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13. E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di gran lunga la più lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati perché con una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli? E l'adolescenza che segue l'infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bontà tutti le tendono una mano!
Ma di dove, di grazia, questa benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? É per merito mio che i giovani sono così privi di senno; è per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia, se non ammettessi che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza e l'educazione cominciano ad acquistare una certa maturità, subito sfiorisce la loro bellezza, s'illanguidisce la loro alacrità, s'inaridisce la loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto più si allontanano da me, tanto meno vivono, finché non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della fiaba di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, anch'io, per quanto è possibile, non riportassi all'infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su questo farò misteri.
Conduco i vecchi alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate - il Lete che scorre agli Inferi è solo un esile ruscello. Lì, bevute a grandi sorsi le acque dell'oblio, un poco alla volta, dissipati gli affanni, torneranno bambini.
Ma delirano ormai, non ragionano più! Certo. É proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse che essere fanciulli non significa delirare e non avere senno? e non è proprio questo, il non aver senno, che più piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un bambino con la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: "Odio il bambino di precoce saggezza". E chi, d'altra parte, vorrebbe rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla lunga esperienza di vita unisse pari forza d'animo e acutezza di giudizio?
Così, per mio dono, il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è libero dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta di bere, è un allegro compagno; non avverte il tedio della vita, che l'età più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose lettere [AMO], che se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito mio è felice, simpatico agli amici, piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso scorre dalla bocca di Nestore più dolce del miele, mentre amare sono le parole di Achille; e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori alla stessa infanzia, che è sì deliziosa, ma non parla, e, priva della parola, manca del principale diletto della vita, che è quello di una schietta conversazione. Aggiungi che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini i vecchi, "perché il dio spinge sempre il simile verso il simile". In che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che nel vecchio sono di più? Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta, desiderio di latte, balbuzie, garrulità, mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione: in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano. Quanto più invecchiano, tanto più somigliano ai bambini, finché, come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della morte, abbandonano la vita.
14. Paragoni ora chi vuole questo mio beneficio con le metamorfosi operate dagli altri Dèi. E non sto a ricordare quello che fanno quando li possiede l'ira; parlo di coloro che godono di tutta la loro benevolenza: li trasformano di solito in alberi, uccelli, cicale, e perfino in serpenti, come se il diventare altro non fosse proprio un morire. Io, invece, restituisco il medesimo uomo al periodo migliore della vita, al più felice. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, e vivessero sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza.
Non vi accorgete che gli uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende serie e difficili, in genere sono già vecchi prima di essere stati davvero giovani, e questo per le preoccupazioni e per il costante e teso dibattito mentale, che un po' alla volta esaurisce gli spiriti e la linfa vitale?
Al contrario, i miei bei matti sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, proprio come quelli che chiamano porcelli d'Acarnania, immuni, per certo, da qualunque disturbo senile, a meno che non si trovino a subire in qualche misura il contagio dei saggi, come capita, poiché la vita non consente mai una completa felicità.
Valida testimonianza di tutto questo è il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia è capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia. Sicché, non a torto, si è fatto l'elogio del detto popolare del Brabante: mentre altrove, di solito, l'età porta saggezza, qui più s'invecchia e più matti si diventa. Non c'è popolazione, infatti, più incline di questa a un giocondo abito di vita e meno portata ad avvertire la tristezza della vecchiaia. Loro vicini, e dal punto di vista geografico e da quello del costume, sono i miei Olandesi - e perché, poi, non dovrei chiamarli miei, se mi sono così devoti da essersi meritato un soprannome [di folli] di cui non si vergognano per nulla, che anzi ne traggono il loro vanto principale?
Vadano pure gli stoltissimi mortali a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le Aurore, e non so quale fonte che restituisca loro la giovinezza, quando io sola posso, e sono solita farlo. Sono io che possiedo quel filtro miracoloso con cui la figlia di Memnone prolungò la giovinezza di Titone suo avo. Sono io quella Venere per la cui grazia Faone ringiovanì a tal segno da essere amato follemente da Saffo. Sono mie le erbe, se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte che non solo risuscita la giovinezza svanita, ma, meglio ancora, la mantiene per sempre. Perciò, se siete tutti d'accordo su questo, che niente è meglio della giovinezza, e niente più odioso della vecchiaia, vi rendete conto, io credo, di quello che dovete a me, che, fugato un male tanto grande, conservo un così grande bene.
15. Ma perché parlo ancora dei mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa chiunque infamare il mio nome se si troverà un solo Dio non privo di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione del mio nume. Infatti, perché Bacco è sempre il chiomato efebo? proprio perché, pazzo ed ebbro, passa tutta la vita in conviti, balli, canti e giochi, e non ha proprio nulla a che fare con Pallade. A tal punto rifugge dal desiderare la fama di sapiente, da compiacersi di un culto fatto di beffe e di scherzi. né trova offensivo quel detto che gli attribuisce il soprannome di fatuo, e che suona: "più pazzo di Morico". E cambiarono il suo nome in Morico perché i contadini, nella loro sfrenata allegria, erano soliti impiastricciare di mosto e di fichi freschi il suo simulacro, che lo ritraeva seduto alle soglie del tempio.
D'altra parte, quali lazzi non scaglia contro di lui l'antica commedia? O Dio pazzo, dicono, degno parto d'una coscia! Ma chi non preferirebbe essere questo Dio fatuo e dissennato, sempre allegro, sempre giovane, sempre generoso di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso Giove, temuto da tutti, o Pan che tutto va devastando con i terrori che diffonde, o Vulcano avvolto di scintille e sempre nero del fumo della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo, terribile con la Gorgone e la lancia? perché Cupido è, invece, sempre fanciullo? perché? se non per la sua leggerezza, per la sua incapacità di fare o pensare qualcosa di assennato. perché la bellezza dell'aurea Venere è sempre in fiore? perché è mia parente e conserva nell'aspetto il colore di mio padre. Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea Afrodite". Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro emuli, ride sempre. E quale nume i Romani venerarono più di Flora, madre di tutti i piaceri? Se poi si andasse ad esaminare un po' meglio, attraverso Omero e gli altri poeti, la vita anche degli Dèi ritenuti più austeri, si scoprirebbe che tutto è pieno di follie. E perché poi ricordare le imprese degli altri, quando si conoscono così bene gli amori e i sollazzi dello stesso Giove tonante? Quando la fiera Diana, dimentica del sesso nella sua esclusiva passione per la caccia, muore tuttavia d'amore per Endimione?
Preferirei però che gli Dèi se le sentissero cantare da Momo, come una volta accadeva piuttosto spesso. Ma ora lo hanno scaraventato sulla terra con Ate perché le sue sagge critiche disturbavano la loro felicità. né alcun mortale si degna di offrirgli ospitalità; tanto meno poi c'è posto per lui alle corti dei prìncipi, dove però è sempre ospite d'onore la mia Colacìa, che va d'accordo con Momo come l'agnello coi lupi.
Allontanato lui, gli Dèi folleggiano molto più liberamente e gradevolmente, e se la passano bene davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi. Quali scherzi scurrili, infatti, non alimenta il Priapo di legno di fico? quali divertimenti non procura Mercurio con i suoi furti ed i suoi trucchi? Perfino Vulcano, al banchetto degli Dèi, si è abituato alla parte del buffone, facendo ridere il simposio ora con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con le sue facezie. Anche Sileno, il vecchio mandrillo, uso a danzare il cordace, balla con Polifemo la TRETANELO' [il ballo dei Ciclopi], mentre le Ninfe danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino rappresentano le atellane, e Pan fa ridere tutti con le sciocche cantilene che gli Dèi preferiscono al canto delle Muse, specialmente quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perché raccontare ora ciò che fanno gli Dèi alla fine del banchetto dopo una buona bevuta? Follie tali che io stessa, per Ercole, non riesco a tenermi dal riderne.
A questo punto è meglio ricordare Arpocrate [il dio del silenzio]: che può succedere che qualche Dio di Corico sia in ascolto mentre narriamo fatti che neppure Momo ha potuto rivelare impunemente.
16. É tempo ormai di seguire l'esempio di Omero lasciando da parte gli Dèi e tornare sulla terra per vedere fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino solo per mio dono.
In primo luogo osservate con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti, secondo la definizione stoica, la saggezza consiste solo nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste nel farsi trascinare dalle passioni, perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità, Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a poco nella proporzione di mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che occupa la rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede spontaneamente dichiarandosi vinta.
17. Tuttavia, poiché l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote un po' più di un'oncia di ragione, Giove, per provvedere debitamente, mi convocò perché lo consigliassi, come su tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu degno di me: affiancare all'uomo la donna, animale, sì, stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di follia la malinconica gravità del temperamento maschile. Platone, infatti, quando sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra i bruti, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di questo sesso. E, se per caso una donna vuole passare per saggia, ottiene solo di essere due volte folle, come se uno volesse, contro ogni ragionevole proposito, portare un bue in palestra. Infatti raddoppia il suo difetto chi, distorcendo la propria natura, assume sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio greco, la scimmia è sempre una scimmia, anche se si ammanta di porpora, così la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque si mascheri.
Non però così folle, voglio credere, da prendersela con me perché la giudico folle, io che sono folle, anzi la Follia in persona. Le donne, infatti, se ponderassero bene la questione, anche questo dovrebbero considerare come un dono della Follia: il fatto di essere, sotto molti aspetti, più fortunate degli uomini. In primo luogo hanno il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto, contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all'uomo, di dove gli viene l'aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo che di senile, se non dalla maledizione del senno? Le donne, invece, con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno quasi l'impressione d'una eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non piacere agli uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi; tante arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C'è forse qualche altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini più della follia? Che cosa mai non concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di che, se non del piacere? E il diletto da nient'altro viene se non dalla loro follia. Che questo sia vero non si può negare solo che si pensi a tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori. Ecco da che fonte sgorga il primo e principale diletto della vita.
18. Ma ci sono uomini, specialmente tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere; per loro il sommo piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa esservi un lauto banchetto senza donne; però una cosa è certa, che senza un pizzico di follia non può esservi banchetto ben riuscito. A tal punto che, se non c'è già qualcuno capace di far ridere con la sua follia, autentica o simulata, si chiama un buffone a pagamento, o un allegro parassita, che, con le sue comiche, ossia folli battute, dissipi il silenzio e la noia del simposio. A che scopo infatti riempirsi il ventre di tanti dolciumi, leccornie e ghiottonerie, se anche gli occhi, le orecchie e l'anima intera, non si nutrissero di risa, di scherzi, di facezie? ma cibi del genere posso ammannirli solo io. D'altra parte anche quei riti conviviali, come sorteggiare il re del convito, giocare ai dadi, invitare al brindisi, gareggiare intorno ad un tavolo a cantare e bere a turno, passarsi il mirto cantando, ballare, far pantomime, non sono stati inventati dai sette sapienti della Grecia ma da me, per la felicità dell'umana specie.
Tutte le cose di questo genere hanno un tratto comune: che quanto più partecipano della follia tanto più rallegrano la vita dei mortali, che, se fosse triste, neanche meriterebbe di essere chiamata vita. E triste risulterà senz'altro, se non le toglierai di dosso l'innato tedio con questo tipo di divertimenti.
19. Forse taluni trascureranno anche questo genere di piacere e saranno paghi dell'amore e della familiarità degli amici, affermando che l'amicizia vale più di tutto: l'amicizia, un bene non meno necessario dell'aria, del fuoco, dell'acqua; tanto soave che se togli l'amicizia togli il sole; infine tanto nobile - ammesso che la cosa ci riguardi - che gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni fondamentali. Ma che succede se dimostro che anche di questo bene così grande sono io la poppa e la prora? Io lo dimostrerò non col sofisma del coccodrillo, non coi soliti cornuti o con altre simili dialettiche sottigliezze, ma alla buona, facendovi toccare la cosa con mano.
Orbene, chiudere gli occhi, ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei difetti degli amici, amarne e apprezzarne come qualità alcuni dei vizi più evidenti, non è forse qualcosa di molto vicino alla follia? C'è chi bacia il neo dell'amica, chi trova incantevole il polipo di Agna; il padre dice del figlio strabico che ha il vezzo di ammiccare. Tutto questo, io domando, che è, se non pura follia? Ripetano a gran voce che è follia: eppure essa sola è capace di promuovere e cementare le amicizie. Parlo dei comuni mortali, nessuno dei quali nasce senza difetti: il migliore è chi ne ha meno; quanto poi a quei famosi saggi che hanno il piglio di Dèi, tra loro l'amicizia, o non nasce affatto, o è qualcosa di cupo e scostante, limitata poi a pochissimi (non oso dire che non include proprio nessuno), perché la maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia, anzi non c'è nessuno che, in un modo o in un altro, non abbia le sue stranezze, e non c'è amicizia se non tra persone simili. Se, infatti, tra questi uomini austeri si desse una volta uno scambievole affetto, non sarebbe per nulla stabile e durerebbe ben poco, nascendo tra uomini difficili e più oculati del necessario, capaci di cogliere i difetti degli amici con l'occhio acuto dell'aquila e del serpente di Epidauro. Quando però si tratta dei loro difetti, come ci vedono poco! e come ignorano la parte della bisaccia che portano dietro le spalle! Perciò, dato che la natura dell'uomo è tale che nessuno è immune da gravi difetti (aggiungi la grande varietà di caratteri e di studi, le tante cadute, i tanti errori, i tanti casi della vita mortale), come potranno questi Arghi gustare anche solo per un'ora le gioie dell'amicizia se non interverrà quella che i Greci chiamano EUETHEIA, termine felice da tradursi con follia, o con indulgente semplicità? Del resto, non è forse del tutto cieco quel Cupido, che è artefice e padre di ogni legame? E come il brutto gli appare bello, così fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello ciò che gli è toccato in sorte, che il vecchio ami la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono cose che accadono a ogni piè sospinto e che muovono il riso; eppure sono proprio queste cose ridicole il fondamento di una società che vive con gioia.
20. Quanto si è detto dell'amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che altro non è se non un legame per la vita tra singoli individui. Dio immortale, quanti divorzi, o fatti anche peggiori dei divorzi, non si avrebbero dappertutto, se la domestica convivenza del marito con la moglie non si rafforzasse nutrendosi di adulazioni, di scherzi, d'indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose che appartengono al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato saggiamente s'informasse dei passatempi a cui già molto prima delle nozze si dedicava la sua verginella così delicata e pudica in apparenza. E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza dei mariti! E anche questo, a buon diritto, è da attribuirsi alla Follia, a cui si deve se il marito ama la moglie e la moglie il marito, se in casa regna la pace, se il vincolo dura.
Si ride del cornuto, del cervo (e quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga con i baci le lacrime dell'adultera. Ma quanto meglio lasciarsi ingannare così che rodersi di gelosia e volgere tutto in tragedia!
21. Insomma, senza di me nessuna società, nessun legame potrebbe durare felicemente. Il popolo si stancherebbe del principe, il servo del padrone, la serva della padrona, il maestro dello scolaro, l'amico dell'amico, la moglie del marito, il locatore del locatario, il compagno del compagno, l'ospite dell'ospite, se volta a volta non s'ingannassero a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente finta di non vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi sembrano enormità; ma ne sentirete di più belle.
22. Di grazia, chi odia se stesso come potrà amare qualcuno? chi è interiormente combattuto, potrà forse andare d'accordo con altri? potrà, chi è sgradito e molesto a se stesso, riuscire gradevole a un altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo più pazzo della Follia stessa. Pertanto, se non ci fossi più io, lungi dal sopportare il prossimo, ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto di sé e delle sue cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre, ha posto nell'animo dei mortali, soprattutto se appena più intelligenti, il seme di questo male: scontento di sé e ammirazione per gli altri. Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle squisite doti che sono il profumo della vita. A che giova infatti la bellezza, il massimo dono degli Dèi immortali, se deve esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve intristire per il veleno di senili malinconie? Infine, in tutti i casi della vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti (agire come conviene non è solo la prima regola dell'arte, ma di tutta la nostra condotta), se non ti sarà propizia Filautìa, che a buon diritto tengo in conto di sorella, tanto validamente mi presta il suo aiuto in ogni occasione? Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della follia; ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile? Togli alla vita l'amor proprio e subito la parola suonerà fredda sulle labbra dell'oratore, il musicista non piacerà a nessuno con le sue melodie, l'attore si farà fischiare con la sua mimica, il poeta e le sue muse saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore con la sua arte, si ridurrà alla fame il medico con le sue medicine. Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore, invece di Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno che non balbetta neanche una parola; invece di un distinto cittadino, un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri, devi proprio cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere il primo a lodarti, e non senza una punta di adulazione.
Infine, poiché la felicità consiste soprattutto nel voler essere ciò che si è, qui interviene col suo aiuto la mia Filautìa, facendo in modo che nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere, schiatta, posizione, educazione, Patria, tanto che né un irlandese si cambierebbe con un italiano, né un tracio con un ateniese, né uno scita con un abitante delle Isole Fortunate. O singolare bontà della natura che in tanta varietà di cose, stabilì un regime di uguaglianza! Dove scarseggia coi suoi doni, là, è solita aggiungere una dose maggiore di amor proprio. Ma che sciocchezza ho detto! Proprio questo è il più grande dei suoi doni.
23. Ora dovrei aggiungere che nulla di grande si può intraprendere senza la mia spinta, perchè è a me che si deve l'invenzione di ogni nobile arte. Forse che non sia la guerra la fonte e il coronamento di ogni celebrata impresa? E che c'è di più pazzesco dell'impegnarsi, per non so quali cause, in un confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei caduti, poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le schiere in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro rauco suono, a che servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi, col loro sangue povero e privo di calore, e che a malapena tirano il fiato? C'è bisogno di gente ben piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello. A meno che non si preferisca arruolare Demostene, tanto vile soldato quanto grande oratore, che, seguendo il consiglio d'Archiloco, appena vide il nemico fuggì abbandonando lo scudo.
La prudenza, obiettano, in guerra ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda; e si tratta di prudenza militare, non filosofica; per il resto, l'impresa tanto egregia della guerra è affidata a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.
24. Della cui totale inutilità sul piano pratico è testimone lo stesso Socrate che l'oracolo d'Apollo giudicò - con poco senno, del resto - il solo sapiente: quando tentò d'impegnarsi in non so quale faccenda pubblica, fu costretto a ritirarsi fra il generale dileggio. Anche se del tutto sciocco non si dimostrò quando rifiutò il titolo di sapiente che attribuì solo a Dio, e quando sostenne che il saggio non deve occuparsi di politica; e meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza, se si vuol vivere da uomini.
D'altra parte, quando fu processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre misurava il salto delle pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare, non imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i giorni. In aiuto del maestro, sull'orlo di una condanna capitale, interviene il discepolo Platone, difensore così egregio che, turbato dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata. E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto animare i soldati in guerra, lui che, levatosi a parlare, ammutolì di colpo come se d'improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido per natura, non osò mai aprire bocca. Marco Tullio, il padre della romana eloquenza, abitualmente, preso da poco dignitoso tremore, esordiva balbettando, come un ragazzino. Quintiliano vede in questo la prova dell'oratore di valore, che misura le difficoltà; ma non farebbe meglio a dire che la sapienza è un ostacolo a condurre in porto le faccende pratiche? Che faranno costoro quando si dovrà ricorrere alle armi, se si perdono d'animo così quando si combatte semplicemente a parole?
Nonostante questo, a Dio piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati saranno gli Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla filosofia. Se, invece, consulterai gli storici, troverai che il concentrarsi del potere nelle mani di un filosofastro o di un letterato è la peggiore sciagura che possa colpire uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni: uno dei quali turbò la pace della repubblica romana con le sue pazze denunce; l'altro, mentre difendeva con un eccesso di saggezza la libertà del popolo romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi a questi i Bruti, i Cassi, i Gracchi, e Cicerone stesso, che allo stato romano fece tanto male quanto Demostene a quello ateniese. Quanto a Marco Antonio, ammesso che fosse un buon imperatore (potrei contestarlo, perché, dedito come era alla filosofia, per questa stessa fama si era fatto prendere a noia dai concittadini) ammesso tuttavia che lo fosse, certamente, lasciando dietro di sé il figlio che lasciò, danneggiò lo Stato più di quanto non gli avesse giovato col suo governo. Questa categoria, infatti, di uomini dediti allo studio della filosofia, di solito ha pochissima fortuna in ogni cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo; penso sia la provvidenza della natura a volere impedire che questo malanno della filosofia si diffonda più largamente fra gli uomini. Così risulta che Cicerone ebbe un figlio degenere, e che Socrate, il famoso filosofo, ebbe figli, com'è stato scritto non del tutto a torto, "più simili alla madre che al padre", e cioè stolti.
Parla la Follia Esaminare la questione Se fossero come Asini Le Rane del Portico I Giureconsulti Conclusione dell'Elogio
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