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Il Conducente di Asini (Parte Prima) |
Eléazar andò una volta a visitare Rabbi Yossé, figlio di Rabbi Shimon, figlio di Laqounya, suo suocero [5b]. Fece questo viaggio accompagnato da Rabbi Abba e seguito da un portatore di asini. Rivolgendosi a Rabbi Eléazar, Rabbi Abba disse: prendiamo la dottrina come soggetto della nostra conversazione, giacché il tempo e il luogo si prestano.
Rabbi Eléazar iniziò allora in questa maniera: è scritto (Levitico XIX,30) “Osserverete i miei Sabbath”. È certo che il Santo, benedetto il suo nome, rese concreto l’opera della creazione in sei giorni, ognuno dei quali rappresentava uno stadio a sé nella creazione stessa. Ma quale fu il primo giorno che segnò la fase della fertilità di questa creazione? Il quarto giorno, perché tutto ciò che fu creato durante i tre giorni precedenti costituiva un’opera nascosta. Soltanto al quarto giorno, infatti, la fertilità delle creazioni precedenti (dei tre giorni anteriori) si manifestò.
Infatti, quantunque il fuoco, l’acqua, e l’aria costituissero i tre elementi principali della creazione, la loro produttività si manifestò solamente nel giorno in cui la terra si coprì di vegetazione, soltanto allora fu conosciuta la mansione di ognuno di loro.
Si obbietterà: è, però, nel terzo giorno della creazione che Dio disse (Gen. I,11) “La terra produca germogli, erbe... ”, ed è proprio nel corso di questa stessa giornata che ciò avvenne, com’è detto (Genesi I,12) “La terra produsse germogli, erbe...”. A questa osservazione si può rispondere nella maniera successiva: quantunque la Scrittura riferisca la creazione della vegetazione nel terzo giorno, in realtà essa ebbe luogo nel quarto, rappresentazione del quarto sostegno del trono.
Tutte le opere della creazione, comunque, sia quelle dei primi giorni come quelle degli ultimi, furono confermate nello Shabath, come ribadito (Gen. II,2): “Dio terminò nel settimo giorno l’opera che aveva fatto”. Ora, giacché lo Shabath rappresenta il quarto giorno della manifestazione della fecondità nell’opera della creazione, ed è allo stesso tempo il simbolo del quarto piede del trono celeste.
Mi si eccepirà, se è come dici per quale motivo la Scrittura dichiara: “Osservate i miei Shabath”, come se ce ne fossero due? La Scrittura indica, con questo termine plurale, sia la vigilia sia il giorno dello Shabath (vedere Zohar II,135b), spazi di tempo che non sono separati.
Intervenendo nella conversazione, il portatore di asini che li seguiva dietro l’animale, chiese cosa significassero le parole della Scrittura (Levitico XIX,30): “Porterete rispetto al mio Santuario”. Rabbi Eléazar gli rispose: con le parole “Mio Santuario”, la Scrittura indica la santità dello Shabath. Lo sconosciuto ribadì: e quale è questa santità? Quella celeste, rispose Rabbi Eléazar, la stessa che in questo giorno (il giorno dello Shabath) è richiamata sulla terra. In questo caso, controbatté l’altro, il giorno dello Shabath non ha in sé alcuna santità, poiché ciò che lo qualifica come tale è la stessa sacralità celeste. Intervenendo nella controversia, Rabbi Abba disse: il pensiero di Rabbi Eléazar è comunque esatto, poiché è scritto (Isaia LVIII,13) “Chiamerai il giorno di Shabath giorno di delizia e il Santo di Dio il glorioso”; pertanto, la Scrittura fa una distinzione tra il “giorno di Shabath” e il “Santo di Dio”. Il portatore chiese ancora: ma cosa intendete con “Il Santo di Dio”? Rabbi Abba rispose: è la santità celeste che discende e si attacca a questo giorno. Se così fosse, replicò, ne conseguirebbe che solo la santità celeste è gloriosa, e non il giorno di Shabath mentre la Scrittura afferma: “Glorificate il giorno di Shabath”. Rabbi Eléazar rivolgendosi, allora, a Rabbi Abba suggerì: lasciamo parlare quest’uomo, perché è indubbia la sua conoscenza su alcune cose che noi ignoriamo, pertinenti la dottrina esoterica.
Entrambi, quindi, indirizzandosi allo sconosciuto lo pregarono di esporre la propria opinione, ed egli iniziò ricordando; è scritto, “Osservate i miei Shabath”. La particella “Eth” aggiunge (alla prescrizione, anche la norma) dello spazio che è proibito superare il giorno dello Shabath. L’estensione di questo spazio è di duemila cubiti in tutte le direzioni. La locuzione “miei Shabath” indica i due Shabath celesti, il superiore e l’inferiore, i quali, a ragione della loro stretta relazione, non sono che uno.
Esiste, tuttavia, ancora un terzo Shabath, di cui la Scrittura non parla, e che era riservato (vedere Zohar II,92a e 207a). Questo Shabath disse a Dio: Maestro dell’universo, da quando mi hai creato, sono chiamato “giorno di Shabath”. Ora, dal momento che ogni giorno è accompagnato da una notte; si dica anche la “notte di Shabath”. Dio gli rispose: figlia mia, tu sei Shabath, ed io ti chiamerò sempre “giorno di Shabath”; però ti riservo una più grande gloria. Dio proclamò, allora: “Porterete rispetto al mio santuario”, in altre parole, temete lo Shabath della vigilia, soggetto di timore sul quale riposa il timore. Il nome del Santo, baruk ha-shem, si trova così racchiuso nella parola Shabath. Ecco quanto ho ascoltato da mio padre a tale proposito: che si immagini un quadrato tracciato in un cerchio (vedere Zohar I,229a, II,180a e 205a), tali sono le due prime ipostasi divine alle quali corrispondono le due sezioni della liturgia sabbatica, ognuna delle quali è composta da trentacinque parole, corrispondenti ai settanta nomi del Santo, benedetto sia. La Comunità d'Israele ne è ornata.
Proprio a queste due ipostasi si collegano i due termini differenti utilizzati dalla Scrittura a proposito dello Shabath: “Osservate il giorno dello Shabath” e “Ricordatevi del giorno dello Shabath”. Come il quadrato è inseparabile dal cerchio, cosi le due ipostasi sono inscindibili; dal momento che non esiste separazione nell’essenza divina.
Una unione analoga, per fare un esempio, esiste qui in basso tra Giacobbe e Giuseppe. È questo il motivo per cui la Scrittura ripete per ben due volte la parola "pace" (schalom) nel versetto (Isaia LVIII,19):"Pace, pace a chi è lontano e a chi è vicino". Le parole "chi è lontano" indicano Giacobbe, e "chi è vicino" Giuseppe. Del primo è detto (Geremia XXXI,2): "Da lontano mi è apparso Dio", perché la parola "Mérahoq" indica la distanza, come è detto (Esodo II,4): "E sua sorella si teneva distante da Dio". Del secondo è detto (Deuteronomio XXXII,17): "É di nuovo giunto vicino". [Segue nella pagina successiva]
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