Erasmo da Rotterdam - Elogio della Follia - Le Rane del Portico -

 

 

 

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38. A questo punto, sento che le rane del Portico si rimettono a gracidare contro di me. "Niente, dicono, è più miserevole della demenza. Ma una eminente follia è molto vicina alla demenza, o è demenza essa stessa. Che cosa infatti è la demenza, se non l'uscire di senno? e costoro ne sono usciti del tutto. "Orsù, vediamo di confutare con l'aiuto delle Muse anche questo sillogismo". Certo il loro ragionamento è sottile, ma, come il Socrate platonico, procedendo per divisione, di una Venere e di un Cupido ne faceva due, così anche i nostri dialettici, se volevano apparire in senno, dovevano distinguere dissennatezza da dissennatezza. Infatti non ogni follia è fonte di guai. Altrimenti Orazio non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un'amabile follia?", né Platone avrebbe collocato il delirio dei poeti, dei vati e degli amanti tra i massimi doni della vita; né la Sibilla avrebbe chiamato folle l'impresa di Enea.

 

In verità ci sono due specie di follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte che le crudeli dee della vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri consimili orrori; oppure quando travagliano con le furie e le faci tremende, un animo conscio dei propri delitti. L'altra, non ha nulla in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta ogni volta che una dolce illusione libera l'animo dall'ansia e lo colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli. Proprio questa illusione Cicerone, scrivendo ad Attico, augura a se stesso come un gran dono degli Dèi, per potersi liberare dall'oppressione dei gravi mali incombenti. né aveva torto quell'argivo che era pazzo al punto da sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo, applaudendo, godendosela, perché credeva vi si rappresentassero tragedie bellissime, mentre non si rappresentava proprio nulla. Eppure, in tutte le altre faccende della vita, era perfettamente normale: cordiale con gli amici, "gentile con la moglie, capace di perdonare ai servi e di non dare in escandescenze se il sigillo rotto denunciava la bottiglia aperta". Guarito dalle cure dei familiari che gli somministrarono le medicine del caso, tornato del tutto in sé, così si lamentava con gli amici: "Per Polluce! m'avete ammazzato, amici miei, e non salvato, privandomi del piacere e togliendomi con la forza quella mia così dolce illusione".

 

Aveva ragione: erano loro che sbagliavano e che, più di lui, avevano bisogno dell'elleboro, loro che credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse un malanno, una così felice e piacevole follia.

 

Tuttavia non ho ancora accertato se qualunque errore del senso o della mente meriti il nome di follia. Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un monumento di dottrina una rozza poesia, non si può senz'altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia, non solo col senso, ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade sempre e in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo che ha un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere Creso, re di Lidia. Ma quando questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli, è di non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta, si badi, di un'affezione molto diffusa; più di quanto di solito si crede. Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto. E non di rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, è il più pazzo quello che più si prende gioco dell'altro.

 

39. Eppure, ve lo assicura la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più la sua follia è multiforme, purché si mantenga entro il genere a me peculiare: un genere così diffuso che non so se fra tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune da una qualche forma di pazzia. La differenza è tutta qui: chi vedendo una zucca la scambia per la moglie, viene chiamato pazzo perché la cosa succede a pochissimi. Chi invece, avendo la moglie in comune con molti, giura che è più virtuosa di Penelope, e, felice del suo errore, è orgoglioso di sé, nessuno lo chiama pazzo, perché la cosa accade spesso e dovunque.

 

Appartengono alla confraternita anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad una partita di caccia, e vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte le volte che sentono il suono cupo del corno e l'abbaiare dei cani. Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li annusano, mandino per loro profumo di cinnamomo. E quale dolcezza squartare la selvaggina! L'umile plebe può squartare tori e castrati, ma sarebbe un delitto farlo con un capo di selvaggina: questa è prerogativa di nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col coltello destinato allo scopo (è vietato servirsi di uno strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda, ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito, mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi uno ha la fortuna d'assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare non poco in nobiltà. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press'a poco in fiere, si illudono invece di menar vita da re.

 

Molto simili sono quanti, in preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano il quadrato in rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari di ogni limite e misura finché, ridotti in estrema povertà, non hanno più né tetto né cibo. Ma che gli importa del dopo? Intanto, per alcuni anni, sono stati immensamente felici.

 

Molto vicini a costoro, mi pare, sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare la natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una speranza così dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese o fatiche, e con mirabile spirito inventivo ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di più e per rivestire l'inganno di liete apparenze, finché, dato fondo a tutto il loro, non possono costruire più niente, nemmeno un fornello. Non per questo, tuttavia, smettono di sognare i loro bei sogni, ma spingono con tutte le loro forze anche gli altri verso la medesima felicità. E quando l'ultima speranza li ha abbandonati, resta tuttavia, a consolarli pienamente, un detto: le grandi cose basta averle volute. Accusano allora la brevità della vita, inadeguata alla grandezza dell'impresa.

 

Sono in dubbio se annoverare nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia è decisamente uno spettacolo di spassosa follia vedere a volte gente così schiava del gioco da sentirsi venire le palpitazioni appena giunge al loro orecchio il rumore di dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo della speranza di vincere, vedono naufragare tutta la loro fortuna, infranta contro lo scoglio del gioco, ben più insidioso del Capo Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la fama di uomini poco seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi nel gioco li ha vinti. E che dire di quando, ormai vecchi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare? E quando infine la meritata gotta impedisce l'uso delle mani, arrivano a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi. Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non volgesse in passione rabbiosa; ma qui siamo ormai nel regno delle Furie, non nel mio.

 

40. É senza dubbio della mia pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono ad ascoltare o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si parla di eventi portentosi, di spettri, di fantasmi, di larve, degl'inferi, o di altre innumerevoli cose del genere. Quanto più la favola si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto più voluttuosamente le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile passatempo contro la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente per i sacerdoti ed i predicatori.

 

Sono della stessa razza quanti nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti a morire in giornata, se hanno visto il simulacro ligneo o l'immagine dipinta di un gigantesco san Cristoforo (il nuovo Polifemo); o credono di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant'Erasmo in certi giorni, con speciali moccoli e determinate formulette. In san Giorgio hanno scoperto una specie di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano il suo cavallo dopo averlo adornato con la massima devozione di falere e di borchie, né risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi la benevolenza del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo loro, è proprio degno di un re.

 

Che dire poi di quelli che, nella dolcissima illusione di immaginarie indulgenze accordate ai loro peccati, computano quasi con l'orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio, numerando secoli, anni, mesi, giorni, ore, secondo una sorta di tavola matematica sicura al cento per cento. O di quelli che fidando in segni magici o in giaculatorie inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale disposizione, o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze: ricchezze, onori, piaceri, abbondanza di tutto, una salute costantemente ottima, una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, però, senza fretta, per carità; ben vengano le delizie dei beati, ma quando, con disappunto, dovranno lasciare i piaceri della vita a cui sono abbarbicati con le unghie e coi denti.

 

Immagina un negoziante, ma anche un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina dopo tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un'intera vita, un'autentica palude di Lerna, e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse, tante stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano riscattati come in base ad un regolare patto, e riscattati al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.

 

E chi è più folle, o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata? A indicare a san Bernardo quei magici versetti si crede sia stato un demone faceto, più sciocco invero che furbo, se, poveretto, rimase intrappolato nel suo stesso inganno. Roba da matti! persino io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l'approvazione, non solo del volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.

 

O non è forse lo stesso caso di quando ogni regione reclama il suo particolare santo protettore, ognuno coi suoi poteri, ognuno venerato con determinati riti? questo fa passare il mal di denti; quello assiste le partorienti. C'è il santo che fa recuperare gli oggetti rubati, quello che rifulge benigno al naufrago, un altro che protegge il gregge; e via discorrendo. Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio.

 

41. Infine, che cosa chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti ex-voto di cui sono zeppe le pareti, e persino le volte di certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure uno zinzino, più saggio? Qualcuno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico, è riuscito a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre gli altri combattevano, ne è uscito con fortuna salvando anche l'onore; uno, con l'aiuto di un santo protettore dei ladri, è caduto dal patibolo per poter continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le meritano. Chi è fuggito dal carcere forzando la porta; un altro è guarito dalla febbre con disappunto del medico; a uno la bevanda velenosa non è stata letale, perché, sciogliendogli il corpo, gli è servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che si era data da fare per niente. Un uomo, pur essendoglisi rovesciato il carro, ha riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora, rimasto sotto le macerie, è sopravvissuto; uno, infine, colto sul fatto da un marito, è riuscito a svignarsela.

 

Nessuno che renda grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma perché poi mi vado a cacciare in questo mare di superstizioni? "Cento lingue, cento bocche, un'ugola di ferro, non mi basterebbero a enumerare tutte le varietà di pazzi, a elencare tutte le forme di follia." (Virgilio, "Eneide"). A tal punto la cristianità intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che di solito ne viene. Se però nel frattempo qualche odioso saggio si levasse a dire le cose come stanno - "morirai bene, se bene hai vissuto; laverai i tuoi peccati, se all'offerta di una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e un radicale cambiamento di vita; avrai la protezione di questo Santo, se ne imiterai la vita" -; se quel saggio si mettesse a ripetere queste cose ed altre del genere, vedresti in quale sgomento farebbe precipitare le anime dei mortali, prima così colme di letizia!

 

Rientrano in questa congrega coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale con tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappati, dei cantori, dei lamentatori di mestiere, come se dovessero avere un qualche sentore dello spettacolo, o se da morti potessero vergognarsi qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza, a somiglianza di chi, elevato ad una carica, si preoccupa di organizzare giochi e banchetto.

 

42. Per quanto cerchi di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro che, in nulla diversi dall'ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia oltremodo di un vano titolo nobiliare. Chi, a sentir lui, discende da Enea, chi da Bruto, chi da Arturo; mostrano da ogni parte gli antenati in effigie, ritratti da scultori e pittori. Ti enumerano uno dopo l'altro bisavoli e trisavoli ricordandone gli antichi soprannomi, mentre per parte loro non dicono molto di più di una muta statua, anzi dicono meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia il dolce amore di sé li fa vivere in perfetta letizia. né mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come se fossero divinità.

 

Ma perché perdermi a parlare dell'una o dell'altra specie di gente, come se dappertutto la nostra Filautìa non fosse per tanti, e nelle forme più inattese, fonte di grandissima felicità?

 

Questo qui è più brutto di una scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha tracciato tre linee col compasso, si crede Euclide. Un altro ancora, che sta come un asino davanti alla lira, ed ha mezzi vocali degni di un gallo in amore quando si avventa sulla gallina, s'immagina di essere un secondo Ermogene. Un posto a parte merita quell'ineffabile genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi ha delle doti, se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente felice di cui parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella, teneva d'intorno i servi perché gli suggerissero i nomi; e, fidando nel fatto di averne in casa tanti assai ben piantati, pur essendo così debole da reggere l'anima coi denti, non avrebbe esitato a cimentarsi in una gara di pugilato.

 

A che ricordare chi fa professione di artista? La filautìa è peculiare a tutta questa gente a tal segno, che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere il campicello paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto nell'ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti. Quanto più uno lascia a desiderare, tanto più è arrogante nell'autocompiacimento, tanto più si vanta, tanto più si gonfia. Il simile ama il simile, e quanto meno si vale tanto più si è ammirati; i più vanno sempre dietro alle cose peggiori, perché, come ho detto, la maggior parte degli uomini è soggetta alla follia. Quindi, se chi è più ignorante è più contento di sé e ha più largo successo, cosa mai lo dovrebbe indurre ad optare per una cultura autentica, che in primo luogo gli costerebbe parecchio, e in secondo luogo lo renderebbe più fragile e più timido; e, infine, restringerebbe sensibilmente la cerchia dei suoi ammiratori.

 

43. Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e starei per dire di una stessa città. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica, delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobiltà, parentele regali, nonché dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere e nell'eloquenza; e si cullano tutti nella dolcissima convinzione di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell'antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di autentici barbari, pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi. Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia, e ancor oggi si tengono aggrappati al loro Mosè; gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell'alta statura e della conoscenza della magia.

 

44. Senza andare dietro ai casi particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere venga dalla Filautìa agli individui e ai mortali in genere. Le sta quasi alla pari la sorella Adulazione.

 

La filautìa, infatti, consiste nell'accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si tratta di adulazione. Oggi, però, l'adulazione non gode buona fama; ma questo fra coloro per cui le parole valgono più delle cose. Ritengono che l'adulazione non si può accompagnare alla fedeltà, mentre potrebbero rendersi conto di quanto sbagliano, solo se guardassero all'esempio che viene dalle bestie. Chi, infatti, più adulatore del cane? e, al tempo stesso, chi più fedele? Chi è più carezzevole dello scoiattolo? ma chi più di lui amico dell'uomo? A meno che non si vogliano considerare più utili all'uomo i fieri leoni, e le crudeli tigri, o i feroci leopardi. Anche se è vero che c'è una forma d'adulazione davvero perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui, li portano alla rovina. Questa mia adulazione, invece, ha radice in un certo bonario candore ed è molto più vicina alla virtù di quella durezza e severità ruvida e stizzosa, di cui parla Orazio, e che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall'inerzia, sveglia gli ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli innamorati e ne conserva la buona armonia. Attira i fanciulli allo studio delle lettere, rallegra i vecchi, ammonisce ed ammaestra i prìncipi senza offenderli, sotto specie di lodarli. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sé più contento e a sé più caro, il che è parte della felicità, e addirittura la parte più importante. Che cosa può esservi di più gentile di due muli che si grattano a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione è una notevole parte della celebrata eloquenza, e costituisce la parte maggiore della medicina; della poesia poi è la componente massima. Ed è miele e condimento di tutte le relazioni umane.

 

45. Ma è male, dicono, essere ingannati; c'è molto di peggio: non essere ingannati. Sono, infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale è l'oscurità e varietà delle cose umane che niente si può sapere con chiarezza, come giustamente affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.

 

Se poi qualcosa si può sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano, infine, è fatto in modo tale che la finzione lo domina molto più della verità. Chi ne volesse trovare una prova facilmente accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se l'urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire l'oratore), come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle, tutti si svegliano, si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta. Del pari, se c'è un Santo leggendario e poetico - per esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo vedrete venerare con molto maggiore pietà di San Pietro, e San Paolo, e dello stesso Gesù Cristo. Ma di questo, qui non è il luogo. Costa veramente poco conquistare la felicità illusoria che dicevo! Le cose vere, anche le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione, invece, costa così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto, se non di più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia andato a male, di cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo, mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa mai gl'impedisce di godersela? Al contrario, se a uno lo storione dà la nausea, che razza di piacere ne trarrà? Se una moglie decisamente brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa Venere, non sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà forse più felice di chi ha comprato a caro prezzo un'opera di quegli artisti per poi gustarla forse con minore passione? Conosco un tale che si chiama come me, e che alla sposa novella donò alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.

 

Ditemi un po', che differenza c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente presso di sé delle sciocchezzuole di nessun valore come se fossero chissà qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava una spesa e godeva dell'illusione della moglie che gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.

 

Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di desiderare un'altra felicità? La condizione dei folli, perciò, non differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa differisce, è preferibile. Innanzitutto perché la loro felicità costa ben poco: solo un piccolo inganno di sé.

 

46. E poi perché ne godono insieme con moltissimi, e "non c'è bene di cui si possa godere davvero se non si ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E chi non sa quanto pochi sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'è? In tanti secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi, per Ercole, se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe sapiente a metà, e forse neppure per un terzo.

 

Perciò, se dei molti meriti di Bacco giustamente si considera il più importante la capacità di scacciare gli affanni, e anche questo solo finché, appena smaltita la sbornia, gli affanni tornano all'assalto - come dicono, su bianchi destrieri - quanto più completo ed efficace il mio beneficio per cui l'animo, in una ebbrezza perenne, senza nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza! né lascio alcun mortale privo del mio dono, mentre i doni degli altri Dèi vanno ora a questo ora a quello.

 

Non sgorga dappertutto, a scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.

 

A pochi la bellezza, dono di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono di Mercurio; non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze, né il Giove omerico concede a tutti l'imperio. Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi lasciano il tripode di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi dardi diffonde la peste. Nettuno ne uccide più di quanti ne salva; per non menzionare cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono divinità ma carnefici. Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente in così generoso abbraccio.

 

47. Non voglio preghiere e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare del cerimoniale è stato trascurato. Se, quando tutti gli altri Dèi sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne faccio una tragedia. Quanto agli altri Dèi, invece, sono così suscettibili che quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe più prudente - lasciarli perdere piuttosto che venerarli. Come certi uomini, così difficili ed irritabili, che è preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.

 

Nessuno, dicono, offre sacrifici o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo, un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D'altronde onori del genere esulano dai miei desideri. perché mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una focaccia, un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo mi tributano un culto che persino dai teologi viene tenuto nel massimo pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana perché riceve sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole di vita. Una forma di culto che non è frequente neppure fra i cristiani.

 

Quanti sono, infatti, coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari a mezzogiorno, quando proprio non ce n'è bisogno! D'altra parte, quanto pochi cercano d'imitarne la castità, la modestia, l'amore per il regno dei cieli! Mentre è questo alla fine il vero culto, il più gradito agli abitatori del cielo. Inoltre, perché mai dovrei desiderare un tempio, quando l'universo è il mio tempio? e un gran bel tempio, se non erro. né mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini. né sono così sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perché i più ottusi adorano le immagini invece delle divinità, mentre a noi capita quello che di solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti. Io credo di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel volto la mia immagine vivente. Non ho nulla da invidiare agli altri Dèi, se vengono venerati chi in un cantuccio della terra chi in un altro, e solo in giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva ad Atene, Giove sull'Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza sosta vittime ben più pregiate.

 

48. Se qualcuno giudica questo mio discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po' a vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi tengono, tanto i potenti come i poveri diavoli.

 

Non esamineremo la vita di uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella di personaggi segnalati, da cui sarà facile giudicare gli altri. Che importa infatti parlare del volgo e del popolino che, al di là di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni? Tante, infatti, sono le forme di follia di cui da ogni parte il popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per riderne non basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci vorrebbe ancora un altro Democrito. É quasi incredibile quanti motivi di riso, di scherzo, di piacevole svago, i poveracci offrono agli Dèi. Agli Dèi che dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi, a litigiose discussioni e all'ascolto delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di nettare, e non hanno più voglia di attendere a faccende serie, seduti nella parte più alta del cielo, si chinano a guardare cosa fanno gli uomini. né c'è spettacolo che gustino di più. Dio immortale! quello sì che è teatro! Che varietà nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta vado a sedermi nelle file degli Dèi dei poeti. Questo si strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno è riamato tanto più ama senza speranza. Quello sposa la dote e non la donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora, roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando a pagare dei professionisti perché recitino la commedia del compianto! C'è chi piange sulla tomba della matrigna, e chi spende tutto ciò che può racimolare per impinguarsi il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame. Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l'ozio. C'è chi si prodiga con ogni cura per gli affari degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un altro pone all'apice della sua felicità morire povero pur di arricchire l'erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; né manca chi, in vista dello stesso risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli altri offrono agli Dèi che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono intrappolare. La razza più stolta e abietta è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono da più degli altri perché hanno le dita inanellate d'oro. né mancano di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perché una piccola parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d'incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l'avessero ricevuto in eredità. C'è chi, ricco solo di speranze, sogna la felicità, e già questo sogno, per lui, è la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi, mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti. Questo si fa portare candidato perché ambisce a pubbliche cariche, quello è contento di starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato che è in combutta con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il grandioso. C'è chi, senza nessuna ragione d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.

 

Insomma, se, come una volta Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto in tanto, un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.

 

49. Sarei io stessa un'autentica pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a più non posso, se continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra i mortali vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso ramo d'oro.

 

Fra loro al primo posto stanno i grammatici, che sarebbero per certo la genìa più calamitosa, più lugubre, più invisa agli Dèi, se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, non pesano solo le cinque maledizioni di cui parla l'epigramma greco, ma tante, tante di più: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole, e le ho chiamate scuole, ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così contenti di sé, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume è la quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavitù è pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la loro tirannide col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche più felici si sentono per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre ficcano in testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte a chi, Palemone o Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorità? E con non so quali trucchi riescono a meraviglia nell'intento di apparire al re sciocche mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno di sé.

 

C'è poi un'altra fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome della madre di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA, BOVINATOR o MANTICULATOR, o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione mutila. O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! come se avesse messo in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono ormai che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro più avveduto per caso se ne accorge, allora sì, per Ercole, che ne viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento.

 

Ho conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto, da oltre vent'anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del discorso; finora nessuno, né dei Greci né dei Latini, ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti grammatici, anzi di più se solo il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate più di cinque, questo tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com'è dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, rendendo vane così annose fatiche. Preferite chiamarla follia o stoltezza? A me poco importa, purché siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio, l'animale più infelice di tutti può attingere tale una felicità da non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani.

 

50. Meno mi devono i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filautìa e Kolakìa, che da nessun'altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante. Quanto ai retori, benché prevarichino un poco con la complicità dei filosofi, fanno parte anche loro della nostra confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze, tanto hanno scritto e con tanto impegno a proposito dell'arte di scherzare. E l'autore, chiunque esso sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la follia tra le varietà di facezie; Quintiliano poi, che in questo campo è di gran lunga il migliore, ci ha dato sul riso un capitolo più lungo dell'ILIADE. Tanto essi valorizzano la follia che spesso quando sono a corto d'argomenti, cercano una scappatoia nel riso. A meno di negare che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo cose che appunto, fanno ridere.

 

Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici né Persio né Lelio, a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà, perché senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a così caro prezzo comprano un premio da nulla quale è la lode, e lode di pochissimi, per di più: la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la più dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.

 

Aggiungi il danno della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecità, la povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi più ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali sì gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi. Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto a pensare, solo col modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni, sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e più troverà consenso nella maggioranza, cioè in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso può avere il giudizio di così pochi sapienti, se a contrastarlo c'è una folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona una gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall'inganno.

 

Vale la pena di vedere come sono soddisfatti di sé quando la gente li elogia, quando li segna a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'è grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perché anche gli ignoranti hanno gusti diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto, secondo l'uso dei filosofi.

 

Eppure più di tutto diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco; chi è superiore a Cicerone e chi più dotto di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito prendere", finché ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da trionfatori.

 

I saggi ridono di queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; né possono negarlo, se non sono proprio degl'ingrati.

 


 

Introduzione

Parla la Follia Esaminare la questione Se fossero come Asini

Le Rane del Portico I Giureconsulti Conclusione dell'Elogio