costoro facciano - anche se a volte sono cose fin troppo serie - le donne, tuttavia, le volgono in scherzo e gioco, abili come sono nel mascherare ogni loro trascorso.
37. Ma ora torniamo alla felicità dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia, senza né il timore né il senso della morte, se ne vanno diritti ai campi Elisi, per dilettare anche lì, coi loro scherzi, il riposo delle anime pie.
Paragoniamo quindi la condizione del saggio con quella di questo buffone. Immagina, per contrapporlo a lui, un modello di sapienza: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e l'adolescenza a istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della propria vita in veglie senza fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre parco, povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri; pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del tempo, colto da morte prematura, anche se nulla importa, dopo tutto, quando muore un uomo così, che non è mai vissuto. Ecco l'immagine perfetta del sapiente.
Parla la Follia Esaminare la questione Se fossero come Asini Le Rane del Portico I Giureconsulti Conclusione dell'Elogio
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