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L'arrivo di Suta Gosvami

Circa cinquemila anni fa, nel corso del suo peregrinare, il santo ed erudito Suta Gosvami, desiderando portare i propri omaggi ad alcuni saggi che da anni svolgevano un impegnativo sacrificio, giunse in una radura della foresta di Naimisha, in India, la splendida nazione conosciuta a quei tempi con il nome di Bharatavarsha.
I rishi, dal cuore completamente purificato da ogni identificazione con la materia, riconobbero immediatamente il figlio di Romaharshana, che nonostante la sua giovane età era già considerato degno di ogni rispetto. Lo salutarono e gli offrirono un seggio. Così, dopo aver mangiato del cibo offerto alle divinità e essersi rimesso dalle fatiche del lungo viaggio, Suta si accomodò su un tappetino tessuto con erba kusha e offrì rispettosi ossequi a tutti.
"Noi sappiamo che in questi ultimi anni hai viaggiato molto," dissero i saggi, "e che sei stato in numerosi luoghi sacri. Da dove provieni, ora, o Suta? Raccontaci tutto; noi ti ascoltiamo."
"Provengo dalla santa arena del grande sacrificio dei serpenti di Maharaja Janamejaya," rispose Suta, "ove mi è stato concesso l'onore di ascoltare la sacra e meravigliosa storia chiamata Mahabharata, composta da Vyasa. Subito dopo, colto da curiosità, sono andato a visitare Samantapanchaka, il luogo in cui tempo fa si combatté la battaglia fratricida tra i figli di Dritarashtra e quelli di Pandu, i protagonisti di questa fantastica narrazione, che è in sé stessa una meditazione sul Signore Supremo Shri Krishna e arreca a tutti, oratori e ascoltatori, il massimo del beneficio spirituale. Se volete posso ripetervela dall'inizio, esattamente come l'ho ascoltata, senza aggiungervi niente di mio."
E allora, comodamente seduti secondo le varie posizioni dello yoga sui loro tappetini di erba santa, i saggi si apprestarono con grande felicità ad ascoltare il Mahabharata.

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Suta inizia a raccontare
Dopo essersi sottoposto a severe penitenze e prolungate meditazioni, il saggio Vyasa, che per tutta la sua vita aveva sempre mantenuto fede ai propri voti e osservato le pratiche delle ascesi spirituali, studiò con grande attenzione e serietà l'eterna conoscenza contenuta nei Veda, testi che a quel tempo non erano ancora stati messi per iscritto, ma erano ripetuti solo in forma orale. Consapevole delle difficoltà in cui sarebbe incorsa la gran parte della gente, di regola poco incline al ragionamento analitico, cercò di rendere in maniera semplice e chiara i concetti filosofici ivi espressi.
Intanto gli avvenimenti che il rishi si accingeva a narrare erano in pieno svolgimento e la presenza di Shri Krishna sul pianeta gli diede l'ispirazione giusta per delineare nella sua mastodontica opera anche i principi fondamentali della spiritualità. E nella sua mente vasta e profonda come l'oceano, la storia che avrebbe poi chiamato Mahabharata prese corpo, con tutte le sue delicate forme espressive e i suoi concetti divini racchiusi nell'incalzare delle vicende.
Dal giorno in cui il saggio aveva cominciato a meditare e a richiamare nella sua mente il Mahabharata erano trascorsi diversi anni e, quando alla fine lo ebbe terminato, ritenne opportuno metterlo per iscritto in modo da divulgarlo tra le genti. In quei giorni in suo aiuto venne il Deva Ganesha che fu ben felice di accettare l'incarico di scrivano; e ben presto l'intera opera divenne una meravigliosa realtà. Il Mahabharata fu diviso in 18 Parva e 1.929 sezioni, con un totale approssimativo di 100.000 versi.
Ben tre anni trascorsero prima che l'intero lavoro fosse compiuto.
Sappiate, o saggi dal cuore totalmente libero dalle terribili contaminazioni della lussuria e della rabbia, che mai in questo mondo fu messa per iscritto un'opera più sublime. Ascoltate con attenzione mentre la recito.
 
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I serpenti vengono maledetti

Un giorno il virtuoso re Parikshit, durante una battuta di caccia, arrivò alla capanna del saggio Shamika, al quale chiese di offrirgli qualcosa che potesse dissetarlo. Ma questi, che era seduto in una posizione yoga ed era chiuso dentro se stesso, rapito dall'estasi di una profonda meditazione trascendentale, non s'accorse affatto dell'arrivo del sovrano, per cui non si mosse né aprì gli occhi che teneva ben chiusi per non essere distratto da cose esterne.
Parikshit era esausto, e in più da ore era tormentato da una sete insopportabile, per cui il suo stato mentale era alterato e certamente poco predisposto alla gentilezza e alla cordialità, doti che solitamente lo contraddistinguevano. Continuò a chiamarlo senza ricevere risposta.
"Questo rishi ignora le più elementari regole dell'ospitalità," pensò, "e non si cura affatto di me. Non ha voglia di adempiere ai suoi doveri e per questo fa finta di essere immerso nella sua meditazione. Ma gli insegnerò io a rispettare il suo re."
Senza riflettere sul grave errore che stava per commettere, prese con la punta dell'arco un serpente morto e glielo pose attorno al collo a mò di ghirlanda. Poi andò via infuriato. Cosa aveva spinto Parikshit a comportarsi in quel modo ingiusto? Egli non era un uomo qualsiasi ma un puro devoto del Signore ed era sempre stato in pieno possesso delle sue facoltà intellettive; era mai possibile che un semplice stato di affaticamento avesse potuto turbarlo fino a quel punto? Certamente quel giorno fu qualcosa di superiore a spingerlo a quell'atto iniquo.
Il saggio Shamika non si era ancora destato dalle sue riflessioni, quando passò davanti alla sua modesta capanna un ragazzo che era amico di Shringi, suo figlio. Quest'ultimo, per quanto fosse virtuoso, era di temperamento terribilmente focoso e impulsivo, e difficilmente riusciva a controllare le proprie emozioni. A questo punto vi sarà facile immaginare le sue reazioni quando, avvertito dall'amico, accorse sul luogo. Shringi era giovane, ma grazie agli insegnamenti del padre aveva già sviluppato dei forti poteri mistici, per cui in meditazione riuscì a ricostruire l'accaduto. Allora, senza neanche attendere che il padre riaprisse gli occhi, decise di vendicare l'insulto.
"Questi kshatriya sono accecati dalle ricchezze e dal rispetto che il popolo conferisce loro," sibilò, "e troppo spesso dimenticano che tutto ciò che è in loro possesso lo devono alle benedizioni e alla saggezza che noi brahmana elargiamo generosamente senza voler nulla in cambio. Questo Parikshit ha ora passato il segno; offendendo mio padre che era innocente, ha meritato la morte."
Senza riflettere sulle gravi conseguenze che avrebbero potuto conseguirne, egli santificò dell'acqua e si concentrò nella recitazione dei mantra vedici. Poi con tono solenne disse:
"Esattamente fra sette giorni, il vile che ha osato oltraggiare mio padre con una ghirlanda di rettile morto, morirà proprio per il morso di un serpente."
Quando il saggio Shamika si svegliò, trovò davanti a sé suo figlio che, con le lacrime agli occhi, lo informò dell'intero accaduto. La reazione del padre fu immediata.
"Cosa hai fatto," disse al figlio, "non ti rendi conto che Parikshit è il monarca più santo che esista al mondo e che la nostra serenità dipende dalla sua protezione? Per un'offesa così insignificante hai condotto il mondo intero a una catastrofe certa. Quando la società si ritrova priva di una guida pura e onesta, tutti ne soffrono e la pace è sconvolta. Ma purtroppo quando un brahmana, anche se giovane e incosciente come te, pronuncia una maledizione questa è destinata a sortire effetti. Tuttavia io avvertirò Parikshit e farò tutto ciò che è in mio potere per salvarlo."
Quel giorno stesso uno dei discepoli di Shamika si recò a Hastinapura, la capitale, e raccontò al sovrano gli ultimi avvenimenti. Questi, affranto, scosse la testa.
"Accolgo la maledizione di quel giovane come un autentico augurio. Infatti dal giorno in cui ho osato maltrattare in maniera tanto villana un santo, dentro di me non ho avuto più pace. Sono contento di pagare così il mio debito. Attenderò la morte con serenità, consapevole del fatto che in tal modo avrò l'opportunità di espiare il mio peccato."
Non è da tutti poter conoscere il momento esatto della propria morte e in questo senso Parikshit poté ritenersi fortunato perché ebbe la possibilità di spendere quegli ultimi sette giorni che gli restavano da vivere nel migliore dei modi: ritiratosi sulle rive del Gange, colse l'opportunità della presenza di Shukadeva Gosvami per ascoltare a viva voce la sacra scrittura chiamata ShrimadBhagavatam fino all'ultimo momento.
E puntualmente, trascorsi che furono i sette giorni, il serpente Takshaka gli infuse il suo veleno e il re abbandonò le proprie spoglie mortali.
Pochi giorni dopo il trono vacante fu rilevato dal giovane figlio Janamejaya.
Passarono gli anni.
Divenuto adulto, Janamejaya cominciò a chiedersi quali fossero state le vere ragioni della strana morte del padre, il quale sembrava sapere ciò che gli sarebbe accaduto; così, grazie ad approfondite ricerche condotte presso gli anziani della corte, venne ben presto a capo dell'intera vicenda.
Per giorni rimuginò su ciò che aveva saputo e alla fine giunse a delle conclusioni.
"Mio padre era innocente: aveva sete e non si era accorto che il saggio stava meditando. Perciò si è comportato in quel modo. Ma non è ammissibile una vendetta sui brahmana, che rappresentano Dio sulla Terra; dunque l'unica cosa che mi resta da fare è uccidere l'orrido serpente che ha avvelenato mio padre, insieme a tutta la sua stirpe. Io sterminerò l'intera razza dei serpenti. Ripulirò questo mondo dalla loro presenza malefica."
Riunì allora i sacerdoti più esperti, i quali dopo aver tenuto consiglio fra di loro dissero:
"O re, nei Veda sono contemplati numerosissimi sacrifici, tra cui quelli destinati alla distruzione di alcune specie ritenute nocive. Tra queste ci sono anche i naga. Ma ti avvertiamo che è un sacrificio lungo, dispendioso e colmo di pericoli. Per attuarlo devi avere una determinazione incrollabile."
"Dentro di me ho già deciso," ribattè Janamejaya, "la morte di mio padre chiama vendetta. I serpenti sono una razza malvagia e molestano uomini, donne e bambini. É mia opinione che essi debbano essere sterminati. Considerato che tecnicamente la cosa è possibile, io desidero che i preparativi comincino subito."
Non trascorsero molti giorni che il regno di Janamejaya fu scosso da un'attività febbrile e intensa.

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I naga allarmati

I naga, venuti a conoscenza delle intenzioni di Janamejaya, si informarono circa le autentiche possibilità di pericolo che avrebbero potuto correre. Le notizie che ricevettero purtroppo non lasciavano presagire nulla di buono; egli aveva infatti invitato a presiedere alla cerimonia i più potenti brahmana del mondo, e quindi vi erano solide possibilità che il sacrificio sortisse pieno effetto. Si sentirono persi e un senso di terrore si insinuò anche nell'animo dei più coraggiosi. Così, desiderando trovare un rimedio, si precipitarono dal loro re per metterlo al corrente di tutto.
"Fratelli," rispose loro Vasuki, "dovete sapere che i più anziani fra di noi sapevano già da tempo che un momento di simile crisi sarebbe prima o poi giunto e che presto o tardi avremmo dovuto difenderci dal pericolo reale di una completa distruzione della nostra specie.
"Noi siamo degli esseri empi, invidiosi, e ci serviamo del nostro veleno per uccidere anche quando non siamo minacciati. Già i nostri progenitori si sono macchiati di gravi colpe e per questo, in diversi momenti della storia, siamo stati maledetti a perire tutti in un grande fuoco distruttore. Agli albori della nostra stirpe abbiamo scatenato le ire di nostra madre; col trascorrere del tempo ci siamo inimicati molti grandi saggi, come Utanka e il potente Ruru; e tutti indistintamente hanno invocato il castigo divino contro di noi. Ma è bene che vi racconti quel che è accaduto molti millenni fa.
"Il nostro progenitore, il saggio Kashyapa, sposò le figlie di Prajapati Daksha, tra le quali Kadru e Vinata. Ambedue erano particolarmente ansiose di avere dei figli, per cui Kashyapa disse loro:
"Care mogli, voi avete fatto molto per me e poiché io desidero rendervi felici, vi prometto che ambedue procreerete molto presto. Inoltre voglio offrirvi la possibilità di scegliere tra una prole numerosa ma non molto potente e una caratterizzata da pochi figli ma eccezionalmente forti."
"Kadru scelse la prima possibilità, Vinata la seconda. Negli anni che seguirono Kadru generò la nostra stirpe, mentre l'altra dovette attendere a lungo prima di poter concepire. Durante quel periodo di attesa, un giorno, mentre erano a passeggio sulle rive dell'oceano, le due donne videro da lontano un fantastico cavallo bianco che correva come il vento. Estasiate da tanta eleganza e fierezza di portamento, le mogli di Kashyapa cominciarono a commentarne le fattezze perfette. Tuttavia dopo un pò quella che era cominciata come una semplice conversazione finì con lo sfociare in una discussione dai toni alquanto accesi.
"Kadru infatti sosteneva di aver scorto sulla coda del superbo animale dei peli neri, mentre Vinata si dichiarava sicura di averla vista completamente bianca e immacolata. La polemica divenne così forte che alla fine, pur di non cedere, le due donne si ritrovarono a scommettere:
"Domani andremo a cercarlo e vedremo da vicino chi ha ragione. La perdente diventerà per sempre la schiava dell'altra."
"Ma la notte Kadru non riuscì a dormire. Placata la foga del momento, cominciava a dubitare di aver ragione e solo all'idea di diventare schiava di Vinata si sentiva fremere dalla paura. Così chiamati i suoi figli, i naga, disse loro:
"Miei cari, credo di aver commesso un'imprudenza a scommettere con Vinata e ho paura che abbia avuto ragione lei a dire che la coda di quel cavallo è interamente bianca. Ma io non voglio trascorrere la mia vita al suo servizio, per cui vi prego, andate a cercare quell'animale e confondetevi fra i peli della sua coda, in modo che io non debba pentirmi per sempre di aver agito troppo a cuor leggero." Ma i serpenti ribatterono: "Madre, ci meravigliamo di te. Come puoi pensare di comportarti in modo così sleale? Noi ci rifiutiamo di prestarci a questo gioco empio." In quel momento, sentendosi abbandonata anche dai suoi figli, Kadru, disperata, li minacciò usando toni sempre più accesi. Ma davanti al loro netto rifiuto, Kadru perse il lume della ragione e li maledisse: "Poiché mi avete disubbidito, sappiate che in futuro sarete tutti distrutti, voi e la vostra progenie. Arderete vivi nel gigantesco fuoco del sacrificio del re Janamejaya." Ora sembra che sia giunto il momento in cui la maledizione dovrebbe avverarsi."
A quelle parole, tutti i naga presenti tremarono per la paura, ma Vasuki li rassicurò.
"Tuttavia una strada di salvezza esiste. Infatti quando Brahma seppe quello che era successo, intervenne in nostro favore e predisse che un giorno all'interno della nostra razza sarebbe nato un saggio, una grande personalità che sarebbe riuscita a evitare lo sterminio completo.
"La profezia dice che il nostro salvatore sarebbe nato dal seme di un saggio di nome Jaratkaru. In questo momento esiste realmente un asceta con questo nome che sta cercando moglie. Non ci sono dubbi: è lui il predestinato. Io farò in modo che sposi mia sorella, cosicché sarà il loro figlio a salvarci dalle fiamme di Janamejaya."
E le cose si svolsero secondo i piani del re: il rishi Jaratkaru sposò la sorella di Vasuki e da loro nacque un figlio di nome Astika, che diventò un brahmana celebre per la sua grande conoscenza e realizzazione spirituale.

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Il sacrificio dei serpenti di Janamejaya

Intanto i preparativi per il grande sacrificio dei serpenti erano quasi ultimati. Attorno alla grande arena preparata dai migliori ritvik dell'epoca, tutti perfetti conoscitori della scienza dei sacri Veda e di tutti gli aspetti tecnici riguardanti i vari cerimoniali, fervevano i preparativi. Nessun dettaglio era trascurato: la piattaforma sacrificale e tutto il resto erano totalmente concordi con le ordinanze vediche.
Intanto cominciarono ad arrivare gli ospiti, numerosi saggi celebri per la loro sapienza e per la stretta osservanza dei principi della spiritualità. Tra gli altri vi erano Vyasa e suo figlio Shukadeva, accompagnati dai loro discepoli; giunsero anche Uddalaka, Pramataka, Asita, Devala, Narada, Parvata, Atreya e centinaia e migliaia di altri. In sostanza vennero tutte le più importanti personalità del tempo.
Quando il sacrificio ebbe inizio, l'atmosfera vibrò sotto l'effetto magico dei suoni e delle melodie dei mantra vedici recitati dai brahmana, mentre il fuoco del sacrificio, alimentato senza sosta dalle abbondanti libagioni di burro chiarificato, divampava sempre più alto.
Per giorni e giorni i sacerdoti, vestiti completamente di nero, continuarono a recitare a voce sempre più alta gli inni dei Veda e a gettare il burro purificato nelle fiamme. Il calore intenso provocava loro piaghe in tutto il corpo e rendeva i loro occhi così arrossati che quasi sanguinavano, ma essi non si curavano del dolore e seguitavano a svolgere disciplinatamente i loro rispettivi compiti. Poi, quando il sortilegio divenne sufficientemente forte, cominciarono a recitare in coro e a voce alta i mantra destinati alla distruzione dei rettili, chiamando questi ultimi per nome, uno ad uno.
A quel punto, immobilizzati e prigionieri di quella forza incontrastabile, i serpenti cominciarono a sentirsi risucchiati in direzione dell'arena, verso il fuoco che, altissimo e vorace, sembrava li stesse attendendo. Gridando per il terrore, uno ad uno cominciarono a cadervi dentro, dapprima a decine, poi a migliaia e poi ancora a centinaia di migliaia. Il rumore dei grossi rettili che cadevano nel fuoco e il puzzo dei loro corpi bruciati cominciò ad invadere l'atmosfera, mentre i brahmana non cessavano di recitare gli inni divini.
Nel frattempo Takshaka, l'autore della morte di Parikshit, si era rifugiato nei pianeti celesti, ad Amaravati, dal suo amico Indra, sicuro che lì sarebbe stato protetto dall'effetto devastatore dei mantra. Invece ad un certo punto anch'egli si sentì come in uno stato ipnotico e fu trascinato da una forza superiore in direzione della Terra. Terrorizzato chiamò Indra in suo aiuto, ma per quanto questi cercasse di trattenerlo, la potenza dei brahmana risucchiò Takshaka nello spazio.
In pochi minuti si ritrovò nell'atmosfera terrestre.
Indra intanto non aveva desistito e con tutte le sue forze tentava ancora di impedirgli di precipitare ulteriormente, mentre il naga gridava disperato.
"Aiutami Indra, amico mio, solo tu puoi salvarmi la vita. Non abbandonarmi."
Ma quei mantra erano così potenti che finirono per trascinare persino il deva della pioggia in direzione del terribile fuoco.
La situazione stava facendosi terribilmente critica. Anche i più potenti naga, fra cui lo stesso sovrano, cominciarono a sentire i primi malori e un forte senso di panico colse tutti. Il sacrificio di Janamejaya stava riuscendo perfettamente: a quel punto non rimaneva altro da fare che ricorrere ad Astika, l'unica loro ancora di salvezza.
Quel giovane brahmana, dalla mente controllata e dal volto sereno, giunse il giorno stesso in cui Takshaka, evocato dai brahmana, stava per essere risucchiato dal fuoco distruttore.
Accolto da tutti con cortesia e grande rispetto, egli rivolse sagge parole ai presenti ed elogiò la maestosità del sacrificio in atto. Sentendolo discorrere con tanta eloquenza e amabilità, Janamejaya si rivolse ai brahmana che lo assistevano nello svolgimento del sacrificio.
"Questo giovane dimostra la conoscenza di un saggio anziano ed esperto. Io credo che sia meritevole di ricevere qualsiasi onore. Desidero fargli dei doni. Concedetemi il permesso di sospendere la cerimonia per pochi istanti e poi riprenderemo."
"Noi non vogliamo porre in discussione il fatto che qualsiasi brahmana che mostri evidenti qualità brahminiche meriti sempre assoluto rispetto e che il dovere di ogni regnante sia di concedergli qualsiasi cosa desideri o di cui abbia necessità. Ma, o re, noi abbiamo un cattivo presentimento. Noi sospettiamo che questo ragazzo sia venuto per ostacolare l'adempimento del sacrificio. Non promettergli niente. Questo non è il momento adatto per concedere carità. L'assassino di tuo padre, Takshaka, sta arrivando e presto lo vedrai apparire in cielo. Tra pochi minuti avrai ottenuto la tua tanto agognata vendetta. Aspetta, dunque, perché noi abbiamo buoni motivi per credere che la tua generosità potrebbe risultarti fatale."
Janamejaya rimase interdetto. Non sapeva cosa fare. Sentiva che quei consigli erano giusti, eppure uno dei suoi principi fondamentali era sempre stato quello di non indietreggiare mai di fronte alle richieste di un brahmana, e non aveva mai mancato a quello che considerava un suo voto solenne.
Alla fine decise di rischiare.
"O giovane anacoreta, chiedimi qualsiasi cosa e io te la concederò," disse allora.
Allo stesso tempo però pregava l'hotri di far presto, di non perdere altro tempo, così da accelerare l'arrivo di Takshasa e la sua distruzione nelle fiamme.
E intanto che Astika rifletteva, il gigantesco naga apparve, simile a una grande nuvola nera apportatrice di tempesta, ancora avvinghiato a Indra. Ma allorché i due, simili a saette, stavano precipitando in direzione del fuoco sacro, verificando il pericolo ormai imminente, Indra si divincolò e fuggì a precipizio abbandonando l'amico alla sua sorte. Janamejaya, eccitato, urgeva il sacerdote di accelerare la caduta, mentre il giovane brahmana guardava pacificamente. Poi disse:
"O glorioso re, io non desidero ricchezze né onori; ti chiedo solo che questo sacrificio sia immediatamente interrotto."
A quelle parole, Janamejaya si allarmò.
"O brahmana, perché vuoi questo? La morte di quell'assassino per me è di fondamentale importanza: a te invece non può interessare. Posso darti enormi ricchezze, proprietà, l'intero mio regno, ma lasciami la vendetta."
Tuttavia Astika ripeté la richiesta.
"Non ho bisogno di nulla. Le ricchezze mi lasciano indifferente, così come il potere temporale. Ti chiedo solo che questo sacrificio sia sospeso per sempre."
Janamejaya guardò i brahmana presenti, per chiedere consiglio e, tutti concordi sulla cosa giusta da farsi, dissero:
"O re, tu hai incautamente promesso, e ora non puoi più tirarti indietro. Se non vuoi che i tuoi atti pii siano immediatamente annullati, e se non vuoi macchiarti dell'onta della falsità per aver mancato a una promessa, devi fermare questo yajna senza altro indugio, anche se il tuo nemico è oramai prossimo alla morte."
A malincuore Janamejaya ordinò la sospensione. E Takshaka riuscì a salvarsi.

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Inizia la narrazione

 A questo punto della narrativa, Suta si fermò. Uno dei saggi più importanti di Naimisha, Shaunaka, chiese:
"Tu ci hai appena raccontato la storia che si riferisce al sacrificio dei serpenti voluto da Janamejaya e la ragione che lo aveva spinto a una così sanguinosa vendetta. Poc'anzi ci hai anche detto che in quella occasione hai ascoltato la cronaca delle gesta dei celebri figli di Pandu. Noi sappiamo che a un certo punto della loro esistenza si sono scontrati con i loro cugini, i figli di Dritarashtra, su un campo di battaglia e che il risultato fu devastante. Come mai successe tutto ciò? Cosa ha spinto loro, così virtuosi e distaccati dagli averi materiali, a combattere addirittura contro i loro stessi parenti e amici? Raccontaci la sacra storia chiamata Mahabharata senza tralasciare nessun particolare."
Suta rispose: "Comincerò col riportarvi le circostanze nelle quali io mi sono ritrovato ad ascoltarla.
Quando il rishi Krishna Dvaipayana Vyasa venne a conoscenza del sacrificio di Janamejaya, decise di recarsi ad assistere alla cerimonia, accompagnato dal figlio Shukadeva e dai suoi discepoli principali.
Allorché questi, con passo solenne, entrò nell'arena Janamejaya lo vide e si sentì colmo di gioia; in cuor suo, inoltre, avvertiva che grazie al solo fatto che il rishi fosse presente la vittoria gli avrebbe sicuramente arriso.
Alzatosi immediatamente dal proprio seggio, si fece avanti per accoglierlo con tutti gli onori. Dopodiché, appena si furono tutti comodamente seduti, gli chiese:
"O brahmana, tu hai potuto assistere personalmente alle vicende dei Kuru e dei Pandava, i miei bisnonni; li hai conosciuti ed aiutati con i tuoi saggi consigli, consolandoli nei momenti più difficili. Nessuno meglio di te può quindi illuminarmi circa la loro vera storia.
"Dimmi, quale fu la causa di un così grave disaccordo? Io vorrei comprendere perché delle anime elevate come i Pandava sono arrivate al punto di scagliarsi contro i loro stessi cugini. Da quel che si racconta, i cinque fratelli erano completamente puri e liberi dalla collera, dall'invidia e da ogni vizio. E allora, come hanno potuto accettare di combattere una guerra che ha avuto l'effetto di sterminare l'intera generazione degli kshatriya del tempo? Per arrivare a un passo tanto grave dovevano avere il buon senso evidentemente ottenebrato da qualche speciale disegno del destino. Raccontami nei dettagli tutto ciò che successe."
Vyasa allora disse:
"Il mio caro discepolo Vaisampayana ti renderà partecipe di quella sacra storia. Egli è stato mio allievo per lungo tempo e, sotto la mia direzione, è diventato perfettamente abile nel recitare e spiegare questo Purana."
E così quel brahmana dall'atteggiamento mite e gentile incominciò a riferire i fatti in questione, così come li aveva imparati dal maestro.
Quel giorno io ero proprio lì, tra i presenti, cosicché ho potuto ascoltarne i contenuti con rapita attenzione. Ora vi ripeterò l'intera storia esattamente come l'ho ascoltata dal puro discepolo di Vyasa.

7
L'emergenza causata dagli asura

 Molto tempo era passato da quando Parashurama, l'incarnazione della Personalità di Dio, era sceso sulla terra per purificarla da quelle ventuno generazioni di guerrieri che non si erano curati di osservare e difendere le eterne leggi della virtù.
Vistesi private dei loro uomini, massacrati dalla collera del Signore, le donne appartenenti alla classe kshatriya presero una decisione che, sebbene fosse autorizzata dai Veda, era estremamente grave. Poiché sulla Terra coloro che difendevano la pace cominciavano a scarseggiare e le forze del male perseveravano nella loro opera distruttrice, queste si videro costrette a cercare un provvedimento che potesse far rivivere la casta che nel passato si era tanto prodigata per mantenere la pace tra i popoli. La decisione presa fu quella di avere figli dai brahmana più potenti.
Così, benedetti dalla classe più sacra, gli kshatriya che nacquero si rivelarono ben diversi dai loro antenati: tutti spiritualmente evoluti e ricchi della conoscenza più pura, si comportarono in modo ideale, riportando la società agli antichi splendori.
Da allora alcune epoche si erano avvicendate.
Mentre si era ancora in dvaparayuga, l'influenza negativa del kaliyuga cominciò pesantemente a farsi sentire: fu proprio in quel periodo così delicato che nel sistema planetario superiore scoppiò una feroce guerra che vide in campi opposti i deva e i demoni. Durante quegli immani e sanguinosi scontri questi ultimi furono rovinosamente sconfitti per cui, decimati e privi di guide e luoghi dove rifugiarsi, decisero di incarnarsi su questo pianeta, in seno alle famiglie kshatriya.
Il loro piano era di dominare questo mondo in modo poi da riorganizzarsi e sferrare altri attacchi contro i loro nemici di sempre.
In quegli anni le nascite aumentarono e il mondo fu invaso dall'arrivo di milioni di bambini che erano le incarnazioni degli asura più malvagi. Infatti fin dai primi anni di vita cominciarono subito a spadroneggiare e a disturbare i popoli della Terra.
E così la pace era di nuovo in pericolo. Questi demoni, praticamente invincibili in battaglia, si unirono formando eserciti la cui forza militare era così vasta che la Terra stessa cominciò a non poter più sopportare il loro peso fisico.
Fu a quel punto che Bhumi andò a chiedere aiuto a Brahma.
E il primo essere dell'universo, nato senza l'ausilio di alcuna donna ma direttamente dalla potenza del Signore, riunì a sé tutti i deva e parlò loro.
"Voi avete sconfitto i vostri nemici in battaglia, ma essi si stanno riorganizzando sul pianeta Terra. Ora, giacché la vita laggiù è diventata impossibile, è giunto il momento che voi vi adoperiate per risollevare gli umani da quel gravoso fardello. Sconfiggete i vostri nemici prima che diventino troppo forti: incarnatevi nelle stesse famiglie kshatriya, e distruggete quelle forze malefiche."
I deva rifletterono un poco, poi risposero.
"É senz'altro nostro dovere correre a dare sollievo a quelli che soffrono, ma dubitiamo che saremo in grado di vincere se il Signore Krishna non ci accompagnerà. Abbiamo saputo che gli asura sono diventati molto forti, in questi anni, e si sono organizzati. Egli deve quindi venire ad aiutarci."
Interpellato, il Signore Krishna, che ha numerosi altri nomi tutti altrettanto meravigliosi a sentirsi quali ad esempio Vishnu e Narayana, rispose:
"Io vi seguirò. Incarnatevi sulla Terra in seno alle famiglie dei brahmana e degli kshatriya. Presto impegneremo gli asura in una battaglia e li costringeremo a rintanarsi nei pianeti inferiori."
Ottenuto l'assenso del Signore, i deva cominciarono a nascere in gran numero. La loro potenza fisica e le loro capacità guerriere erano incommensurabili cosicché fin dalla loro infanzia affrontavano i demoni uccidendone a migliaia e a centinaia di migliaia, finché giunsero al momento cruciale della guerra di Kurukshetra.
Ora, però, ascoltate nei dettagli come successe.

8
Shantanu e Bhishma

 Il re Shantanu era il quarantasettesimo discendente della nobile stirpe di kshatriya che provenivano da Brahma attraverso il deva della luna, Chandra. Suo padre si chiamava Pratipa, ed era stato un grandissimo re, amato dai sudditi per la sua saggezza e rettitudine. Shantanu ricordava sempre un episodio raccontatogli dal padre quand'egli era ancora molto giovane.
"Un giorno mentre meditavo su Vivasvan," gli aveva narrato Pratipa, "una ragazza sorse dalle acque del Gange e, con l'evidente desiderio di avermi come marito, si sedette sulla mia coscia destra. Io le dissi: 'Cara ragazza, non sai che una donna non deve avvicinarsi a un uomo mentre questi sta meditando? Inoltre tu ti sei seduta sulla mia coscia destra, come di solito fanno le figlie o le nuore. Quindi io non posso accettarti come moglie, ma se lo desideri potrai diventare mia nuora.'
"Io so che quella ragazza tornerà e ti chiederà di sposarla. Non rifiutarla, ma se vuoi ottenere grandi meriti non domandarle mai la sua identità né cosa voglia realmente da te."
Erano passati gli anni, e Pratipa era diventato anziano. Così si era ritirato nella foresta per spendere gli ultimi anni di vita nel servizio devozionale e nella meditazione.
Shantanu aveva ereditato il trono del padre e governava con eguale rettitudine e capacità.
Ancora giovane, egli amava particolarmente le lunghe passeggiate sulle rive del Gange, da solo, assorto in uno stato mentale sereno e pacifico. Si sentiva soddisfatto perché il popolo, felice del suo modo di governare, rispettava le leggi e viveva pacificamente.
Un giorno, mentre camminava senza meta sulle rive del fiume sacro, vide una bellissima ragazza che, senza nessuno che la accompagnasse, gli veniva incontro guardandolo con insistenza. La situazione era alquanto insolita poiché il tramonto si stava apprestando e di solito a quell'ora le ragazze non andavano in giro sole. Lui si avvicinò.
"Cosa fai qui da sola?" le chiese con tono gentile. "Il giorno sta per terminare e il sole si è già nascosto dietro l'orizzonte. Tra poco sarà buio, ed è pericoloso per una ragazza andare in giro senza accompagnatori."
Lei non rispondeva.
"Hai un aspetto soave e dolce," riprese Shantanu, "e la tua bellezza è irresistibile. Mi incuriosisci. Dimmi, chi sei e da dove vieni? Chi sono tuo marito e i tuoi genitori?"
"Non ho un marito, sono una ragazza nubile," rispose lei, "e sto passeggiando per queste rive senza un motivo né una meta precisa. Per quanto riguarda il mio nome e la mia provenienza non voglio, per ora, rivelarli a nessuno. Tu, piuttosto, dimmi, chi sei? Dai vestiti che indossi sembri uno kshatriya di nascita nobile."
"Il mio nome è Shantanu," rispose lui, "e sono il re di queste terre. Non importa se per ora non vuoi dirmi il tuo nome; sappi però che hai già conquistato il mio cuore e che ti vorrei al fianco come moglie."
La ragazza sorrise. Il re era un uomo giovane, affascinante e dall'aspetto fiero; anch'ella si sentiva attratta a lui.
"Come potrei rifiutare una simile occasione? Accetto senz'altro, ma ho necessità di porti delle condizioni."
A quelle parole Shantanu era già felice. Quella ragazza aveva una voce così gentile, quasi melodiosa, che addolciva il cuore. Si sentiva rapito da quella bellezza celestiale e pronto a qualsiasi cosa pur di averla con sé.
"Io sono re di vasti territori e non ho difficoltà a soddisfare qualsiasi tuo desiderio. Dimmi cosa vuoi e lo avrai."
La misteriosa ragazza disse:
"Non devi mai esigere di sapere il mio nome e la mia provenienza, e neanche obiettare né criticare qualsiasi cosa farò, anche quelle che sembreranno le più strane. Se accetti queste condizioni senza neanche sapere perché io le ponga, sarò felice di sposarti e venire a vivere con te. Ma se trasgredirai al patto me ne andrò immediatamente. Pensaci bene, dunque."
Il re era così preso da quella ragazza che non pensò neanche a cosa ciò potesse comportare e accettò qualsiasi condizione. Insieme andarono ad Hastinapura e pochi giorni dopo il matrimonio fu celebrato.
Passò più di un anno da quel giorno e fu un periodo di intensa lietezza e felicità. Il re era felice e soddisfatto insieme alla sua amata regina.
Dopo poco più di un anno ella partorì un maschio, ma la contentezza fu soffocata da una tragedia inaspettata: fra lo stupore e l'orrore di tutti, la regina prese il neonato e lo gettò nel Gange, uccidendolo. Shantanu, che aveva tanto aspettato il suo erede, era disperato, ma non poté dire niente, ricordando le condizioni poste: non doveva ostacolare né criticare la moglie, altrimenti questa l'avrebbe abbandonato. A parte quello che sembrò a tutti un momento di follia, per il resto era una donna eccezionale, amorevole, gentile, profondamente affezionata al marito e ai suoi doveri di moglie e di regina.
Poi nacque il secondo figlio, che seguì la stessa sorte del primo. E poi il terzo e il quarto. Shantanu era disperato. Non riusciva a capire le ragioni di un comportamento del genere. Cosa la spingeva a uccidere i suoi figli? Ma aveva troppa paura di perderla per protestare.
Negli anni che seguirono, uccise sette dei suoi figli, tutti allo stesso modo, annegandoli nel fiume.
E arrivò l'ottava gravidanza. Quando il bimbo nacque, la regina lo prese e con calma agghiacciante si diresse verso il fiume, con l'evidente intenzione di affogare anche quel neonato. Ma Shantanu non riuscì più a tollerare l'orrore che lo pervadeva.
"Ora basta," le gridò. "Cosa fai? Che mostro sei? Perché uccidi i nostri figli? Io non capisco perché commetti questi crimini, ma ti impedirò di uccidere ancora."
Tuttavia anche lui si rendeva conto che doveva esserci un mistero dietro quei comportamenti strani. Infatti la regina, nonostante la violenta sfuriata, non manifestò nessuna delle reazioni che una persona normale ha in tali circostanze. Non reagì in nessuna maniera, aveva solo l'aria triste, dispiaciuta.
"Mi dispiace di averti fatto soffrire," disse lei con la solita voce suadente, "ma c'è una ragione a tutto questo. Credimi. Una volontà superiore a noi tutti mi ha forzata a uccidere i nostri figli."
Si interruppe, guardandosi attorno.
"Ora dovrò andare via. Ricordi la condizione che ti posi? Se mi avessi contrariata io ti avrei lasciato. Anche ciò fa parte dei piani del destino, questa forza tante volte a noi incomprensibile. Io devo andare via, ora. Questo bambino, che chiamerò Devavrata, verrà via con me, e quando sarà cresciuto te lo riporterò e resterà con te."
Shantanu non voleva perderla, e sentiva dentro di sé un grande dolore, ma fu anche preso da una forte curiosità di sapere cosa aveva causato quei drammatici avvenimenti.
"Ma spiegami almeno cos'è successo. Perché ti sei comportata così? Perché hai ucciso i nostri figli? Cosa o chi ti ha forzata?"
"Io sono Ganga, la dea del fiume Gange," rispose lei. "Questo grande fiume, santificato dalla testa del dio Shiva, che scende dai pianeti celesti e che continua a scorrere su questa terra, è mio."
Shantanu era sorpreso: sua moglie una dea? La dea del fiume Gange? Non poteva crederci.
"Se vuoi posso raccontarti cosa successe nella tua vita precedente e il motivo che mi ha indotta ad annegare i nostri figli."
E iniziò a narrare.
"Nella vita precedente tu eri il re terreno Mahabhishaka. Le tue qualità di virtù e saggezza erano tali che eri in grado di recarti in qualsiasi momento nei pianeti celesti e soffermarti a parlare e a tenere compagnia a Indra.
"Un giorno tu eri lì, insieme a grandi saggi e deva di questo universo, quando mi notasti fra di loro. Fosti invaso da un irrefrenabile desiderio sessuale che, per quanto provassi, non riuscisti a controllare. Io mi accorsi di questo tuo sentimento e in cuor mio desiderai poterti contraccambiare.
"Purtroppo fra noi un'unione era impossibile, in quanto io ero una dea e tu un mortale; dunque il solo anelito che avevamo provato era già di per sé un atto peccaminoso. Brahma si accorse di ciò che stava accadendo e ci maledisse, dicendo: 'Poiché siete caduti preda di un desiderio sessuale illecito, non siete degni di restare su questi pianeti; dunque nascerete sulla Terra, in quel mondo privo di colori e di reali bellezze. Vi sposerete e vivrete insieme per un certo periodo. Dopodiché vi lascerete e soffrirete molto per questa separazione. Che questa sia la vostra espiazione.' E così successe. Tu sei nato come figlio del re Pratipa, e io ora sono qui con te, come una comune mortale."
Shantanu ascoltava. Naturalmente non ricordava nulla della sua vita precedente, in quanto gli uomini dimenticano tutto al momento della nascita; tuttavia qualcosa lo spingeva a credere a quella storia.
"Ma cosa c'entra tutto ciò con l'uccisione dei nostri figli?" le chiese.
Ganga riprese.
"Nella vita precedente questi bambini erano gli otto Vasu e si sono ritrovati a nascere come nostri figli per effetto di una condanna simile alla nostra. Ascolta; ti racconterò in breve cosa accadde.
"Un giorno essi stavano passeggiando con le mogli in una foresta del loro pianeta celeste, quando videro una stupenda mucca che apparteneva al saggio Vasishtha. Una delle donne ne fu così incantata che pregò il marito di prenderla per portarla nei loro giardini. Incapace di ribattere, egli portò via con sé il pacifico animale.
"Quando il saggio tornò all'eremo, non trovò più la sua mucca, necessaria allo svolgimento dei sacrifici. Per un pò la cercò, poi in meditazione tornò indietro nel tempo, al momento in cui si era svolto il furto e, resosi conto dell'accaduto, lanciò una potente maledizione contro i Vasu. 'Coloro che hanno rubato la mia mucca cadranno nel pianeta dei mortali, dove la vita è breve e colma di angosce.' In seguito, grazie all'intercessione di Brahma, Vasishtha modificò la maledizione in modo che solo colui che aveva preso la mucca sarebbe rimasto a lungo in questo mondo, mentre gli altri sarebbero nati e subito dopo ritornati nel loro pianeta d'origine.
"Quando gli otto deva furono a conoscenza del loro destino, vennero da me e mi dissero: 'Noi sappiamo che anche tu hai ricevuto una maledizione che ti impone di scendere nel sistema planetario mediano; dunque ti chiediamo di diventare nostra madre e di annegarci nelle acque del Gange subito dopo la nostra nascita, così da renderci possibile un immediato ritorno al nostro pianeta.' Promisi loro di farlo.
"I sette figli che ho ucciso sono coloro che non avevano partecipato direttamente al furto della mucca, mentre quest'ultimo, che io chiamerò Devavrata, è il vero colpevole. Egli vivrà a lungo su questa terra, e sarà un uomo glorioso e rispettato.
"Capisci ora," concluse Ganga, "perché mi sono comportata in quella maniera? Avevo promesso ai Vasu di restituirli al loro mondo celeste."
Ora tutto era chiaro; tuttavia, giacché l'appagamento della curiosità è in circostanze simili un magro palliativo, Shantanu, placata la sete di sapere, si sentì ad un tratto infelice. Lei ora sarebbe dovuta andare via.
"Ti ho amato molto e vorrei restare con te, ma non posso. Ci rivedremo," disse lei.
E scomparve.
Sedici anni dopo Ganga tornò e gli affidò il figlio, Devavrata, che era bello come un sole. Subito dopo il giovane fu nominato principe ereditario al trono e non trascorse molto tempo che a corte tutti si sentirono conquistati dai suoi modi amabili ed educati.

9
Shantanu incontra la seconda moglie

 A quei tempi, tra le classi sociali superiori, gli kshatriya erano gli unici cui fosse permesso cacciare, ma solo determinate specie animali. Essi imparavano così ad uccidere per difendere i loro territori.
Un giorno, mentre Shantanu inseguiva un cervo, sentì odore di fiori di foresta, talmente buono e intenso che non seppe resistervi. Deciso a portare via con sé quei fiori, seguì la scia fino al fiume, dove vide una donna impegnata a pulire una barca. Era lei che emanava quel profumo celestiale. Si avvicinò e con gentilezza le rivolse la parola.
"Ho sentito un meraviglioso profumo e l'ho seguito, ma certamente non mi aspettavo che provenisse da un ragazza. Chi sei tu?"
"Mi chiamo Satyavati e sono la figlia adottiva di un pescatore," rispose lei, imbarazzata dalle occhiate di desiderio che il re le lanciava.
"Sei bellissima," le disse questi con irruenza. "Il tuo fascino mi ha stregato e vorrei averti con me. Io sono il re Shantanu, il signore della terra dei Bharata. Ti voglio come mia moglie. Vieni via con me."
"Tu sai che non posso decidere da sola," gli rispose Satyavati. "Chiedi a mio padre: io accetto la tua proposta, e se anche lui lo farà ti seguirò senza indugi."
Condotto alla sua casa, Shantanu chiese Satyavati in sposa e il pescatore ringraziò gli dei per la buona fortuna che era toccata alla figlia, ma chiese che fossero osservate certe condizioni.
"Questo matrimonio è una grande cosa per mia figlia," disse, "ma voglio anche che i miei nipoti diventino re dopo che avrai abbandonato il trono; se sei d'accordo su questa condizione, potrai averla come moglie."
Shantanu era esterrefatto.
"Tutto ciò è assurdo," disse. "Tu sai benissimo che io ho già un figlio, Devavrata, che è il principe ereditario e non posso certo privarlo del suo diritto di nascita. Chiedimi ciò che vuoi: ricchezze, onori, ma non questo."
Fu tutto inutile; il pescatore non voleva accettare nulla se non la promessa che i figli di Satyavati avrebbero regnato sul trono di Hastinapura. Shantanu era innamorato di quella ragazza, ma non se la sentì di fare un torto simile al figlio, per cui tornò in città sconsolato, consapevole del fatto che mai avrebbe potuto dimenticare Satyavati.
Passarono alcune settimane; Devavrata si accorse che suo padre non era più felice e sereno come una volta e gliene chiese le ragioni. Shantanu rispose evasivamente e non volle rivelare il suo segreto. Però ogni giorno che passava si chiudeva in sé stesso sempre di più e si rifiutava di parlarne con chiunque. Devavrata, preoccupato, cominciò a indagare finché, con un astuto raggiro, riuscì a convincere l'auriga, che aveva assistito alla scena, a raccontargli l'accaduto.
Risolto il mistero, il giorno stesso Devavrata andò a trovare il pescatore e tentò in ogni maniera di convincerlo a concedere la figlia in sposa a suo padre. Ma lo trovò irremovibile: era deciso a vedere i nipoti sul trono.
"Se è solo questo che vuoi," gli disse il virtuoso principe, "sei già accontentato. Io non ambisco alle gioie e al potere di questo mondo e non ho difficoltà nel rinunciare al mio diritto di nascita in favore dei tuoi nipoti. Avrai ciò che vuoi, purché mio padre sia felice."
"Sei un giovane dai principi morali grandi e solidi come le montagne," convenne ammirato il pescatore, "e so che tu manterrai la promessa: ma tuttavia che dire dei tuoi figli? Chi mi dice che quando essi saranno arrivati all'età giusta non avanzeranno pretese al trono?"
"Io non voglio altro che sapere mio padre felice," ribatté Devavrata con fermezza, "questo è il mio primo principio. Se hai timore che i miei figli un giorno potrebbero pretendere il trono dai tuoi nipoti, allora giuro che non mi sposerò: e che questo sia un voto che mai romperò in nessuna circostanza."
Appena Devavrata ebbe pronunciato il voto di celibato perpetuo, dal cielo si udì risuonare una voce celestiale che diceva: "Bhishma, Bhishma," che significa "colui che pronuncia un voto difficile e lo osserva." Da quel giorno Devavrata fu chiamato Bhishma.
Shantanu non fu affatto contento del giuramento fatto dal figlio, ma Devavrata gli fece capire che quella decisione si sarebbe rivelata un bene per entrambi. Riconoscente, il monarca benedisse il figlio a morire solo quando egli stesso lo avesse desiderato.
Così Shantanu sposò Satyavati.
Nacquero due figli: il primo fu chiamato Citrangada, il secondo Vicitravirya.
Pure, il tempo inesorabile spogliò di ogni cosa il grande e virtuoso re Shantanu, che morì quando Citrangada era ancora troppo giovane per governare. Bhishma, in attesa della maggiore età del fratellastro, assunse la guida dello stato.
Appena Citrangada ebbe raggiunta la maggiore età, ascese al trono, ma non governò a lungo: in un combattimento contro un gandharva che aveva il suo stesso nome, fu sconfitto e cadde morto.
Suo fratello minore, Vicitravirya, era ancora troppo giovane, e così l'onere del governo ricadde di nuovo sulle spalle di Bhishma.

10
La storia di Amba

 Quando Vicitravirya si fu apprestato alla maggiore età, Bhishma e Satyavati cominciarono a pensare a un suo eventuale matrimonio.
Vennero a conoscenza che le tre stupende e virtuose principesse di Kashi, Amba, Ambika e Ambalika avevano raggiunto l'età giusta per il matrimonio e che il re, loro padre, aveva intenzione di considerare le proposte avanzate dai numerosi principi contendenti. A quei tempi le principesse usavano scegliere i loro sposi tra i più valorosi, e a questo fine venivano organizzati dei tornei chiamati svayamvara. Dopo averne ampiamente discusso con Satyavati, Bhishma decise di andare a Kashi al posto di Vicitravirya per conquistare le principesse.
Quando Bhishma entrò nell'arena della capitale di Kashi, stava per iniziare il torneo. Alla comparsa del famoso guerriero si levò un robusto mormorio di sorpresa.
"Che il figlio di Ganga sia stato avvinto dalla bellezza delle tre fanciulle e abbia deciso di abbandonare il suo voto di celibato? Non vediamo altra ragione per cui egli si trovi qui oggi," dissero alcuni.
"Non c'è altra spiegazione per questo suo arrivo precipitoso e non annunciato a questo torneo, dove la sua maestria nell'uso delle armi gli aggiudicherà senz'altro la vittoria," aggiunse qualcuno.
Ma altri ancora sembrarono intuire la verità.
"No, non crediamo. Bhishma non tradirebbe mai il voto fatto. Piuttosto egli vorrà ottenere le principesse per il giovane Vicitravirya, ancora troppo debole e inesperto per sperare in una vittoria contro cavalieri tanto valorosi."
Certo è che l'arrivo del guerriero dalle origini divine aveva causato un certo stupore. Kashiraja gli offrì rispettosi saluti, fornendogli l'opportunità di spiegare a tutti il motivo della sua presenza. Sentite le sue vere ragioni, i pretendenti ne furono molto seccati, in quanto vedevano così svanire ogni probabilità di conquistare le bellissime principesse. L'ira si impadronì di molti di loro, che si allearono contro Bhishma, il quale, per nulla intimorito, onorò bene la sua fama di invincibile combattente, affrontando da solo centinaia di avversari.
Dopo aver sconfitto tutti i principi presenti, questi fece salire con la forza le principesse sul carro di guerra e le portò via con sé.
Intanto che il carro sfrecciava in direzione di Hastinapura, Amba, la primogenita, lo implorò di lasciarla, perché amava un principe di nome Shalva. Ma mentre ascoltava la ragazza, Bhishma vide in lontananza il carro di Shalva che si avvicinava di gran carriera; egli allora si fermò determinato a combattere contro chiunque lo osasse sfidare. Senza più ascoltare le implorazioni di Amba, Bhishma affrontò e sconfisse il valoroso principe, risparmiandogli tuttavia la vita.
Arrivarono ad Hastinapura.
Quando fu davanti a Vicitravirya, Amba disse:
"Nel momento in cui sono stata presa, io ho implorato Bhishma di non portarmi qui, perché non potrò mai amare nessun uomo all'infuori del principe Shalva. Ti chiedo dunque di lasciarmi libera."
"Cara ragazza," rispose il gentile Vicitravirya, "se il tuo cuore appartiene a qualcun altro e vuoi vivere con lui e non con me, sei libera di andare. Non voglio unirmi con una donna che non mi desidera."
Amba ringraziò di cuore e, scortata dai soldati Kurava, andò da Shalva.
"Per tanto tempo," gli disse appena fu arrivata, "abbiamo desiderato vivere insieme e amarci, e quando Bhishma allo svayamvara mi ha presa e mi ha trascinata sul suo carro avevo perso le speranze. Ma Vicitravirya mi ha lasciata libera. Ora possiamo sposarci."
"Cara Amba," rispose Shalva, "tu sai quanto ti abbia amata e puoi immaginare quanto mi costerà dirti ora queste parole, ma non mi sento di sposare una donna che mi ha visto sconfitto e umiliato in combattimento, anche se essere vinti da Bhishma non è affatto un disonore. Mi dispiace, ma non posso accettarti."
Amba tentò di convincerlo con ogni argomento, ma non vi riuscì.
Così, abbandonata dall'uomo che amava, tornò da Vicitravirya, chiedendogli protezione. Ma questi rifiutò.
"Non posso sposare una donna il cui cuore è appartenuto a un altro," disse lui.
Amba era disperata. Che poteva fare, ora? Da chi andare? I normali sogni di una ragazza della sua età, di avere una famiglia, una casa e dei figli, erano stati distrutti. A quei tempi, infatti, nessuno avrebbe mai sposato una donna cui fosse accaduta una storia del genere. Infine le venne in mente colui che aveva causato le sue disgrazie. Andò da Bhishma.
"Quando mi hai afferrata per il braccio," disse la ragazza, "e mi hai intimato di salire sul carro, io ti ho pregato di lasciarmi libera, ti ho parlato del mio amore per Shalva e del fatto che non volevo sposare nessun altro, ma tu nella foga non mi hai ascoltata e così hai rovinato la mia vita. Che ne sarà di me? Nessuno mi vorrà più. Il tuo dovere è ora di riparare all'errore commesso: devi accettarmi come moglie e darmi ciò che hanno tutte le ragazze della mia età."
"Ma tu sai del mio voto di celibato," disse Bhishma irrigidendosi. "Io non posso sposarmi. Mi dispiace di tutto ciò che è successo, non era nelle mie intenzioni farti del male. Nel clamore della battaglia non ho sentito le tue parole, altrimenti non ti avrei portata via insieme alle tue sorelle. Perdonami, ma non so come rimediare all'errore commesso. Non posso sposarti. Non potrò mai rompere un voto preso con tanta solennità."
Amba divenne furibonda. Lo pregò, lo minacciò, ma non ci fu nulla da fare: Bhishma era fermo nella sua decisione. Così la sfortunata principessa uscì dalla sala pronunciando minacce contro di lui. E Amba prese a viaggiare, chiedendo ai più celebri e potenti re dell'epoca di vendicarla, di sfidare e uccidere Bhishma per lei, ma non trovò nessuno che se la sentisse di affrontare l'invincibile figlio di Ganga. Solo Parashurama tentò di consolarla e persino si scontrò con Bhishma, ma alla fine dovette rinunciare al proposito: Bhishma era veramente troppo forte.
La sconfitta di Parashurama fu per Amba una delusione terribile. Persino questi non era riuscito a darle l'unica cosa che oramai voleva dalla vita, quella vita che per lei era diventata un inferno. Non solo nessuno aveva più voluto darle una famiglia, ma nessuno voleva o poteva procurarle la vendetta. Decise, così, di ritirarsi nella foresta e divenire un'asceta.
Per molti anni affrontò severe austerità per propiziarsi il dio Subrahmanya, che alla fine le apparve affidandole una ghirlanda.
"Mia sfortunata ragazza, prendi questa corona di fiori; sappi che chiunque la indosserà diventerà il nemico giurato di Bhishma."
Allora Amba riprese a viaggiare per i numerosi regni, ma la stessa cosa si ripeteva: nonostante la provenienza divina, nessuno volle indossare la ghirlanda. Disperata e oramai privata di ogni speranza, Amba la appese a un chiodo fuori dalle porte della capitale del re Drupada.
Poi tornò nella foresta e in un grande fuoco s'immolò.
Amba sarebbe poi rinata come Shikhandi, la figlia di Maharaja Drupada: lei stessa sarebbe diventata la nemica giurata di Bhishma e avrebbe fortemente concorso alla sua morte.

11
Vyasa genera tre figli

 Vicitravirya visse felicemente con le sue regine, ma non a lungo: una malattia mortale lo colse giovanissimo.
Satyavati era disperata: aveva perso il marito e due figli in pochissimo tempo e per di più la prestigiosa razza dei Bharata rischiava di estinguersi. L'unico che potesse ripristinarla era Bhishma, ma per quanto lei tentasse di indurlo a generare figli con le mogli del fratellastro, egli rifiutava con vigore l'idea, ricordando alla matrigna il voto di brahmacarya. La situazione era seria: cosa si poteva fare? A quel punto, con molta titubanza, Satyavati rivelò a Bhishma un segreto.
"Credo che sia giunto il momento di confidarti una cosa del mio passato che ho sempre taciuto a tutti. Come sai, io sono nata da una apsara, la quale dopo avermi partorito mi lasciò cadere nel fiume, dove venni ingoiata da un pesce. Il pescatore che mi ritrovò nel ventre dell'animale mi adottò. A quel tempo non avevo l'odore fragrante di ora, al contrario emanavo un insopportabile puzzo di pesce. Un giorno fui vista dal saggio Parashara, il quale fu attratto da me tanto che desiderò avere un figlio.
"Io non volevo, ma lui mi convinse, sostenendo che oltre a farmi riacquistare la verginità subito il parto, mi avrebbe anche impregnata di un gradevole odore di fiori di foresta. Così partorii un bambino al quale vennero dati i nomi di Krishna Dvaipayana e Vyasa; egli diventò il saggio glorioso che anche tu ben conosci.
"Ora," continuò Satyavati, "secondo le regole vediche, in momenti di eccezionali frangenti, come quelli che stiamo affrontando, dei saggi particolarmente qualificati possono fecondare le regine allo scopo di ottenere prole di grande qualità. Questo è sicuramente il caso di Vyasa, che è senz'altro uno dei rishi più austeri e spiritualmente avanzati, e inoltre fa parte della nostra stessa famiglia."
Bhishma trovò che l'idea era buona e ne parlò con Ambika e Ambalika, le quali accettarono. Satyavati mandò dei messaggeri all'eremo del figlio, il quale, vista la grave circostanza, approvò la cosa.
Ma c'era un particolare che si sarebbe rivelato determinante: Vyasa era molto alto, aveva un portamento solenne, e il suo aspetto incuteva timore; per di più le dure austerità a cui si sottoponeva avevano reso il suo corpo davvero sgradevole alla vista. Così, quando durante la notte entrò nella stanza di Ambika, la donna scorgendolo in penombra sentì agghiacciarsi il sangue dal terrore e chiuse gli occhi.
Alle prime luci dell'alba Vyasa si recò da Satyavati.
"Tua nuora Ambika non è riuscita a sopportare la mia vista," le disse il saggio, "e nel vedermi ha sbarrato gli occhi. Per questa ragione avrai un nipote molto forte, ma privo di vista sia materiale che spirituale."
La notte seguente Vyasa entrò nelle stanze di Ambalika, che riuscì a tollerare più della sorella, ma non poté fare a meno di impallidire dalla paura.
"Questo tuo secondo nipote," riferì poi Vyasa alla madre, "sarà un grande uomo, ma poiché nel vedermi la madre è impallidita, avrà una carnagione bianca come la luna, e in più non è destinato a vivere a lungo."
Nel corso del tempo Ambika partorì un figlio maschio, cieco come era stato previsto da Vyasa, e fu chiamato Dritarashtra. Anche Ambalika partorì un maschio che fu chiamato Pandu.
Dopo la nascita dei nipoti, Satyavati chiamò ancora Vyasa.
"Figlio caro," gli disse, "ti sono riconoscente per aver permesso alle due mogli di Vicitravirya di avere dei figli, evitando così l'estinzione di una delle discendenze più nobili di Bharatavarsha. Tuttavia Dritarashtra è cieco e non potrà governare normalmente, mentre Pandu, come hai tu stesso predetto, non vivrà a lungo. Dunque dà ancora figli alle due regine, cosicché il tutto non rischi di diventare vano."
"Farò come tu mi chiedi," rispose il sapiente, "ma sarà l'ultima volta, poiché le ingiunzioni vediche proibiscono che un tale atto possa ripetersi più di tre volte. Questa notte visiterò ancora Ambika."
Avvertita da Satyavati, la regina sul momento accettò ma poi, ripensando al portamento imperioso e austero di Vyasa, fu pervasa dallo sgomento e si pentì di aver accettato tanto prontamente. Il solo pensiero di quell'imminente incontro le incuteva terrore. Così convinse un'amica, una delle sue attendenti, a farsi trovare nelle sue camere quella notte, sicura che nel buio non l'avrebbe riconosciuta.
Inaspettatamente alla ragazza la cosa non riuscì così difficile, anzi fu molto cordiale con il saggio, che le disse:
"Siccome tu non sei stata disturbata dal mio aspetto e hai pensato solo a far del bene, avrai un figlio grandissimo, che sarà un'incarnazione di Dharmaraja, il dio della giustizia."
Nel corso del tempo nacque un bambino che fu chiamato Vidura.
E fu subito dopo quella nascita che Vyasa tornò nel suo eremo himalayano.
Il tempo trascorse.
I tre fanciulli crebbero amati da tutti, e in special modo dallo zio Bhishma, che li trattava come se fossero stati i suoi stessi figli.
Quando i principi raggiunsero l'età da matrimonio, Bhishma si preoccupò di trovare loro delle buone mogli. Dritarashtra sposò la casta Gandhari, figlia del re Subala di Gandhara. Questa pia donna, appena venne a sapere che avrebbe avuto un marito cieco, non volle avere niente che non fosse anche in possesso del consorte e si mise una benda agli occhi, giurando di non toglierla mai più.
Nello stesso periodo il secondogenito Pandu sposò Madri, la figlia del re di Madra.

 

12
Kunti e il figlio del sole

Il re Sura, della stirpe dei Vrishni, aveva un figlio di nome Vasudeva e una figlia di nome Pritha. Suo cugino Kuntibhoja invece non era riuscito ad averne, così Sura pensò di concedergli la ragazza in adozione. Quando la fanciulla entrò nel palazzo dello zio, ricevette il nome di Kunti, essendo stata adottata per l'appunto da Kuntibhoja.
Quelli furono anni di felicità per lei, che con i suoi modi aggraziati ed amabili si era accattivata l'affetto dei genitori adottivi e di tutti i frequentatori della corte.
Un giorno arrivò in città, per una visita, il saggio Durvasa. Quest'ultimo aveva grandi poteri mistici, ma era anche particolarmente irascibile. Si raccontava che in momenti d'ira potesse pronunciare maledizioni terribili dai risultati devastanti.
Nei giorni in cui egli dimorò da loro, Kunti lo servì con grande impegno, riuscendo nella difficile impresa di soddisfarlo. Prima di ripartire Durvasa pensò di ricompensarla.
"Cara ragazza," disse il rishi, "tu mi hai servito con grande impegno e fedeltà, quindi io vorrei darti qualcosa che in futuro ti tornerà utile. Ti insegnerò un potentissimo mantra con il quale potrai chiamare al tuo cospetto qualsiasi deva, che sarà costretto a soddisfare ogni tuo desiderio."
A quel tempo Kunti era poco più di una bambina e non capì cosa il saggio intendesse dire con "ogni tuo desiderio". In realtà si riferiva al desiderio di generare figli.
Erano passati diversi mesi dalla partenza del saggio, quando una mattina Kunti, nel veder sorgere il sole, rimase incantata dalla bellezza di quell'astro celeste. Si chiese quanto dovesse essere bello il deva che governava un pianeta così caldo e affascinante, e provò un forte desiderio di vederlo personalmente. Fu allora che le venne in mente il mantra che Durvasa le aveva insegnato, e impulsivamente lo recitò, pensando a Vivasvan. Appena un attimo dopo la stanza fu inondata da una luce abbagliante e lì Kunti, protetta dal mantra stesso, si trovò di fronte al tanto adorato deva. Ma subito la ragazza si rese conto di essersi comportata troppo superficialmente chiamando davanti a sé una divinità solo per un gioco infantile così, dopo avergli offerto delle preghiere, si scusò con lui.
"Non devi scusarti affatto," rispose Vivasvan sorridendo, "poiché la tua avvenenza è tale che può attrarre anche un abitante dei pianeti superiori. Ora io sono qui, pronto a soddisfare ogni tuo desiderio."
Kunti impiegò del tempo prima di capire la verità, e quando la apprese si sentì disperata.
"Come posso io generare un figlio?" disse fra le lacrime. "Non sono ancora sposata, e se facessi una cosa del genere nessuno mi vorrebbe più."
"Non preoccuparti per questo," rispose il deva, "poiché nostro figlio nascerà immediatamente dopo la nostra unione e tu non perderai la verginità."
Così nacque Karna.
Al momento della nascita indossava un'armatura naturale e due meravigliosi orecchini, che erano un tutt'uno col corpo. Kunti, estasiata dalla straordinaria bellezza e grazia del bambino, sentì nascere in sé un grande amore materno; pure la ragione le impose di non lasciarsi trasportare dai sentimenti per cui, ponendolo in una cesta, lo abbandonò alla corrente del Gange, facendolo sorvegliare a distanza da una ragazza.
Non molte ore dopo la cesta venne raccolta da Atiratha, un guidatore di carro da guerra della casta dei Suta, e dalla moglie Radha i quali, non avendo avuto figli e desiderandone uno da tempo, lo adottarono.
Fino agli ultimi tragici giorni della battaglia di Kurukshetra, pochissimi sarebbero venuti a conoscenza della storia dell'unione di Kunti con Vivasvan.
 
13
Pandu viene maledetto

 Qualche anno dopo Kunti sposò il virtuoso e prode Pandu. La vita del giovane, in compagnia delle sue due mogli, trascorreva in piena delizia, ma l'ombra della predizione di Vyasa si stava apprestando.
Un giorno di primavera, mentre era a caccia nella foresta accompagnato da Kunti e Madri, Pandu scorse due cervi che si accoppiavano vicino a degli alberi. In quel momento, dimentico delle regole scritturali che proibiscono l'uccisione di qualsiasi animale nell'atto dell'accoppiamento, questi scagliò un freccia che penetrò nel corpo del maschio. Con grande sorpresa del re, l'animale ferito cominciò a parlare.
"Io non sono un cervo, ma un eremita che vive in questi boschi. Accecato dall'intossicazione della caccia, tu mi hai colpito mentre, sotto queste sembianze assunte grazie ai miei poteri mistici, mi accoppiavo con la mia legittima sposa. Hai commesso un grave errore. Io ti predico che morirai appena tenterai di avere un rapporto sessuale con le tue mogli."
 Il saggio morì pochi istanti dopo. Affranto dai sensi di colpa per aver ucciso un brahmana e per la maledizione che da quel momento gli avrebbe impedito di avere figli, Pandu, accompagnato dalle consorti, abbandonò il regno e si ritirò nella foresta.
 Per i Bharata, che si ritrovarono ancora una volta senza re, fu una grande disgrazia. Come già detto, essendo Dritarashtra condizionato dalla cecità, ancora una volta Bhishma si vide costretto a governare, in attesa della nascita dei figli di uno dei due nipoti.
 
14
La nascita dei Pandava

 Passarono gli anni. Nel frattempo per le spose di Pandu il desiderio di avere figli diveniva sempre più prepotente. Allora, pur sapendo della maledizione inflitta al marito, decisero di parlargliene per trovare una qualche soluzione.
"Gli anni si dissolvono come neve al sole," disse Kunti, "e noi non abbiamo ancora avuto figli. Ogni donna si augura di averne e anche in noi l'esigenza della maternità è diventata molto forte. Come possiamo risolvere questo dilemma che oramai da parecchio disturba le nostre giornate?"
Pandu era desolato.
"Anch'io vorrei tanto avere dei figli, ma sapete bene che non posso, in quanto ciò mi costerebbe la vita. In una circostanza del genere non so proprio quale potrebbe essere la decisione migliore per tutti."
In quei giorni Kunti aveva riflettuto molto sul problema e aveva deciso di rivelare l'avvenimento della benedizione di Durvasa al marito, ma non gliene aveva ancora parlato per timore che lui potesse non essere d'accordo. Invece quale fu la gioia di Pandu alla notizia di diventare il padre di una prole generata addirittura da esseri di pianeti superiori!
Nei giorni che seguirono, Kunti si preparò a chiamare i deva.
"Io voglio che il mio primo figlio possegga innanzitutto le qualità della giustizia e della rettitudine," pensò lei, "così chiamerò Yamaraja."
Dall'unione del deva che regola la giustizia e il passaggio delle anime da un corpo all'altro, nacque un maschio che fu chiamato Yudhisthira.
"Ora desidero un figlio che sia forte come mai nessuno lo è stato," pensò poi Kunti, "così chiamerò a me Vayu."
E nacque un secondo maschio che fu chiamato Bhima.
"Ora desidero un terzo figlio che sia il più valoroso in combattimento, e questo figlio lo avrò da Indra."
E dalla loro unione nacque Arjuna.
A quel punto, sentendosi completamente soddisfatta, decise di non procreare più. Ma vedendo Madri avvilita, Kunti le sorrise e le disse:
"Cara amica, so che anche tu desideri molto dei figli. Ora ti insegnerò il mantra, cosicché tu stessa potrai generare."
Volendo prole di bell'aspetto e dalla grande erudizione e saggezza, Madri si appellò ai gemelli Ashvini Kumara, medici dei deva, e da loro ebbe due gemelli che chiamò Nakula e Sahadeva.
Pur non essendo figli diretti di Pandu, essi furono sempre conosciuti come i cinque Pandava, perché nati dalle sue mogli.
Nel frattempo ad Hastinapura era successo un fatto importante. Gandhari, che pure era rimasta incinta, aveva sperato di partorire prima di Kunti, cosicché suo figlio avrebbe avuto la prerogativa sul diritto al trono. Dunque si può ben immaginare la sua delusione quando le fu data la notizia della nascita di Yudhisthira. La collera le fece perdere completamente i lumi della ragione e, accecata dall'ira, si colpì il ventre e abortì. A corte erano tutti disperati, ma Vyasa venne e compose l'aborto, dividendolo in cento parti.
L'anno successivo, nello stesso giorno della nascita di Bhima, nacque il primogenito di Dritarashtra, che fu chiamato Duryodhana. Proprio nel momento della sua nascita, però, dei terribili segni premonitori apparvero, tali da far presagire gravissime disgrazie.
Vidura osservava quei presagi infausti e assorto in gravi riflessioni, andò a trovare Dritarashtra.
"Io so quanto tu sia felice della nascita del tuo primogenito, ma i segni che sono apparsi sopra la nostra città ci fanno capire che non è un'anima pia. Al contrario egli sembra destinato a causare danni enormi. Osserva quelle saette sopra i palazzi, e ascolta come ululano i nostri cani; avverti i tremori sui nostri corpi e guarda come le murti piangono. Fratello mio, tuo figlio porta con sé un destino di disgrazie e immani dolori che spartirà con tutti noi. Ascoltami: se vuoi salvare la nostra famiglia, il nostro regno e tutta la razza degli kshatriya non lasciarlo vivere. Fallo uccidere immediatamente."
A quelle parole Dritarashtra fremette.
"Anche se purtroppo non posso vedere, anch'io sento nel mio cuore presagi terribili, apportatori di morte e capisco anche quanto giusti siano i tuoi consigli. Ma non riesco neanche a pensare di uccidere mio figlio: come potrei? Ho atteso tanto questo momento. Non ci riuscirei mai."
Vidura insistette, e con lui anche Bhishma, ma i due non furono capaci di fargli accettare la cosa. E così Duryodhana visse.
Nel corso del tempo nacquero 100 figli e una figlia.
 
15
La morte di Pandu
 I Pandava trascorsero la loro infanzia nella foresta, ricevendo i primi insegnamenti dai saggi che vivevano negli eremi.
Trascorsero quindici anni felici per Pandu, in compagnia dei figli e delle mogli, ma ciò che è scritto nel libro del karma di ognuno di noi è inevitabilmente destinato ad accadere. Ricorderete infatti ciò che Vyasa disse alla madre dopo l'incontro con Ambalika: "...questo tuo nipote non è destinato a vivere a lungo..."
Così accadde che un giorno di primavera Pandu, mentre gli altri erano nella foresta, vide sua moglie Madri da sola, e un forte desiderio sessuale lo invase al punto da non sapervi resistere. Pertanto, nonostante quest'ultima tentasse di ricordargli la maledizione del rishi, volle possederla; in quel preciso istante cadde al suolo senza più vita. Madri pianse e gridò aiuto, richiamando l'attenzione di Kunti e dei cinque ragazzi che, giunti sul posto, videro Pandu al suolo senza vita.
"Come hai potuto accettare di accoppiarti con lui," gridò Kunti, "sapendo della maledizione che gravava su di lui? Dovevi rifiutarti, ricordargli cosa l'aspettava se lo avesse fatto..."
"Io ho cercato di resistergli, di ricordargli della maledizione del brahmana," pianse la regina affranta, "ma lui sembrava fuori di sé, come se fosse stato posseduto da un demone. Non ho avuto la forza fisica di resistergli."
I saggi della foresta consolarono le due donne e i cinque ragazzi e pochi giorni dopo celebrarono i riti funebri durante i quali il corpo fu bruciato sulla pira. Madri pensò di non poter vivere con il rimorso di ciò che aveva causato, pur involontariamente, e seguì Pandu nella morte. Kunti adottò i suoi figli.
Dopo la tragedia, i Pandava decisero di tornare ad Hastinapura, il regno del padre, per approfondire gli studi. Inoltre Yudhisthira era il principe ereditario al trono, per cui appena il periodo scolastico fosse terminato avrebbe dovuto governare sul vasto regno dei Bharata.
Così i cinque giovani, accompagnati dalla madre e da molti saggi, si incamminarono verso la capitale.
Kunti e i cinque Pandava furono ricevuti dai parenti con calore.
 
16
Predizioni funeste
Non molto tempo dopo l'arrivo dei figli di Pandu, ricevuto con tutti gli onori, nella città dei Kuru arrivò Vyasa.
Il giorno seguente il saggio volle parlare alla madre.
"Tempi tenebrosi si avvicinano," disse, "tempi in cui la verità verrà momentaneamente coperta dall'empietà e dalla falsità. Molto sangue e lacrime di madri, mogli, figli, amici e parenti scorreranno su queste terre. Non passerà molto tempo e su questo mondo non ci sarà nessuno che non avrà qualcuno da piangere."
Satyavati era allarmata dalle parole del figlio.
"Cosa dici? Cosa avverrà e chi dovrà piangere i propri cari?"
"I figli di Dritarashtra sono dei malvagi, e per colpa della loro empietà l'intera stirpe degli kshatriya della terra perirà in una terribile guerra. Non c'è nulla che possa essere fatto per evitarla, visto che Dritarashtra non ha voluto seguire i consigli di Vidura al momento della nascita di Duryodhana. Questa guerra è voluta dai deva e dallo stesso Signore Supremo. Presto molto dolore scorrerà come una maledizione su tutta Bharatavarsha."
Satyavati sapeva che le parole di Vyasa non avrebbero potuto rivelarsi erronee, per cui, non volendo assistere a quegli avvenimenti catastrofici, annunciò di volersi ritirare per una vita meditativa nella foresta. Ambika e Ambalika vollero seguirla.
 
17
Il primo attentato
Per i cinque giovani iniziò una vita completamente diversa. I tempi piacevoli ma austeri della foresta erano andati, e per la prima volta provarono le gioie del mondo regale, fatta di sfarzi e opulenze di ogni tipo.
Fra i giochi di gioventù, il tempo trascorreva piacevolmente, ma i ragazzi non prestavano minore attenzione all'apprendimento. Insieme a molti altri principi, i Pandava approfondirono gli studi a cui erano stati iniziati dai saggi della foresta. Essi erano ragazzi ingegnosi e per apprendere le cose non dovevano fare sforzi particolari. E più i giorni passavano e più risultava chiaro che i cinque figli di Pandu avessero doti straordinarie che permettevano loro di eccellere sopra tutti gli altri: Yudhisthira era il più saggio e virtuoso di tutti, Bhima il più forte, Arjuna il più abile con le armi, Nakula e Sahadeva erano i più bravi nel trattare con i cavalli.
Duryodhana, il primogenito di Dritarashtra, che cresceva in costante compagnia dei cugini, cominciava a sentirsi irritato da quella supremazia che gli rovinava i suoi giochi giovanili; non c'era sport in cui il migliore fra di loro non fosse uno dei Pandava.
Poi dall'irritazione sorse a poco a poco l'invidia e poi il rancore. Non bisogna dimenticare che se Yudhisthira fosse nato un anno dopo o se i Pandava non fossero più tornati ad Hastinapura, egli avrebbe ereditato il trono dei Bharata. La prospettiva di non poter mai diventare re infastidiva sempre più il giovane che a quell'età cominciava già a dare importanza al proprio futuro.
L'invidia divenne bruciante, in special modo nei confronti di Bhima il quale, nella sua giovanile innocenza, non si lasciava sfuggire nessuna occasione per umiliarlo davanti a tutti. In special modo nella lotta, grazie alla sua forza sovrumana, Bhima lo sconfiggeva regolarmente. Duryodhana non poteva fare a meno di ricordare i tempi passati, quando non erano ancora giunti i cugini ed egli era oggetto delle attenzioni di tutti gli abitanti a corte, ma ora tutti parlavano solo di loro, tutti elogiavano in continuazione solo loro. In quel periodo il giovane soffrì molto.
Duryodhana aveva uno zio materno che si chiamava Shakuni. Particolarmente affezionato al nipote, egli avvertì che qualcosa non lo faceva essere del suo solito umore e si chiese cosa potesse essergli successo. Così, in un momento in cui lo trovò solo, gli parlò.
"É parecchio tempo che ti vedo adombrato e lo trovo strano. Solitamente sei sempre gioviale e pronto allo scherzo con tutti. Hai forse qualche problema? qualche pensiero che ti preoccupa particolarmente? Apriti dunque con me, Duryodhana, dimmi cos'è che ti rende così triste."
"Cosa mi preoccupa?" ribatté il principe. "É così difficile da capire? Prima che arrivassero i Pandava io ero destinato a diventare il re dei Bharata e sicuramente l'imperatore del mondo intero. Tutte le attenzioni erano per me e tutti mi coprivate di affetto. Inoltre io ero sempre il migliore e nessuno mi vinceva nei giochi di guerra.
"Ma da quando sono arrivati loro, i figli di Pandu, ogni cosa è cambiata. Io non diventerò re a causa della cecità di mio padre, e Yudhisthira, che è nato un anno prima di me, presto salirà al trono. E come se non bastasse, la loro superiorità è reale, lui è veramente migliore di me sotto tanti aspetti e dove non riesce i suoi fedelissimi fratelli gli danno sempre il massimo appoggio. Immagina se un giorno ci dovesse essere un serio litigio fra me e Yudhisthira: hai mai visto combattere Bhima? La sua forza fisica non è umana, così finché ci sarà lui Yudhisthira può dormire sonni tranquilli. E poi Arjuna... la sua istruzione militare è appena iniziata, eppure usa le armi come se non avesse mai fatto altro fin dai primi anni della sua vita. Guarda Nakula... hai mai visto un ragazzo più bello? Le sue fattezze fisiche sono tanto perfette quanto quelle dei deva dei pianeti più alti e si batte con l'agilità di un gandharva. Le fanciulle non hanno occhi che per lui. E Sahadeva? Pensa che riesce persino a dialogare con i cavalli e li cavalca in maniera perfetta.
"Tutti e cinque sono virtuosi, gentili, intelligenti e nessuno può fare a meno di amarli incondizionatamente. Il nostro Bhishma stravede per loro, il maestro Kripa riserva per loro le sue gentilezze più particolari, i visi dei brahmana di corte si illuminano quando li vedono, e persino mio padre non nasconde il suo apprezzamento nei loro confronti. Insomma, da quando sono arrivati, io e i miei fratelli non esistiamo più e non abbiamo le stesse prospettive che avevamo prima. Considerando questa situazione, non dovrei sentirmi amareggiato?"
La sfuriata di Duryodhana fu lunga e amara; forse non aspettava altro che di sfogarsi con qualcuno, ma di sicuro aveva scelto la persona sbagliata. Ci sarebbero state molte cose che Shakuni avrebbe potuto dire per lenire il dolore del nipote, però fra le tante scelse le meno opportune. D'altra parte non tutte quelle lamentele avevano reale fondamento; era fuori dubbio che gli anziani di corte amassero i Pandava e che li riservassero di speciali premure, ma non era affatto vero che Duryodhana fosse stato accantonato. I cinque ragazzi inoltre erano vissuti nella foresta, senza nessun agio, e avevano dovuto sopportare la sofferenza di vedere il padre morto, per cui era naturale che gli anziani Kurava cercassero di farli sentire amati e protetti. Ma anche lui, Duryodhana, era al centro di manifestazioni d'affetto, anche se ovviamente non era proprio come prima della venuta dei Pandava. Un ragazzo normale della sua età si sarebbe sentito appagato da quelle attenzioni, ma egli purtroppo non era una persona normale: aveva un problema grande, intrinseco alla sua natura: era invidioso, non sopportava nessuno che avesse qualcosa più di lui. La sua gelosia era proporzionale alla forza di Bhima e all'abilità di Arjuna.
"Immaginavo qualcosa del genere," gli rispose Shakuni, "e anch'io stavo considerando con serietà la situazione. Io so che i Pandava hanno qualità eccezionali, che sembrano quasi di origine divina. In tutto il mondo non si trovano giovani come loro. Quando saranno cresciuti prenderanno il comando di questo vasto regno per diritto di nascita, e sicuramente governeranno con forza. Allora cosa rimarrà a te e ai tuoi fratelli? Al massimo il comando di qualche provincia, e sarete per sempre assoggettati ai presuntuosi cugini. Qualcuno potrebbe dire che essi sono così buoni d'animo che non faranno mai pesare il fatto di essere i governanti supremi, ma noi lo sappiamo che il potere dà alla testa e fa perdere ogni virtù. Nipote mio, sono d'accordo con te: tutto fa credere che un giorno, ritenendoti un potenziale nemico, i figli di Pandu marceranno contro di te e i tuoi fratelli allo scopo di eliminarvi. Io non ho dubbi che accadrà proprio questo."
Perché Shakuni aveva detto quelle parole al nipote? Probabilmente riteneva proprio che le cose sarebbe dovute inevitabilmente andare in quel modo, ma c'erano anche altre ragioni. Non dimentichiamo che egli era lo zio diretto di Duryodhana e che logicamente preferiva avere lui come re dei Bharata piuttosto che Yudhisthira, del quale temeva la potenza. Un giorno che il giovane figlio di Gandhari fosse diventato re, il suo regno, quello dei Gandhara, ne avrebbe tratto grandi profitti. Sicuramente non poteva prevedere quali pieghe avrebbe preso il futuro.
"Ma del resto cosa si può fare?" riprese Duryodhana. "Yudhisthira è l'erede di diritto e noi non possiamo convincere mio padre, Bhishma e tutti gli anziani ad andare contro le ordinanze scritturali che sono sempre state osservate da ogni famiglia nobile. Per noi non c'è nulla da fare."
"Un principe come te, che appartiene a una stirpe celebre in tutto il mondo per valore e intelligenza," ribatté in tono combattivo lo zio, "non deve mai sentirsi inerte davanti alle difficoltà, ma ha sempre il dovere di agire con grande vigore; ne va di mezzo il futuro tuo e dei tuoi familiari, me stesso compreso. Agisci con forza. Non è vero che non si può fare niente per risolvere questa situazione. Per ogni problema esiste una soluzione; basta saperla trovare."
Duryodhana fu colpito da quelle parole. Fino ad allora aveva considerato la cosa come una maledizione alla quale era impossibile sottrarsi, per cui ci era vissuto accanto con rassegnazione, ma ora, ascoltate le parole dello zio, una luce di speranza si accese nel suo cuore e le prime idee diaboliche cominciarono velocemente a scorrergli nell'intimo corroso dall'invidia.
"Bisogna al più presto togliere il potere ai Pandava," incalzava Shakuni, "perché col tempo essi stringeranno nuove amicizie e alleanze, e la loro potenza aumenterà, fino a che arriveremo al punto in cui essi saranno realmente diventati invincibili."
Convinto da Shakuni, Duryodhana liberò la propria invidia di qualsiasi inibizione.
"É vero, dobbiamo agire contro quella che è la fonte prima della loro forza e io so qual’è: Bhima. Lo possiamo vedere persino quando giochiamo. Chiunque attacca Yudhisthira, immediatamente Bhima interviene con la sua forza sovrumana e lo libera da ogni pericolo. E più il tempo passa, più diventa forte. Se vogliamo liberarci dei Pandava dobbiamo prima eliminare Bhima."
Così, messo al corrente anche Dusshasana, il fratello minore, concertarono il piano di avvelenare e gettare Bhima nel fiume. La cosa non riuscì loro difficile perché nessuno avrebbe mai sospettato che Duryodhana fosse arrivato a tal punto. La sua gelosia nei confronti dei cugini era risaputa, ma sembrava più che altro una cosa da ragazzi.
I tre cospiratori mischiarono del veleno nel cibo del Pandava, il quale, dopo averlo mangiato, cadde al suolo apparentemente senza vita. A quel punto lo legarono e lo gettarono nel Gange. Convinti di essere riusciti ad ucciderlo e, pienamente soddisfatti della loro nefandezza, ritornarono al palazzo.
Intanto il corpo di Bhima era stato inghiottito dalle acque del fiume e sprofondava inesorabilmente verso gli abissi.
Nelle profondità del Gange vivevano molti serpenti velenosi che, scorta quella presenza umana, temettero di essere in pericolo per cui la attaccarono, mordendola ripetutamente. Il veleno dei naga, mischiatosi a quello che Bhima aveva ingerito, causò una reazione chimica tale da agire come antidoto. Vedendo quel corpo muoversi nonostante il loro potentissimo veleno, essi se ne stupirono e corsero ad informare il loro sovrano Vasuki dello strano avvenimento. Questi volle recarsi di persona sul posto per accertarsi dell'accaduto e immediatamente riconobbe in quella persona priva di sensi Bhima.
"Senza saperlo avete salvato la vita al prode figlio di Pandu," proclamò Vasuki, "che ci aiuterà a liberare il mondo dalla indesiderata potenza degli asura. Sorvegliatelo e curatelo. E appena starà sul punto di svegliarsi, correte ad avvertirmi."
Bhima dormì profondamente per qualche giorno. Poi cominciò a sentire la coscienza tornare. Ma nel momento in cui riaprì gli occhi quale fu il suo stupore nel vedersi circondato di serpenti. I naga, infatti, appena si erano resi conto che il loro ospite si stava risvegliando, si erano affrettati a chiamare Vasuki. Così in quel momento erano tutti lì, al suo capezzale.
"Dove mi trovo? E chi siete voi? Perché sono in queste acque?"
"Io sono Vasuki, il figlio maggiore di Maharshi Kashyapa. Tu sei affondato in queste acque e stavi per morire a causa di un potente veleno che avevi ingerito, ma loro, mordendoti, ti hanno salvato. Devi sapere che tu sei protetto dal Brahman Supremo, la Persona Divina stessa, che veglia su di te e sui tuoi fratelli. Sappi che si avvicinano tempi molto difficili e che le vostre vite saranno costantemente in pericolo. Non fidatevi dei vostri cugini: essi sono anime malefiche, specialmente Duryodhana, il quale è invidioso di voi. É stato lui a mettere il veleno nel cibo, e se non fosse stato per la tua nascita divina e per la protezione di cui godi insieme ai tuoi fratelli, saresti morto. Torna da loro, e d'ora in poi vigilate attentamente."
Vasuki diede da bere a Bhima una pozione divina che moltiplicò la sua già considerevole forza fisica. Per effetto di quell'elisir, egli sprofondò di nuovo in un sonno profondo, e dormì per otto giorni. E dopo averne trascorso altri due in compagnia di Vasuki, il Pandava tornò sulla terra.
Ai fratelli, che nel frattempo avevano vissuto momenti di profonda angoscia, raccontò tutto ciò che era successo.
"Da oggi in poi dovremo stare molto attenti, poiché sembra che Duryodhana abbia ormai messo fine al periodo della fanciullezza e abbia intenzione di commettere azioni diaboliche," concluse Yudhisthira.
Kunti, Vidura e Bhishma, venuti a conoscenza di quel terribile avvenimento, cominciarono seriamente a preoccuparsi.
Quando Duryodhana seppe che Bhima era ancora vivo, si riunì con Shakuni e Dusshasana per progettare altri piani su come sbarazzarsi degli invadenti cugini.
 
18
L'arrivo di Drona
 Un giorno, mentre i principi giocavano in giardino un uomo alto vestito di nero, con la testa coperta da un grande cappuccio, si fermò ad osservarli. A un certo punto la palla con la quale i ragazzi giocavano cadde nel pozzo e per quanti sforzi essi facessero non riuscivano a recuperarla.
Il viandante rise a voce alta.
"É mai possibile che i discendenti di una stirpe prestigiosa come quella dei Bharata non sappiano fare una cosa così semplice come quella di recuperare una palla caduta in un pozzo?"
"Non è affatto facile recuperarla senza bagnarsi," risposero i principi alquanto stizziti, "ma se tu credi di poterci riuscire, allora mostraci come fare."
Lo sconosciuto sorrise; poi chiese un arco e vi pose una freccia. Con un abile gioco di rimbalzi riuscì a recuperare la palla; dopodiché volle un anello d'oro. Yudhisthira gli diede il suo e questi, tra la sorpresa generale, lo gettò nel pozzo. Prima che i giovani potessero protestare, prese dei fili d'erba dal terreno e mormorò dei mantra, alchè con decisione li scagliò nel pozzo, agganciando l'anello. Poi ne lanciò degli altri in rapida successione e ad ognuno collegava il filo d'erba precedente, formando una catena. In quel modo riuscì a tirare fuori l'anello. I principi erano esterrefatti.
"Chi sei tu? e qual è il tuo nome? Non abbiamo mai visto fare cose del genere con una tale bravura."
"Bhishma mi conosce," rispose. "Andate da lui e raccontategli ciò che ho fatto. Allora saprete il mio nome."
Appena Bhishma sentì come il misterioso personaggio avesse recuperato la palla e l'anello, capì subito che si trattava di Drona e corse fuori a riceverlo. Era il migliore maestro d'armi del tempo. La sua abilità era incomparabile e tutti i re di Bharatavarsha facevano a gara perché egli istruisse i loro figli nella nobile arte marziale. I principi Bharata fino ad allora erano stati istruiti da Kripa, ma era fuori dubbio il fatto che Drona potesse offrire loro un insegnamento a un livello ben diverso, che solo lui era in grado di impartire. Pertanto Bhishma si sentì onorato di chiedergli di rimanere a corte come Acarya di tutti i principi.
 
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La storia di Drona e Drupada

Chi era Drona?
Figlio del celebre saggio Bharadvaja, questi era un brahmana rinomato per la grande conoscenza e santità, ma privo di qualsiasi ricchezza materiale. Per quella ragione era giunto alla corte dei Kuru. Ma per capire le ragioni dell'arrivo di questo importante personaggio bisogna fare qualche passo indietro e ritornare ai tempi della sua infanzia.
Quando era poco più di un bambino, Drona era stato il compagno di giochi di Drupada, il figlio del re di Panchala. Durante i loro giochi Drupada gli aveva promesso in più riprese che, in segno di profondo apprezzamento verso di lui, quando avesse ereditato il trono del padre gli avrebbe ceduto metà del regno.
Erano passati tanti anni e i due amici si erano ormai persi di vista. Drona aveva sposato Kripi, figlia di Gautama Muni e sorella di Kripa. Come abbiamo già detto in precedenza, la loro vita si incentrava sugli studi e le adorazioni religiose, per cui erano pieni di conoscenza spirituale e di serenità interiore, ma non possedevano niente, al punto da non potersi permettere neanche di dar da bere del latte al figliolo Asvatthama. Ma la cosa non era sembrata tanto tremenda a Drona fino al giorno in cui gli amici di Asvatthama non avevano pensato di burlarsi di lui e, preparata una bevanda a base di polvere di riso, gliel'avevano porta dicendo:
"Bevi, questo è latte. L'abbiamo messo da parte apposta per te."
Il ragazzo, che non credeva ai propri occhi, lo aveva bevuto tutto d'un fiato. E tanta era stata la felicità di aver potuto finalmente assaporare del latte che era corso dai genitori danzando e gridando:
"Ho bevuto il latte! ho bevuto il latte!"
Quella volta Drona si era reso conto che il loro stato di povertà era veramente esagerato e che il figlio ne stava soffrendo troppo, e poiché egli non aveva mai dimenticato le promesse fatte dall'amico aveva pensato bene che fosse giunto il momento di recarsi da Drupada. Ma quando questi aveva ascoltato la richiesta del brahmana lo aveva deriso in tono sprezzante.
"Come hai potuto prendere sul serio una promessa del genere?" aveva detto. "Quando si è ragazzi si dicono tante cose insensate... non crederai davvero che io ti voglia dare metà del mio regno?"
E tutti i presenti avevano riso di lui. Maltrattato e beffato, Drona era stato cacciato via. Egli in seguito aveva tentato in vari modi di procurarsi quel benessere che tanto avrebbe giovato alla sua famiglia, ma a quei tempi imperversava una grande crisi economica e nessuno aveva potuto accontentarlo.
Un giorno era venuto a sapere che Parashurama stava distribuendo ai brahmana le sue ricchezze, ma lo sfortunato Drona era arrivato troppo tardi: a Parashurama erano rimaste solo le armi. Così aveva accettato quelle, con tutti i segreti per utilizzarle in battaglia. Non aveva trovato le ricchezze, ma per lo meno aveva un mestiere e anche il mezzo di vendicarsi dalle umiliazione subite da Drupada.
Per questa ragione era venuto ad Hastinapura. Con dei discepoli come i principi Bharata e con un alleato come Bhishma avrebbe potuto ottenere oltre alle ricchezze anche la vendetta.
Così ebbe inizio il corso di insegnamento dei Pandava, tenuto dal sapiente e severo maestro. Fra tutti, nonostante Drona fosse totalmente imparziale, il migliore si rivelò Arjuna, il terzo dei fratelli Pandava, per cui solo a lui, e neanche al suo stesso figlio, affidò il segreto di come lanciare e ritirare il Brahmastra, una micidiale arma atomica, ammonendolo però di usarla solo contro nemici che non fossero di questo mondo. Arjuna accettò il dono con quella naturale modestia che lo aveva sempre fatto amare da tutti.
 
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Ekalavya il nishada
 Un giorno arrivò ad Hastinapura un giovane di pelle molto scura e dai vestiti laceri che, con profonda umiltà, chiese al maestro di accettarlo come studente. Drona lo guardò con sospetto.
"Tu sai che io accetto nella mia scuola solo giovani di sangue reale e di stirpe aryana," gli disse, "perciò prima che io ti prenda sotto la mia direzione è necessario che tu mi parli della tua discendenza."
Il giovane non pensò neanche per un attimo di mentire a colui che dentro di sé aveva già accettato come sua guida; sapeva bene che un rapporto importante come quello col proprio insegnante non poteva cominciare con una bugia tanto grossa.
"Mi chiamo Ekalavya," rispose con tono gentile, "e mio padre è il re dei Nishada. So che il mio popolo non è considerato aryano, ma ti prego di accettarmi ugualmente. Io sarò per te un discepolo fedelissimo e mi impegnerò al massimo per seguire le tue istruzioni. Sii misericordioso. Io non potrei accettare nessun altro guru all'infuori di te."
I Nishada erano considerati un popolo dai costumi barbarici, e così Drona, per quanto avesse apprezzato le parole sincere del giovane, declinò gentilmente la richiesta.
La delusione non fece cambiare idea a Ekalavya che divenne ancora più deciso a prendere istruzioni solo da Drona. Così si ritirò nella foresta e costruì una statua di creta del tutto simile a colui che oramai considerava suo acarya e lì si esercitò, adorando e venerando quella forma.
Passò del tempo.
Un giorno, mentre i principi erano nella foresta, uno dei loro cani s'imbattè nella radura dove Ekalavya si stava esercitando. Vedendo quella figura alta e scura, l'animale s'impaurì e abbaiò, ma prima che potesse richiuderla una serie di frecce gli bloccarono la bocca senza ferirlo. Con quell'insolita museruola, il cane spaventato corse dai padroni, che si stupirono della prodezza dello sconosciuto arciere. Venuto a conoscenza del fatto, Drona volle approfondire la questione: accompagnato da Arjuna, cercò e trovò Ekalavya. Il giovane Nishada, appena vide il maestro, gli si gettò rispettosamente ai piedi.
"Chi ti ha insegnato a usare l'arco in quella maniera?" gli chiese.
"Il mio guru è Drona," rispose il giovane, "e prendo ordini solo da lui."
La questione era delicata. I Nishada erano una popolazione tradizionalmente nemica dei Bharata e la loro mancanza delle fondamentali virtù spirituali li rendeva tutti potenzialmente nemici dei Pandava. Doveva fare in modo che Ekalavya non continuasse a progredire in quel modo, che non diventasse più abile di Arjuna. Per qualche istante rifletté sulla questione, poi disse:
"Se io sono il tuo maestro, allora mi devi il gurudakshina."
"Sono pronto a darti qualsiasi cosa," rispose Ekalavya, al quale non sembrava vero di essere stato accettato come discepolo, "dimmi cosa posso fare."
"Voglio la cosa più preziosa che hai. Visto che hai imparato a usare l'arco così bene, devi darmi il tuo pollice destro."
Senza pensarci, Ekalavya se ne privò.
Così mutilato, continuò ad esercitarsi e nonostante tutto divenne un valoroso arciere, ma perse molta della sua velocità. In questo modo Drona aveva assicurato la futura supremazia di Arjuna nell'uso dell'arco.
Qualche anno dopo, prima della fatale guerra di Kurukshetra, Ekalavya sarebbe morto ucciso da Krishna durante un combattimento.
 
21
La storia di Karna
 Ricorderemo come Kunti, prima del matrimonio con Pandu, avesse generato un figlio da Vivasvan, il deva del sole. Poiché Karna è uno dei personaggi chiave del Mahabharata, dobbiamo di nuovo retrocedere nel tempo per scorrere le pagine della storia di questa particolare figura sino al momento presente.
Abbandonata alla corrente del Gange e seguita da una ragazza che la controllava dalla riva, la cesta con il neonato era stata raccolta da Atiratha e da sua moglie Radha. Non sapendo chi fossero i genitori che l'avevano abbandonato, i due, che erano privi di figli, avevano deciso di adottare il bambino.
Gli anni erano passati. Karna era cresciuto.
Atiratha apparteneva alla casta dei suta, i quali si occupavano di guidare i carri da guerra degli kshatriya. Essendo quella la sua attività naturale, aveva tentato di insegnarla al figlio, introducendolo nei segreti del mestiere, ma fin dall'infanzia Karna si era sempre rifiutato di seguire il padre. Non gli piaceva guidare i carri, né ricevere ordini dai guerrieri. Al contrario rimaneva incantato appena vedeva un arco, una spada, o un celebre guerriero in groppa al suo cavallo. Avrebbe voluto diventare uno kshatriya, non un suta.
Quando ne aveva parlato al padre, questi era rimasto alquanto dubbioso, consapevole di quanto fosse complicato a quei tempi cambiare i doveri occupazionali pertinenti alla casta di nascita. Per anni aveva tentato di fargli cambiare idea, ma inutilmente: Karna voleva diventare un soldato a tutti i costi.
Così un giorno il padre gli aveva detto:
"Io non posso insegnarti a combattere, ma se proprio vuoi imparare devi trovare un maestro che ti istruisca; non puoi farlo da solo."
E Karna, spinto da quella forte natura guerriera che da sempre sentiva dentro di sé, arrivato alla giusta età aveva lasciato casa e si era messo alla ricerca di un maestro degno che lo iniziasse alle nobili arti marziali. Ma quello, purtroppo, non era l'unico cruccio che turbava la vita dello sfortunato: un altro problema lo angosciava enormemente. Il padre gli aveva raccontato, infatti, di come lo avesse raccolto dalle acque del Gange e del mistero che aleggiava intorno alla sua nascita. Il desiderio di scoprire le sue vere origini aveva sempre pesato in maniera determinante sul suo cuore.
Nei suoi viaggi alla ricerca di un guru, lo troviamo anche ad Hastinapura, dove sarebbe stato rifiutato da Drona, per la stessa ragione per cui era stato rifiutato Ekalavya. Ma Karna non aveva giurato eterna dedizione a quel particolare maestro, il suo più forte desiderio era di diventare uno kshatriya, quindi un qualsiasi maestro, purché qualificato, sarebbe andato bene. Ma nessuno aveva potuto accettarlo come discepolo a causa dell'umiltà delle sue origini.
Da chiunque egli si recasse la risposta che riceveva era la stessa: "sei il figlio di un suta, non posso accettarti come discepolo."
E così Karna aveva continuato a vagare, sentendosi ad ogni rifiuto sempre più frustrato e umiliato: nessuno gli voleva insegnare l'arte del combattimento. Più di una volta si era sentito scoraggiato, ma al pensiero che con tutta probabilità non avrebbe potuto mai fare nient'altro che il suta, aveva preferito infine correre un grosso rischio: andare da Parashurama e quando egli gli avrebbe chiesto della sua famiglia gli avrebbe mentito.
"Se gli dico che sono un suta, egli mi rifiuterà per la stessa ragione per la quale mi hanno rifiutato gli altri; se invece affermo di essere uno kshatriya mi respingerà lo stesso in quanto odia gli kshatriya. Quindi dovrò dirgli che sono un brahmana."
Le considerazioni di Karna erano corrette; infatti chi conosce la storia di Parashurama sa che questi era un avatara divino sceso sulla terra per annientare l'intera stirpe guerriera, cosa che aveva fatto per ben ventuno volte. Nella sua stessa indole esisteva dunque un forte astio verso tutta quella classe che aveva combattuto aspramente. Presentarsi come tale sarebbe stato addirittura meno consigliabile che presentarsi come un suta.
Aveva viaggiato per giorni, finché era giunto nel ritiro himalayano del saggio. Nel vederlo aveva avuto lì per lì un attimo di esitazione. L'aspetto di Parashurama era davvero terribile: alto e imponente, la figura forte e possente, era vestito con semplici indumenti da asceta e portava i capelli raccolti in un unico punto sopra la testa. Ma ciò che lo aveva colpito in maniera particolare erano stati gli occhi, che brillavano come carboni ardenti, e una forte energia mistica che si sprigionava dall'intero essere. Dopo avergli offerto rispettosi omaggi, Karna gli aveva rivolto la parola.
"Rispettabile rishi, sono il figlio di un brahmana e sono venuto da te per apprendere l'arte dell'uso delle armi. Accettami dunque come discepolo e io ti servirò con tutto me stesso."
Così Parashurama lo aveva tenuto con sé addentrandolo nei più reconditi segreti della scienza marziale. Col trascorrere del tempo Karna si era sentito baciato dalla fortuna perché neanche nei suoi sogni più azzardati aveva mai immaginato di poter vivere giorni di così intensa felicità. Tuttavia l'esistenza di Karna non era affatto destinata a essere lieta; la malasorte era ancora in agguato, pronta a danneggiare di nuovo il generoso giovane.
Un giorno, mentre il maestro riposava con la testa poggiata sulle sue gambe, un insetto carnivoro si era attaccato al ginocchio di Karna e aveva cominciato a morderlo. Il dolore era intenso e, man mano che l'animale penetrava nella gamba, diventava insopportabile, ma lui, che non voleva disturbare il sonno del maestro, non si era mosso né aveva proferito lamento, tollerando con grande forza d'animo. Ma nonostante gli sforzi del discepolo quando il sangue aveva cominciato a uscire, l'odore forte aveva svegliato Parashurama che aveva compreso all'istante cos'era successo. I suoi occhi avevano cambiato subitamente espressione e si erano accesi come il fuoco del sacrificio quando l'hotri lascia cadere il burro chiarificato.
"Mi hai mentito," aveva detto Parashurama con voce ferma, "tu non sei un brahmana. Non puoi esserlo. Solo uno kshatriya avrebbe potuto sopportare un dolore simile. Mi hai ingannato. Non capisci quanto sia grave mentire al proprio maestro?"
"L'ho fatto solo perché volevo diventare tuo allievo," aveva tentato di discolparsi Karna, "e per nessun altro motivo. Ti prego, perdonami, non cacciarmi."
"La colpa di aver mentito al proprio guru è così grave che non posso perdonarti. Tu mi hai strappato con l'inganno i segreti delle armi umane e divine, ma sappi che nel momento in cui ne avrai più bisogno dimenticherai l'arte di utilizzarle e nella tua mente tutto diventerà buio, oscuro. In quel momento, quando sarai di fronte al tuo più odiato nemico, rimarrai inerme e non potrai difenderti."
Maledetto e cacciato, Karna se ne era andato con il cuore gonfio di amarezza.
Qualche giorno dopo un altro sfortunato evento lo aveva colpito. Per errore aveva ucciso la mucca di un brahmana, il quale infuriato l'aveva maledetto:
"Quando ti troverai davanti al tuo più grande nemico, le ruote del tuo carro sprofonderanno nel fango e non riuscirai a sollevarle."
Dopo quel secondo episodio, Karna era ritornato alla casa dei genitori.
Dopo qualche tempo era venuto a conoscenza del torneo che si sarebbe tenuto ad Hastinapura: in quell'occasione si sarebbero riuniti i principi dei casati più rinomati e avrebbero dato spettacolo di abilità marziali: poteva essere la sua grande occasione! Così aveva deciso di andarci.
In questo modo la storia della vita di Karna si congiunge a quella dei Pandava e dei Kurava.
 
22
Il torneo
 Intanto grazie agli insegnamenti del guru, i giovani avevano sviluppato grandi doti guerriere nell'uso di tutti i tipi di armi. Come era tradizione a quei tempi, Drona, Bhishma, Dritarashtra e gli anziani della corte ritennero che era arrivato il momento di darne una dimostrazione al popolo.
Quelle erano occasioni di grande festa, e i cittadini avevano piacere di ammirare la forza di coloro che sarebbero stati i loro futuri reggenti. Per l'occasione era fatto costruire un gigantesco anfiteatro in grado di ospitare centinaia di migliaia di persone.
E arrivò il giorno.
Fu uno spettacolo superbo. A turno i principi si cimentarono in una fantastica mostra di destrezza, forza e coraggio. Il momento più caldo fu senz'altro quando, armati di mazza, si scontrarono Bhima e Duryodhana: neanche il carattere amichevole della rappresentazione riuscì a nascondere i vecchi rancori; per separarli ci vollero parecchi attendenti che, solo dopo grandi sforzi, riuscirono a farli smettere.
Comunque fra tutti colui che fu maggiormente applaudito e che risplendette di luce abbagliante di gloria fu Arjuna, il quale mostrò grandi numeri di abilità, specialmente nell'uso dell'arco, conquistandosi il cuore di tutti. Ma del resto, chi non amava già Arjuna, così ricco di grandi qualità umane e spirituali? Lo spettacolo di sovrumana destrezza durò a lungo.
Ma mentre il pubblico stava tributando al Pandava il meritato applauso, un improvviso fragore proveniente dalle tribune richiamò l'attenzione di tutti. Immediatamente anche il minimo mormorio si placò e tutti si voltarono in quella direzione. Proprio vicino a una delle entrate, si stagliò una figura alta, dall'aspetto possente e dai lineamenti nobili. Era Karna che, con i lunghi capelli biondi, risplendeva come il sole a mezzogiorno. Aveva attirato lo sguardo di tutti su di sé sbattendo le sue ascelle con tanta violenza da provocare un rumore simile al tuono. La sua voce era profonda e quasi melodiosa.
"Se questo torneo," disse guardando Arjuna, "è stato indetto per mostrare il valore, il coraggio e la forza fisica di chiunque ne possegga, allora vorrei dimostrarti che non solo tu, Partha, ne sei ricco, e che al contrario ciò che ci hai fatto vedere sono cose straordinarie solo per il semplice popolo, ma non sorprendono i veri guerrieri valorosi."
Bhishma gli concesse il permesso di esibirsi, e bisbigli di stupore si levarono dalla folla quando questi ripeté con aria di noncuranza le prodezze che Arjuna aveva compiuto; poi disse:
"Hai visto che ciò che hai fatto non è così straordinario? Ora battiti contro di me."
Per nulla intimorito Arjuna si preparò al duello. Karna lo guardava come se volesse incenerirlo, il suo cuore era pieno di rabbia verso coloro che erano kshatriya anche di nascita oltre che per valore. Quando aveva visto Arjuna combattere aveva visto che questi era il migliore di tutti e aveva desiderato sconfiggerlo. Come poteva immaginare che il suo antagonista era in realtà il fratello minore?
In quel momento Bhishma, preoccupato, si alzò e ordinò di fermare tutto. Poi parlò.
"Giovane sconosciuto, come sai, le nostre tradizioni impediscono agli kshatriya di combattere contro chi non sia qualificato in termini di nobiltà. Tu hai lanciato la sfida a un guerriero che tutti conosciamo, Arjuna, il figlio di Pandu. Egli è un principe di nobili origini ed è perfettamente qualificato per un duello. Ma noi non conosciamo te. Se vuoi batterti devi prima dirci chi sei e chi sono i tuoi genitori."
A quelle parole Karna si sentì disperato. Ancora ritornava il solito assurdo problema che gli impediva di esternare ciò che sentiva dentro di sé. Saputa la verità, Bhima lo derise chiamandolo vile auriga.
Ma Duryodhana, che fino a quel momento aveva osservato la scena senza dire una parola, guardando Karna con attenzione si convinse che qualcosa di strano nella sua nascita doveva esserci, in quanto tutto nella sua persona rivelava una certa signorilità aristocratica. Tutti avevano ben visto quel che era in grado di fare con le armi e ciò lo indusse a realizzare che un uomo come quello gli sarebbe tornato sicuramente utile in futuro. Si alzò dal seggio e disse:
"Come può un uomo simile essere nato in una famiglia di suta? Non è possibile. Guardatelo. É evidente che fa parte della nostra casta, anzi si direbbe di origini celestiali. Osservatelo bene: non avete visto cosa ha saputo fare con le armi? Io vi dico che Karna è uno kshatriya e per dimostrarvi che la mia convinzione è totale, lo nomino re di Anga."
La nomina del figlio del suta al trono di Anga causò un enorme clamore. Dopo aver proferito tali parole, Duryodhana condusse Karna con sé. Da quel giorno nacque una saldissima e profondissima amicizia tra i due.
I Pandava intanto si erano già pentiti di aver insultato Karna, poiché a loro era chiaro, come lo era a tutti, che questi sarebbe stato per sempre un loro terribile nemico. Cominciarono a temerlo in modo particolare.
 
23
La vendetta di Drona
 Trascorsi anche i giorni dello spiacevole incidente del torneo, il corso di studi dei principi poteva considerarsi praticamente concluso. Drona si sentiva soddisfatto di tutti, e in particolare dei figli di Pandu che erano diventati veramente dei combattenti eccezionali. Ora il suo sogno sarebbe potuto diventare realtà.
Un giorno riunì a sé i discepoli.
"Tu ci hai insegnato tutto ciò che sappiamo," gli disse Yudhisthira, "e hai fatto così tanto per noi che qualsiasi cosa sarà insufficiente per ripagarti. Ma la tradizione vuole che il discepolo, alla fine dei suoi studi, tenti di sdebitarsi col proprio guru offrendogli quello che egli desidera. Noi siamo in debito con te. Dicci: c'è qualcosa che possiamo fare?"
"Sì, c'è una cosa che dovete fare per me," rispose Drona, "ma prima promettetemi che non esiterete a fare ciò che vi chiederò."
A quelle parole tutti ebbero un momento di esitazione, nel timore che poi non sarebbero stati in grado di soddisfare le sue richieste. Solo Arjuna rispose senza indugi.
"Qualunque cosa tu chiederai io lo farò."
Drona abbracciò e benedisse Arjuna. Poi disse:
"Voglio che mi portiate prigioniero qui ad Hastinapura il re Drupada."
Drona raccontò poi la storia del dissenso con Drupada, e mentre raccontava l'entusiasmo guerriero dei giovani cresceva sempre di più. Non avevano immaginato che avrebbero potuto ritrovarsi così presto su un campo di battaglia.
Non volendo perdere tempo, tutti si prepararono per la spedizione con grande solerzia, e in pochi giorni il nutrito gruppo dei discepoli di Drona si ritrovò alle porte del regno nemico.
Ma le spie di Drupada erano sempre all'erta, per cui messo al corrente della spedizione, il re si era già preparato alla battaglia.
Appena Duryodhana vide in lontananza l'esercito nemico che veniva loro incontro, il suo spirito s'infiammò e decise di attaccare subito, certo delle propria superiorità militare. E senza prendere alcuna precauzione, guidato principalmente dal suo ardore, ordinò agli altri di seguirlo. Ma i Pandava, che avevano sentito parlare di Drupada e dei suoi guerrieri come di soldati dal valore impareggiabile, non condividevano quella strategia.
"Cugino, Drupada non è un soldato da sottovalutare," disse Yudhistihira, "così come non lo sono i generali del suo esercito. Dobbiamo concertare qualche strategia prudente e non lanciarci in questo modo all'attacco."
"Per sconfiggere questo nemico non abbiamo necessità di strategie. Dobbiamo solo attaccare e sconfiggerlo. Ma se avete paura potete aspettarci qui. Noi conquisteremo il gurudakshina per soddisfare il nostro maestro."
Offesi, i Pandava dichiararono che sarebbero scesi sul campo di battaglia solo dopo la sconfitta di Duryodhana. In poco tempo le previsioni dei figli di Pandu si avverarono: i giovani Kurava furono sgominati.
Nel vedere Duryodhana e gli altri tornare feriti e spaventati, i cinque fratelli concertarono un piano e poi andarono all'attacco. Dopo un aspro combattimento, sopraffecero e presero prigioniero il potente e valoroso re.
Il drappello ripartì per Hastinapura.
E i due si ritrovarono di nuovo l'uno di fronte all'altro. Era passato molto tempo dall'ultima volta che si erano incontrati, ma ora la situazione era cambiata: il re non era più sul trono e il brahmana non era più vestito poveramente né chiedeva l'elemosina. Le circostanze si erano invertite. Fu Drona a rompere il silenzio.
"Da ragazzi siamo stati grandi amici, abbiamo giocato insieme e ci siamo divisi tutto quello che avevamo; perché te ne sei dimenticato e mi hai trattato in quel modo? Guarda, sei mio prigioniero, potrei ucciderti e prendere tutto quello che possiedi, ma non lo farò. Per dimostrarti che io ricordo la nostra vecchia amicizia, prenderò solo quello che mi spetta: mi avevi promesso metà del tuo regno e quella prenderò. Il resto sarà ancora tuo."
Drupada fu rimesso in libertà. Ma non riuscì mai a perdonare l'umiliazione subita e cercò sempre il modo di ottenere la propria vendetta.
 
24
Il complotto
 Dopo qualche tempo, Dritarashtra investì Yudhisthira della carica di principe ereditario.
Ovviamente ciò non poteva rendere il re particolarmente felice, in quanto avrebbe preferito che a succedergli fosse stato il figlio Duryodhana; ma certamente non poteva opporsi alle millenarie tradizioni vediche. Infatti, non avendo egli potuto governare a causa della propria cecità, Duryodhana aveva perduto il diritto automatico al trono. In quella circostanza il re sarebbe dovuto diventare il primogenito fra i suoi figli e quelli di Pandu. Yudhisthira era nato un anno prima, dunque aveva pieno diritto al trono. Duryodhana moriva dall'invidia e dal dolore.
In quel periodo Bhima e Duryodhana lasciarono Hastinapura per andare a Dvaraka, dove presero lezioni sull'uso della mazza da Balarama, il fratello di Krishna, perfezionando ulteriormente la loro destrezza guerriera.
E sempre nello stesso periodo anche Arjuna ricevette ulteriori istruzioni da Drona, il quale gli diede l'opportunità di migliorarsi con l'arco.
Un giorno il Pandava chiese al maestro:
"C'è qualcuno su questa Terra che può vincermi in duello?"
"Sì, c'è," rispose Drona. "É Krishna, della razza dei Vrishni. Egli non è un uomo come tutti gli altri, la sua origine è divina e nessuno potrà mai sconfiggerlo. Devi stringere con lui la più solida delle amicizie e sotto la sua protezione anche tu diventerai invincibile."
Trascorse un anno relativamente tranquillo, durante il quale l'amore del popolo verso i Pandava cresceva, così come lievitava l'odio di Duryodhana. Un giorno, allo stremo della sopportazione, fece chiamare Shakuni per parlargli.
"Non riesco più a tollerare la vista di questi maledetti che prosperano ogni giorno di più. Il popolo è dalla loro parte, l'esercito anche, il patriarca Bhishma nutre per loro un grande affetto, e Drona apprezza Arjuna al punto che sembra che esista solo lui. Persino mio padre non ha mai nascosto l'affetto per questi diabolici cugini. Sono stati abili, non c'è che dire, a guadagnarsi la simpatia di tutti."
"Io te lo dissi tempo fa," ribatté Shakuni, "che un nemico va distrutto subito, prima che abbia la possibilità di diventare forte attraverso alleanze. Duryodhana, per il bene tuo e del casato a cui appartieni, devi distruggere i Pandava!"
"Lo so bene che questa è l'unica cosa da farsi, ma abbiamo già provato ed abbiamo fallito. Questa volta dovremo fare le cose con maggiore accortezza perché non possiamo permetterci di sbagliare ancora, o rischieremo di perdere i nostri alleati."
Così con Shakuni, Karna e Dusshasana, Duryodhana progettò un terribile complotto per uccidere i Pandava.
Il primo passo fu di convincere il padre a mandare i nipoti a Varanavata per un periodo di riposo; la cosa non fu difficile, in quanto Duryodhana riusciva quasi sempre ad ottenere da quest'ultimo qualsiasi cosa. Dal canto suo Dritarashtra sospettò che il figlio stesse complottando qualcosa di grave. E tuttavia non volle ostacolarlo. Sentiva questa sua rivalità nei confronti dei Pandava diventare ogni giorno più prepotente e pur di non vederlo soffrire si augurava che Duryodhana riuscisse ad ottenere ciò che desiderava in maniera non violenta.
Ottenuto il consenso del padre, Duryodhana fece costruire una grande casa con materiali tutti altamente infiammabili e mandò sul posto Purochana, suo fedele amico, con l'intenzione di farvi appiccare fuoco appena se ne fosse presentata l'occasione.
A Varanavata i Pandava correvano un pericolo mortale.
 
25
Gli avvenimenti di Varanavata
Giunse il giorno della partenza.
Anche Vidura aveva intuito che c'era qualcosa di strano in quel viaggio organizzato dai nipoti, e che i figli di Pandu potevano essere in pericolo. Avendo così indagato sui retroscena dell'organizzazione del viaggio, era venuto a conoscenza del complotto criminale, ma aveva preferito non mandare tutto a monte in quanto sarebbe stato perfettamente inutile: Duryodhana avrebbe sicuramente atteso un'altra occasione per eliminare i Pandava. Perciò durante il commiato, parlando un dialetto che solo pochi conoscevano, rivolse oscuri messaggi di avvertimento a Yudhisthira, il quale capì e gli sorrise con riconoscenza. Accompagnati da Kunti, i Pandava partirono.
Già messi all'erta da Vidura, non ci misero molto ad accorgersi di come era stata costruita la casa, per cui decisero di non fidarsi di nessuno e di stare sempre all'erta. Durante il giorno e la notte c'era sempre uno di loro che montava la guardia, e ciò rendeva impossibile a Purochana di appiccare il fuoco. Ma quella situazione non poteva durare all'infinito.
"Non possiamo continuare così per sempre," rifletté a voce alta Yudhisthira un giorno, "dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo scegliere se affrontare apertamente i nostri cugini o nasconderci in attesa di momenti migliori."
Bhima era del parere che non avevano bisogno di nascondersi, che potevano con la loro forza fisica attaccare e distruggere i malvagi, ma in realtà non era così facile.
Era vero che essi sarebbero stati in grado di sconfiggere in duello i cugini, ma costoro non erano soli, avevano dalla loro parte gente come Bhishma, Drona, Kripa, Karna, Asvatthama e molti altri alleati che in caso di conflitto si sarebbero uniti a loro. Certamente quasi tutte quelle persone erano più legate sentimentalmente ai cinque fratelli che ai figli di Dritarashtra, ma in caso di conflitto non avrebbero potuto aiutarli militarmente, in quanto debitori verso la corte, nella quale avevano vissuto agiatamente e ricevuto ogni sorta d'onori per tanti anni. In caso di guerra avrebbero dovuto combattere contro i Pandava e ciò precludeva a questi ultimi ogni possibilità di vittoria. Di fatto tutti li apprezzavano, ma nessuno avrebbe potuto aiutarli concretamente.
La situazione era più complicata di quanto sembrava. Erano indecisi sul da farsi.
L'idea giusta arrivò dal buon vecchio zio Vidura. Incaricato in gran segreto da quest'ultimo, un minatore fidato giunse a Varanavata, dove fu accolto con calore dai Pandava.
"Mahatma Vidura mi ha mandato da voi," disse, "e vuole sapere come state."
"Stiamo bene, ma come puoi vedere siamo minacciati da un grave pericolo. Questa casa può bruciare in pochi istanti e noi corriamo il rischio di ardere vivi tutti. Viviamo in uno stato di costante allerta. E poi, cosa fare per risolvere definitivamente la minaccia che Duryodhana rappresenta per noi?"
"Vidura mi ha spiegato la situazione," rispose il minatore, "e mi manda a dire di non preoccuparvi. Egli vi consiglia di nascondervi per un certo periodo, in modo che possiate prepararvi nel caso di una guerra. Appiccate voi stessi fuoco alla casa, in modo che tutti pensino che siete morti mentre invece starete fuggendo nelle foreste."
I Pandava accolsero il consiglio con entusiasmo.
In pochi giorni di duro lavoro, l'esperto scavatore riuscì a costruire un tunnel che conduceva in una fitta boscaglia appena fuori la città. Sarebbero cominciati tempi duri, ma almeno sotto un certo aspetto le cose sarebbero migliorate: con quella mossa Duryodhana si era definitivamente messo allo scoperto.
In una notte senza luna, in cui gli attendenti a insaputa dei Pandava avevano ospitato una donna con cinque figli, essi appiccarono il fuoco alla loro casa e a quella dove in quel momento Purochana dormiva. E mentre le fiamme si levavano altissime e incontrollabili, i Pandava con la madre fuggirono lungo il tunnel e in pochi minuti si ritrovarono all'aperto, nella foresta, in salvo.
Il piano riuscì in pieno, nessuno sospettò niente.
Ad Hastinapura tutti versarono lacrime amare per la morte dei loro cari principi. Anche Vidura e Bhishma, pur sapendo la verità, si videro costretti a piangere e a disperarsi in modo da non destare sospetti. Dritarashtra, il re cieco nel corpo e nello spirito, che aveva capito che non era stata una disgrazia, da una parte fu sinceramente dispiaciuto, ma dall'altra era contento perché in quel modo Duryodhana ora avrebbe potuto ereditare il potere e ritrovare la serenità persa a causa della sua sfrenata invidia.

26
I fratelli Rakshasa

Ma ritorniamo ai Pandava.
La fuga dei cinque fratelli era tanto affannosa che Kunti non riusciva a tenere il passo. Bhima allora prese la madre sulle spalle di modo che poterono ricominciare a correre con maggiore velocità. Percorsero molta strada, quella notte, in quella fitta foresta popolata solo da animali della giungla e da rakshasa.
Qualche ora dopo, quando ritennero di essere oramai lontani da Varanavata, si fermarono per riposare.
"Adesso siamo al sicuro," disse Bhima, "è inutile continuare a correre nella notte. E poi nostra madre è stanca e ha bisogno di dormire. E anche voi dovete riprendere fiato. Vi preparerò dei giacigli cosicché potrete dormire comodamente. Io che non sono stanco farò la guardia."
Questi, da quando era iniziata quell'avventura, era sempre stato stranamente tranquillo e non aveva commentato granché gli sviluppi della loro situazione. Anche in quegli ultimi giorni aveva parlato poco e i fratelli lo avevano colto spesso soprappensiero. Ma in quel momento alla vista della madre che si apprestava a dormire all'aperto in una foresta selvaggia, riparata solo da un albero, non riuscì più a contenere la rabbia.
"Ma come potete essere così calmi? Come riuscite a tollerare una situazione del genere? Non vedete come siamo ridotti? Nostra madre, che merita tutti gli onori, è costretta a correre nella foresta di notte per fuggire da un nemico, come se non avesse nessuno in grado di proteggerla. Noi stessi dobbiamo dormire in terra su un giaciglio di erba alla stregua di mendicanti. Ma perché stiamo fuggendo come se avessimo di fronte un nemico che non siamo in grado di battere? Basterebbe poco per risolvere una volta per tutte il problema causato dall'empio figlio di Dritarashtra: prendiamo le nostre armi e corriamo ad Hastinapura; affrontiamo Duryodhana e i suoi degni compagni faccia a faccia e facciamola finita con loro. Anzi, se voi non volete farlo, farò tutto io da solo. Con la sola forza delle mie braccia distruggerò i nostri maledetti cugini e tutti i loro alleati."
"Non dire queste cose, Bhima," rispose Yudhisthira. "Non possiamo rispondere al malvagio con la malvagità. Dobbiamo cercare di fare qualsiasi cosa per evitare lo scontro armato. Pensaci bene cosa significherebbe una guerra: i nostri parenti, i nostri amici, i nostri conoscenti, tutti verrebbero coinvolti e noi contro di loro non possiamo combattere. Non possiamo uccidere i nostri padri, zii, cugini, nonni, maestri, amici. Sii paziente. La guerra deve essere la soluzione estrema: quando veramente avremo realizzato che non esiste altra via d'uscita, allora combatteremo contro di loro. Solo quando vedremo che non ci resta altro da fare. Solo in quel caso non avremo trasgredito alle leggi divine."
Arjuna, Nakula e Sahadeva si ritrovarono d'accordo con il fratello maggiore. Bhima insistette ancora, valendosi di altri numerosi argomenti, tutti avvalorati da evidenze scritturali, ma non riuscì a convincerli. I suoi fratelli avrebbero fatto ogni cosa pur di evitare una sanguinosa guerra.
Si addormentarono.
Solo Bhima rimase sveglio, seduto su di un masso. Mentre guardava la madre e i fratelli dormire distesi sul terreno, una furia incontrollabile gli bruciava il cuore, così violenta che si mordeva continuamente le labbra al punto da farle sanguinare. Avrebbe dato chissà cosa pur di afferrare la sua mazza e correre ad Hastinapura a massacrare i nemici, ma non poteva disobbedire a Yudhisthira, che era il fratello maggiore e che rispettava e amava sopra ogni altra cosa. Tuttavia quello che aveva imposto al suo corpo non era riuscito a farlo anche al cuore, sempre convinto di volere solo una cosa: la distruzione di tutti i figli di Dritarashtra. E nella sua mente non potevano esserci altro che pensieri di vendetta.
Era notte fonda.
Non lontano dal loro accampamento, vivevano un rakshasa di nome Hidimba e la sorella Hidimbi. Da anni i due spargevano morte e dolore e gli abitanti di quella regione tremavano solo a sentirne parlare. E accadde che, nonostante la lontananza, Hidimba sentì la loro presenza.
"Sento odore di carne umana," disse alla sorella, "ci devono essere degli uomini non lontano da noi. Saranno degli stranieri. Non sanno che questa è la mia foresta? Che folli sono stati ad avventurarsi in un posto come questo senza conoscerlo. Sorella, vai lì subito. Ho fame: dunque uccidili e portami le loro carni."
Prontamente Hidimbi obbedì e corse nella direzione che il fratello le aveva indicato, finché, giunta sul posto, vide cinque figure che dormivano e una che montava la guardia seduta su di un masso: era un uomo, dallo sguardo furibondo, che stringeva i pugni per la rabbia e mormorava terribile minacce. Osservandolo meglio, notò il portamento nobile, il corpo possente e i lineamenti magnifici. In quel momento le frecce di Kamadeva colpirono il cuore della rakshasi che abbandonò qualsiasi pensiero omicida.
"Come si può ammazzare un uomo così bello e nobile?" pensò. "Non riuscirò mai a farlo. Mi piace, mi ha stregato il cuore, e non riesco neanche a pensare di doverlo eliminare. Al contrario, userò le mie arti per convincerlo ad accettarmi come moglie e ad amarmi."
Rapita dall'amore per Bhima dimenticò il demoniaco fratello che intanto diventava sempre più impaziente di gustarsi il prelibato pranzetto procuratogli da Hidimbi. Così, quando dopo i primi attimi di sbandamento costei si ricordò della sua missione, le crollò il mondo addosso.
"Se non gli obbedisco, mio fratello è capace di ucciderci tutti."
Per un po’ fu torturata dall'incertezza, poi il forte sentimento d'amore che aveva inesorabilmente stregato il suo cuore prevalse sulla paura, per cui assunte le fattezze di una avvenente ragazza, uscì dal nascondiglio e andò incontro a Bhima. Quando questi la vide sospettò subito che la fanciulla nascondeva qualcosa di strano.
"Chi sei?" le chiese. "Cosa fa una ragazza giovane come te in una foresta infestata da animali feroci e da rakshasa? Sei tu stessa un rakshasa? Si sa che questi esseri demoniaci possono prendere qualsiasi fattezza, anche quelle di una donna giovane e carina."
Lei non tentò neanche di mentire; sapeva che aveva poco tempo per salvarli dal crudele fratello.
"Io sono Hidimbi, la sorella del rakshasa Hidimba. Mio fratello ha sentito la vostra presenza e mi ha mandata qui per uccidervi, così da potersi sfamare. Ma io, dopo averti visto, non me la sono sentita. Voi correte un pericolo mortale. Vi prego fuggite immediatamente. É già parecchio tempo che sono partita, perciò fra poco mio fratello comincerà ad insospettirsi del ritardo e verrà di persona."
Bhima capì il sentimento che spingeva la rakshasi a metterli in guardia, ma non provò alcuna apprensione.
"Se tuo fratello vuole venire a combattere, che venga pure," rispose scrollando le spalle. "E se vuole cibarsi dei nostri corpi, se li guadagni. Mia madre e i miei fratelli hanno camminato per tutta la notte e sono stanchi; di certo non li sveglierò per un rakshasa."
"Mio fratello ha la forza di centinaia di elefanti," rispose la ragazza alquanto sorpresa da quelle parole, "e nessuno mai è riuscito a vincerlo in duello. Ti prego, tu non sai ciò che dici: fuggite senza perdere altro tempo."
Bhima non restò per nulla impressionato dalla descrizione della forza del rakshasa e continuò a dirle che non aveva alcuna intenzione di disturbare i suoi familiari.
Nel frattempo l'affamato Hidimba cominciava a chiedersi la ragione di tanto ritardo e a scalpitare per l'impazienza; dopo un po’ pensò che fosse meglio andare a vedere di persona cosa stava succedendo. Ci si può immaginare la rabbia e lo stupore del demone quando, giunto sul posto, trovò la sorella che parlava allo sconosciuto, e si avvicinò per sentire ciò che diceva. Quando la sentì metterlo in guardia del pericolo che correvano, un violento colpo d'ira gli offuscò la vista e gridò con furia inaudita:
"Vi ucciderò tutti!"
E si lanciò contro di loro. Vedendo il rakshasa sopraggiungere minaccioso, Bhima si alzò di scatto e gli corse incontro. La collisione dei due corpi fu così violenta che produsse un rumore forte come un tuono. La lotta diventò subito furibonda: una nuvola di polvere circondava i due avversari che si battevano con ogni arma che trovavano a disposizione, alberi e rocce compresi. Il clamore di quella battaglia svegliò i fratelli e la madre che si resero subito conto della situazione. Arjuna voleva intervenire, ma i due corpi erano così vicini l'uno all'altro e si muovevano con tale rapidità che sarebbe stato facile sbagliare bersaglio, per cui decise di lasciar fare a Bhima.
Fu solo dopo diverse ore che il terribile duello si risolse a favore del Pandava. Afferrato il rakshasa in una stretta ferrea, facendo leva sul suo possente ginocchio gli spinse un braccio sul collo e l'altro sulle gambe, spezzandogli la spina dorsale. Hidimba lanciò un grido spaventoso e perì. Era l'alba, il sorgere del sole segnò la fine del combattimento.
Poiché oramai la notte era trascorsa, i Pandava si prepararono a lasciare quel posto e misero insieme le cose che avevano portato con loro. La rakshasi Hidimbi era ancora lì, che guardava Bhima senza dire una parola. E anche quando si furono avviati, lei li seguì, senza parlare. Kunti, che aveva compreso il sentimento della donna, disse al figlio:
"Bhima, quella ragazza ti vuole per marito. É stata lei ad aiutarci, andando contro il volere del fratello. Ora non ha nessuno che può proteggerla e credo proprio che tu debba accettarla e contraccambiare i suoi sentimenti."
"Ma Yudhisthira non è ancora sposato," ribatté Bhima, "e non è corretto che io lo faccia prima di lui senza il suo consenso. Chiedi dunque al mio fratello maggiore, e se lui non avrà nulla da obiettare, io sposerò questa rakshasi."
Yudhisthira diede il suo consenso, e il giorno stesso i due si sposarono e andarono a vivere da soli per un certo periodo.
Dalla loro unione nacque un figlio, Ghatotkacha, che in poco tempo divenne forte come il padre. Dopodiché Bhima salutò la moglie e il figlio e si riunì ai familiari, che ripresero il viaggio.
 
27
Ad Ekachakra
 A quel punto bisognava scegliere il luogo adatto dove nascondersi. Infatti il periodo tranquillo che aveva seguito l'unione di Bhima con Hidimbi non aveva certo cancellato il grave problema che avvelenava la loro esistenza, e cioè la persecuzione del cugino Duryodhana.
Durante il loro cammino in quella foresta intricata incontrarono Vyasa, il quale consigliò loro di recarsi a Ekachakra, un piccolo paese situato a oriente, abitato da gente pia e religiosa, dove avrebbero potuto visitare numerosi luoghi santi. Seguendo, come sempre, i consigli benefici del saggio, il piccolo gruppo si diresse verso Ekachakra.
Quando furono in vista del paese, Arjuna si preoccupò di come si sarebbero dovuti presentare e di cosa avrebbero dovuto fare.
"Ora dovremo travestirci," disse. "Non possiamo farci riconoscere, altrimenti Duryodhana manderebbe subito il suo esercito ad eliminarci. É meglio non affrontarlo ancora così apertamente."
"Ci travestiremo da brahmana poveri," concluse Yudhisthira, "e cercheremo ospitalità presso qualcuno che possa offrircela. Per quanto riguarda il nostro mantenimento, chiederemo l'elemosina come fanno tutti coloro che appartengono a quest'ordine."
Così travestiti, i Pandava e la madre entrarono nel paese e cercarono una dimora dove soggiornare; non tardarono a trovarla presso una famiglia di brahmana semplici e pii, che misero a loro disposizione alcune stanze.
Trascorsero giorni tranquilli.
A parte Bhima che aveva il problema della quantità di cibo sempre troppo scarsa per lui, i Pandava erano contenti e impiegavano il tempo in modo proficuo studiando i testi sacri e andando in questua solo per quel tanto che bastava per la loro sopravvivenza. Ma anche quel periodo di serenità fu ad un certo punto scosso da un dramma che li avrebbe coinvolti.
Accadde che un giorno Kunti udì involontariamente dei lamenti accorati provenienti dalle stanze della famiglia che li ospitava: erano dei pianti così convulsi e disperati che si preoccupò molto e volle conoscerne le cause.
"Cos'è successo di tanto grave? Perché piangete così? Ditemene le ragioni," chiese gentilmente.
"É possibile che non sappiate quale calamità ci sta facendo soffrire? Sono tanti anni che la nostra esistenza è un inferno, e vivere in questa regione è oramai diventato impossibile. Ciò che sta accadendo è terribile," rispose il brahmana che stringeva a sé la moglie e i due figli.
A fatica Kunti riuscì a farsi raccontare ciò che rendeva tanto dolorosa la vita dei nuovi amici.
"Tempo fa un forte rakshasa di nome Baka arrivò a Ekachakra e subito cominciò delle scorribande terribili: entrava nei paesi e ne massacrava gli abitanti, rubando e portando via qualsiasi cosa volesse. Il nostro re tentò di intervenire, ma avendo capito che questi era troppo forte per lui, non tentò neanche di combattere e come un codardo fuggì lontano. A quel punto la situazione era diventata insostenibile: non si sapeva come porre fine alle stragi e alle razzie, quando gli anziani del paese riuscirono a trattare con quel demonio. Alla fine costui ha accettato di cessare le sue azioni nefande, a patto però che ogni settimana una famiglia gli mandi alla caverna in cui vive uno di loro alla guida di un carro colmo di cibo, trainato da otto muli. Come potete immaginare, il rakshasa mangia tutto, compreso il conducente. Questa settimana tocca alla mia famiglia sacrificare qualcuno, e uno di noi dovrà morire."
Tanto dolore colpì Kunti che pensò di sdebitarsi con il brahmana per l'ospitalità ricevuta.
"Per favore, non piangete più," disse loro Kunti, "non preoccupatevi più per il rakshasa. Io risolverò il problema che assilla il vostro paese. Mio figlio andrà al vostro posto, e condurrà il carro fino alla caverna di Baka; poi porrà fine a quell'esistenza malvagia."
Il brahmana era esterrefatto; da una parte avrebbe voluto aggrapparsi a quello che sembrava uno spiraglio di salvezza per sé e per la sua famiglia, ma dall'altra non intendeva mettere a repentaglio la vita del giovane, che pensava fosse un ragazzo comune. Così disse:
"É un suicidio, non posso accettare la tua proposta."
"Mio figlio non corre alcun pericolo," rispose Kunti. "Tu non sai della sua grande forza, che non conosce rivali. Non temere, non ci sono rischi per lui; al contrario è il rakshasa a dover avere paura."
Il brahmana, convinto da quelle argomentazioni, accettò.
La sera stessa la madre raccontò ogni cosa a Bhima.
"Figlio," concluse Kunti, "abbiamo un dovere di riconoscenza verso queste persone che ci hanno offerto asilo per così tanto tempo e anche nei confronti della virtuosa gente di questo paese. Voi che siete kshatriya, guerrieri, avete il dovere di difendere la gente debole e di uccidere tutti coloro che disturbano la pace e la religione. Dunque io credo che dovresti andare dal rakshasa e distruggerlo. Inoltre, tu sei sempre affamato e il cibo che otteniamo mendicando è sempre così scarso: andando da Baka con il carro potresti sfamarti con ciò che è destinato a lui."
Bhima non si tirò indietro, anzi accettò quel compito con esultanza. Era felice di avere in tal modo l'opportunità di fare qualcosa per quella famiglia che era sempre stata tanto gentile con loro, e allo stesso tempo si sentiva anche risollevato alla prospettiva di potersi finalmente sfamare in modo soddisfacente.
Partì il giorno stesso.
Ci volle qualche ora di viaggio per giungere sul posto dove si trovava la caverna di Baka. In un primo momento pensò di causare qualche rumore per richiamare il rakshasa, ma subito ci ripensò.
"Se uccido ora il rakshasa poi dovrò digiunare interi giorni per purificarmi dal contatto con quell'essere immondo. In questo periodo ho mangiato troppo poco per attendere altro tempo, per cui è meglio che prima mangio e poi lo affronto."
Il potente Pandava cominciò a mangiare voracemente l'ottimo cibo, provocando con le mandibole forti rumori. Il rakshasa udì lo strano suono che proveniva dall'esterno e uscì per vedere cosa stesse accadendo. Ciò che gli si prospettò alla vista lo lasciò per un attimo impietrito dalla sorpresa: la vittima, invece di gridare e chiedere pietà come avevano sempre fatto le altre, per nulla preoccupata del pericolo, stava mangiando tutto il suo cibo.
Superata la sorpresa, Baka tuonò contro Bhima e non ottenendo risposta gli si scagliò contro con furia inaudita; ma questi non si scompose e continuò a mangiare finché non ebbe terminato. Poi si alzò e si scatenò. Al termine della furibonda lotta, il rakshasa giaceva a terra privo di vita.
Bhima, allora, trascinò il gigantesco corpo fino alle porte del paese e lo lasciò lì, in modo che tutti potessero vederlo. Poi, prima che qualcuno potesse scorgerlo e sospettare chi in realtà fosse, fuggì. Certamente quella non poteva essere stata un'impresa fatta da un povero brahmana.
Ci fu una grande festa per la morte di Baka e per la fine di quell'incubo.
Grazie a Bhima, ora si poteva vivere serenamente.
 
28
La notizia del torneo

 Dopo quegli avvenimenti i Pandava rimasero graditi ospiti nella casa del brahmana.
Erano passati alcuni mesi, quando un giorno un pellegrino che si trovava di passaggio nel paese, rimase a pranzo presso di loro: in quella occasione gli fu chiesto cosa stesse accadendo di importante in giro. Questi non si fece pregare e cominciò a raccontare di un importante svayamvara che stava per avere luogo nella capitale del regno di Panchala.
"Non so se siete a conoscenza della storia del re Drupada," disse, ignaro della vera identità dei suoi interlocutori, "e dell'odio che nutre per Drona. Dopo essere stato duramente umiliato, egli ha vagato nelle foreste per molti anni, rivolgendosi a numerosi asceti; voleva dedicarsi alle pratiche dello yoga e della rinunzia per acquisire il potere di compiere grandi sacrifici. Sapeva bene che il solo valore militare non avrebbe mai potuto fargli ottenere la vendetta su Drona il quale, grazie a Parashurama, è diventato praticamente invincibile. Drupada voleva guadagnarsi il potere brahmanico, che sgorga dalle pratiche della rinuncia. Dopo tanto tempo e innumerevoli austerità, Drupada è riuscito a celebrare un sacrificio del fuoco in collaborazione con dei monaci molto potenti, e grazie a loro ha avuto due figli, un maschio e una femmina, nati direttamente dal fuoco del sacrificio: Drishtadyumna e la seconda, la meravigliosa Draupadi. Sono personaggi celestiali discesi su questo mondo con una precisa missione: Drishtadyumna con lo scopo di uccidere Drona, e Draupadi con quello di causare indirettamente la morte di milioni di guerrieri. Da allora Drupada ha ritrovato la serenità, perché sa che per la sua vendetta deve soltanto aspettare. Quei due figli hanno sempre arrecato al re grandi soddisfazioni. Ora per Draupadi è arrivato il momento di sposarsi, però il re vuole darla solo a una persona che sia in possesso di qualità realmente straordinarie. Per questo ha indetto uno svayamvara, un torneo, e chi ne riuscirà vittorioso potrà sposare la fanciulla."
Ci fu un momento di silenzio; poi il viandante continuò.
"Ma tutti dicono che esso sia costituito da una prova così difficile che solo Arjuna avrebbe potuto superarla, per cui dopo la sua morte sembra che praticamente nessuno potrà farcela."
L'ospite poi parlò di Draupadi, descrivendola con toni talmente ammirati che i Pandava provarono una così forte attrazione per una simile bellezza che desiderarono andare a vederla.
La sera stessa ne parlarono con Kunti, la quale convenne che la cosa migliore sarebbe stata andare a Kampilya. Dicevano che erano solo curiosi di ammirare Draupadi, ma era chiaro che tutti speravano di averla in moglie.
Fu un viaggio che durò qualche giorno, non privo di avventure e situazioni particolari.
Una notte Arjuna si imbatté nel gandharva Citraratha, con il quale ebbe dapprima un acceso alterco, e poi uno scontro armato. Il valoroso figlio di Pandu ebbe la meglio sull'abitante dei pianeti celesti ma, nonostante il duello, i due diventarono grandi amici. Fu Citraratha, in quell'occasione, che suggerì loro di accettare un maestro spirituale prima di arrivare a Kampilya. In quei paraggi viveva il celebre rishi Dhaumya, e i Pandava furono felici di ottenere l'iniziazione spirituale da quel grande saggio che, a sua volta, decise di seguirli durante i loro spostamenti.
 
29
Lo svayamvara di Draupadi
Dopo alcuni giorni i Pandava arrivarono a Kampilya, la stupenda capitale del regno di Panchala.
Dopo aver trovato ospitalità nella casa di un vasaio, i cinque fratelli cominciarono a vagare per la città, che trovarono pervasa da un'atmosfera di festività quasi frenetica, con fiumane di persone che arrivavano e le strade erano continuamente percorse, tanto che durante il giorno e la notte non erano vuote un solo istante. Da tutta Bharatavarsha arrivava in continuazione gente di ogni tipo. Rallegrata da festoni e bandiere, con gli ampi viali continuamente cosparsi di acqua di rose, pulita e opulenta come non mai, Kampilya sembrava davvero una città celeste. I Pandava, irriconoscibili nel loro travestimento, ad un certo punto si accostarono a uno dei numerosi gruppetti di persone che confabulavano per la strada per ascoltare quello che dicevano.
"Pensate che il nostro re," sosteneva uno di loro, "ha fatto costruire un arco così pesante che in pochi riuscirebbero persino solo a sollevarlo, e così rigido che pochissimi potrebbero tenderlo. Che dire poi di porvi una freccia e farla partire! Inoltre nel suo anfiteatro appena costruito, è stata appesa a una volta una forma simile a un pesce con una ruota che le gira davanti in continuazione e che ha un solo orifizio dal quale si può individuare il bersaglio. E l'arciere dovrà colpire esattamente l'occhio del pesce. Ma non è tutto qui. Pensate che l'arciere non potrà neanche guardare direttamente in alto, ma dovrà mirare guardando il riflesso in una vasca di acqua mossa."
"É una prova praticamente impossibile per chiunque," diceva qualcuno.
"Forse Karna ce la potrebbe fare," ribatteva qualche altro.
"Forse, ma potete essere sicuri che Draupadi non accetterebbe mai di sposare un uomo di casta inferiore. Piuttosto si getterebbe nelle fiamme."
"Eh, Arjuna sicuramente ce l'avrebbe fatta, ma purtroppo è caduto vittima delle losche trame del malvagio figlio di Dritarashtra."
"Il vile Duryodhana..."
"Sapete, in segreto il re ha sempre desiderato dare sua figlia ad Arjuna, che ha ammirato quando tempo fa lo ha affrontato sul campo di battaglia..."
Nei giorni che seguirono i Pandava continuarono a visitare la stupenda e ricca capitale, e trascorrevano il tempo mendicando e studiando le scritture.
Poi giunse l'agognato giorno del torneo.
Arjuna si alzò di buon'ora e dopo aver svolto le sue pratiche spirituali mattutine, accompagnato da Bhima, uscì di casa e si diresse verso il gigantesco anfiteatro dove si sarebbe celebrato lo svayamvara. Già gremito di centinaia di migliaia di persone vocianti sugli spalti, questo costituiva una cornice davvero impressionante al torneo. I due fratelli si guardarono attorno e poterono constatare con meraviglia che erano affluiti a Kampilya quasi tutti i re e i principi della terra. Nelle tribune riservate ai monarchi riconobbero i figli di Dritarashtra con a capo Duryodhana, poi Karna, Shalya, e migliaia di altri.
Ma quando Arjuna volse lo sguardo in direzione del settore riservato ai Vrishni, notò una figura stupenda e ornata da ghirlande e gioielli di vario tipo; non lo aveva ancora incontrato, ma Drona gliene aveva parlato così tanto che non poté non riconoscere Krishna e suo fratello Balarama, accompagnati da amici e familiari. Guardò a lungo quel personaggio divino, colui che tutti dicevano fosse un'incarnazione della Suprema Personalità di Dio. Bhima, invece, avendo scorto Duryodhana nel settore riservato ai Kurava, si sentì ribollire di un'ira insostenibile che solo a fatica riuscì a trattenere.
Poi si fece silenzio: fu annunciata la principessa Draupadi che nata dal fuoco sacrificale per volere dei deva entrò, brillante come un sole. Tutti rimasero senza fiato, colpiti e in piena ammirazione per quella bellezza straordinaria; sulla terra mai si era vista una donna così incantevole e aggraziata. Camminando con portamento che rivelava grande modestia, Draupadi si sedette a fianco del padre. E, come tutti gli altri, in cuor suo Arjuna non desiderò altro che di averla come sposa.
Prima Drupada e poi il figlio Drishtadyumna fecero un breve discorso, spiegando le regole della gara; poi fu introdotto l'arco e la ruota che disturbava il passaggio delle frecce fu messa in moto. A turno potenti re, generali di eserciti e celebri guerrieri si susseguirono l'uno dopo l'altro nel tentativo di colpire il bersaglio: Duryodhana e i suoi cento fratelli, Shakuni, Asvatthama, Bhoja, Virata e i suoi figli, Bhagadatta, Shalya, Somadatta, Jayadratha, Jarasandha e centinaia di altri tentarono di colpire il bersaglio, ma tutti fallirono. Furenti e umiliati, tornavano a sedere, guardando con rimpianto la meravigliosa principessa che aveva irrimediabilmente rubato i loro cuori.
Ad un certo punto ogni rumore cessò e uno strano silenzio, quasi di paura, invase gli spalti: alzatosi dal suo seggio d'oro, Karna, con la sua figura alta e imponente, si faceva avanti con incedere regale. Creduto morto Arjuna, tutti pensavano che egli fosse l'unico arciere al mondo capace di colpire il bersaglio.
Il figlio di Surya impugnò l'enorme arco, lo sollevò senza alcuno sforzo apparente e vi fissò una freccia: poi con la stessa facilità tirò la corda verso di sé. Drupada sentì un tuffo al cuore, aveva paura che Karna riuscisse nell'impresa; non voleva che sua figlia andasse in sposa a lui, in quanto, nel suo intimo, sperava che fossero fondate certe voci di strada che circolavano ultimamente, le quali volevano ancora vivi i figli di Pandu. E anche Draupadi avrebbe voluto sposare Arjuna, del quale aveva tanto sentito parlare come di un uomo favoloso e guerriero invincibile.
D'un tratto si udì echeggiare nell'anfiteatro la voce della principessa, forte e decisa.
"Tutti possono provare a colpire il bersaglio," proclamò, "ma in quanto a sposare il vincitore voglio che si sappia che non accetterò mai un marito appartenente alla classe dei suta."
Karna rimase esterrefatto. Ancora quella maledizione che lo perseguitava! Ancora lo chiamavano figlio di auriga! A quelle parole, dette con lo scopo di scoraggiare Karna, un forte mormorio si levò dalle gradinate e lui, umiliato e deconcentrato, scagliò la freccia con precipitazione, mancando il bersaglio solo per pochi millimetri. Allora, furibondo, gettò l'arco in terra e tornò a sedersi, con il viso sconvolto dalla rabbia. Nel vedere fallire l'arciere migliore del mondo, qualcuno dei monarchi presenti cominciò a innervosirsi.
"Drupada, non capiamo cosa tu abbia avuto in mente mettendoci di fronte a una prova impossibile. Hai visto? Persino Karna non ce l'ha fatta, anche se bisogna ammettere che le parole taglienti di tua figlia lo hanno disturbato. Sembra quasi che tu non voglia darla a nessuno. E se ciò è vero, perché ci hai fatto venire qui?"
"Forse tu volevi solo umiliarci e divertirti alle nostre spalle vedendoci fallire," disse un altro con cipiglio furioso.
"Se così è, meriti sicuramente una punizione."
"Pagherai la tua impudenza con la vita," gridarono altri.
Il nervosismo cresceva sempre di più, tanto che il settore riservato ai re si agitava come un mare in tempesta e si udivano proferire parole furibonde. La piega che la situazione aveva preso fece temere il peggio a Drupada. Qualcuno già metteva mano alle armi.
Ma d'un tratto una voce proveniente dal palco riservato ai brahmana si levò così forte che tutti tacquero; era Arjuna, che chiedeva il permesso di parlare.
"Le leggi che osserviamo da millenni non vietano alle classi superiori di provare a cimentarsi anche in dimostrazioni che non sono pertinenti ai propri ruoli," affermò lui. "Dunque chiedo il permesso di provare anch'io a colpire il bersaglio."
Drupada osservò quello strano brahmana: per appartenere a una classe per la quale lo studio delle scritture e la pratica delle austerità e delle penitenze sono le regole fondamentali, si presentava singolarmente robusto e il suo portamento era fiero e nobile: qualità queste che normalmente si riscontrano negli kshatriya. Le parole pronunciate da Arjuna erano giuste: nessuna legge impediva ai brahmana di cimentarsi in prove di destrezza militare.
"Sei libero di provare, se lo desideri," rispose Maharaja Drupada.
Quando Arjuna scese gli scalini, gli kshatriya presenti bisbigliavano tra loro, irritati: come poteva un debole brahmana riuscire dove i guerrieri più possenti del mondo avevano fallito? Ma quando lo videro afferrare con sicurezza e senza nessuno sforzo l'arco e porvi una freccia, i rumori cessarono d'un colpo, tanto che sembrava che tutti stessero trattenendo il respiro. La freccia partì e, saettando nell'aria, andò a colpire in pieno il bersaglio. E non contento, con una velocità impressionante, il figlio di Indra spedì ben altre sette frecce nello stesso punto, dividendo a metà quella scagliata precedentemente. Draupadi era stata vinta.
Dopo un momento di silenzio incredulo, dagli spalti si levarono clamori di stupore e indignazione. Guardandosi attorno, Bhima capì che la situazione si stava scaldando, così si preparò all'azione.
Draupadi, intanto, guardava quel giovane brahmana tanto forte e abile e qualcosa le suggeriva che quello poteva essere Arjuna, e che i suoi sogni potevano essersi avverati. Si alzò, scese nell'arena e gli pose la ghirlanda al collo: era il segno che lo aveva accettato come marito. A quel punto i mormorii si fecero altissimi: quel gesto aveva scatenato il nervosismo fin troppo represso di tutti. Shalya, Somadatta, Jayadratha e mille altri, sentendosi feriti nel loro orgoglio di guerrieri, inveirono violentemente contro il brahmana, e contro Drupada, che gli aveva permesso di tentare. A decine si alzarono dai seggi e, con le armi in pugno, si riversarono nell'arena come un fiume in piena, vogliosi di combattere. Arjuna e Bhima proteggevano il re e, scontrandosi con i monarchi infuriati, ingaggiavano spettacolari duelli contro Duryodhana e Shalya, e Karna e tutti gli altri.
Trascendentale alle passioni del mondo, libero dalla schiavitù del desiderio e della collera, con gli occhi tanto simili ai petali del fiore di loto, Krishna osservava la scena. Sembrava quasi divertito, e sorrideva: sapeva bene chi fossero quei brahmana in realtà.
La situazione degenerò e gli kshatriya presero a combattersi tra di loro, rispolverando vecchi rancori, rendendo generale la confusione. Approfittando del momento in cui sembrava che la conquista di Draupadi fosse diventata una questione secondaria, i due Pandava, presa l'avvenente donna con loro, uscirono precipitosamente dall'arena e si diressero verso la casa dove erano ospiti.
Arrivati sulla soglia di casa, allegri per la vittoria ottenuta, chiamarono la madre e dissero in tono scherzoso:
"Madre, abbiamo portato un dono!"
"Qualsiasi cosa sia," rispose Kunti dall'interno, "il vostro solenne impegno deve essere di dividerlo in cinque."
A quei tempi la veridicità di parola era uno dei principi fondamentali e uno dei valori a cui si dava maggiore importanza; in quel modo si imparava a controllare la lingua. Perciò, sebbene Kunti non fosse a conoscenza del dono che i figli avevano portato, questi ultimi avrebbero dovuto dividere Draupadi tra loro.
I Pandava erano costernati: come potevano fare? Ne discussero a lungo, e l'unica soluzione sembrava quella di sposarla tutti e cinque; ma era giusto? Rispondeva alle leggi della moralità e di Dio? Decisero di fare in quel modo; ma il dubbio rimaneva. Comunque quando Draupadi seppe che i suoi cinque mariti sarebbero stati i Pandava provò una gioia immensa. Il suo desiderio era stato esaudito.
 
30
L'incontro dei Pandava con Krishna
 Sicuri che quei valorosi guerrieri non potevano essere altri che i Pandava, Krishna e Balarama li avevano seguiti ed erano arrivati alla casa del vasaio proprio nel momento in cui i fratelli stavano ancora discutendo del problema del loro matrimonio.
I due entrarono e dissero:
"Siamo Krishna e Balarama, vostri cugini..."
I cinque fratelli per un attimo li guardarono smarriti, poi si alzarono e li abbracciarono con grande trasporto.
Si ricorderà che Kunti era la figlia di Sura e aveva un fratello di nome Vasudeva, il padre di Krishna e Balarama. Kunti rispose con gioia agli slanci dei nipoti e chiese loro notizie del padre. Si sedettero e parlarono per tutto il giorno. In special modo tra Krishna e Arjuna nacque subito un'amicizia molto solida.
Ma i due fratelli trascendentali non erano stati i soli a capire che quei due brahmana non potevano essere ciò che sembravano. Infatti anche Drupada e Drishtadyumna decisero di indagare. E non vi sono parole per descrivere la felicità dei due quando scoprirono chi veramente era quel brahmana che aveva centrato il bersaglio e aveva sconfitto Karna in duello! Tuttavia tali sentimenti di esultanza si raggelarono e lasciarono il posto allo stupore e allo sdegno non appena costoro seppero che Draupadi avrebbe sposato tutti e cinque i fratelli. A quei tempi era normale che un uomo prendesse più mogli, ma non lo era altrettanto per una donna unirsi a più mariti; dunque la forte perplessità mostrata da Drupada nell'accettare la cosa era più che giustificata. Per amore della verità bisogna ricordare che nella storia vedica c'erano stati già dei precedenti del genere, ma rari e tutti motivati da specialissime ragioni.
Allo scopo di discutere dell'intricata questione che coinvolgeva numerose problematiche etiche e religiose, il giorno dopo i Pandava si recarono a corte. Tuttavia la situazione si risolse più facilmente del previsto grazie all'arrivo di Vyasa, il quale raccontò episodi della vita precedente dei Pandava e di Draupadi. Alla fine del racconto il monarca di Panchala acconsentì alle insolite nozze, che furono celebrate pochi giorni dopo.
Ora i Pandava erano usciti dalla situazione di pericolo, non avevano più bisogno di nascondersi; avevano validi alleati, come Drupada e i suoi figli, Krishna e tutti i Vrishni. Con amici di questo calibro potevano tranquillamente mirare a riprendersi il regno che spettava loro di diritto.
 
31
L'apparente riconciliazione
 La notizia che i figli di Pandu erano vivi e che il brahmana che aveva vinto Draupadi altri non era che Arjuna si diffuse velocemente.
Ad Hastinapura ci furono momenti di autentico panico; Duryodhana, terrorizzato, cominciò subito a fare piani per annientarli, ma questa volta Vidura, Bhishma e Drona non solo lo smascherarono pubblicamente insieme ai suoi amici, ma riuscirono anche a portare solidi argomenti per convincere Dritarashtra a fare la pace con coloro che, in fin dei conti, erano i figli di suo fratello minore che egli aveva tanto amato.
Tuttavia Duryodhana fu molto chiaro nello specificare che fra loro non avrebbe mai potuto esserci un rapporto di fratellanza o di amicizia. Dunque il problema era di accontentare entrambi. Non era facile.
Dritarashtra allora indisse un consiglio generale per tentare di trovare una soluzione alla crisi che sarebbe potuto diventare gravissima. Tutti i personaggi più importanti e rispettati della corte Kurava vi parteciparono ed esposero le loro opinioni.
Duryodhana diede inizio al simposio sostenendo: "I Pandava sono i nostri nemici, lo sono sempre stati. E ora che hanno trovato alleati come i Vrishni e i Panchala si scateneranno contro di noi e tenteranno di distruggerci. Noi dobbiamo capire che costituiscono una continua minaccia, per cui dobbiamo utilizzare tutte le armi a nostra disposizione al fine di renderli più deboli. Io propongo di corrompere i loro alleati e tentare di seminare dissensi fra i Pandava stessi; solo così li avremo in pugno."
Karna disse: "Io sono d'accordo con Duryodhana quando dice che i Pandava sono i nostri nemici giurati e che vanno combattuti; tuttavia non convengo con i metodi che egli suggerisce. Un guerriero veramente valoroso non ha bisogno di corruzione né di seminare dissensi tra i suoi nemici, anche perché noi siamo militarmente più forti. Dunque comportiamoci da valorosi, scendiamo sul campo di battaglia e distruggiamoli. Solo così nei secoli futuri il nostro nome non sarà macchiato dall'infamia."
Bhishma, Vidura e Drona dissero: "Sbagliate quando sostenete che i figli di Pandu sono nostri nemici; essi fanno parte della nostra stessa famiglia. É vero che essi sanno che più di una volta avete attentato alle loro vite, ma è anche vero che sono molto virtuosi; e se noi cominceremo ad agire secondo giustizia, pur di non versare sangue fraterno sono disposti a dimenticare i torti subiti. Dobbiamo fare pace, e restituire ciò che spetta loro di diritto."
Asvatthama disse: "I Pandava sono tra i miei amici più cari, e quindi non condivido le intenzioni bellicose di Duryodhana e di Karna. Non dimentichiamo la lealtà e la giustizia, i valori sui quali si poggia la nostra vita. Non scendiamo al livello più basso; ricordiamoci dei principi della verità."
E così come Bhishma, Drona, Vidura e Asvatthama, tutti i monarchi e i saggi giusti e virtuosi si pronunciarono contro i vili propositi del malvagio principe. E Duryodhana capì di essere sorretto solo da Karna, da Shakuni e dai suoi fratelli; in realtà neanche questi ultimi erano veramente d'accordo, davano ragione a lui solo perché gli erano affezionati. Duryodhana era isolato.
"Non importa cosa si deciderà qui," disse a voce bassa a Karna. "In caso di guerra tutti saranno costretti a combattere per me, anche se a loro non farà piacere."
Alla fine Dritarashtra convenne: "Avendo ascoltato tutti voi, io credo che la pace con i Pandava sia la migliore e la più giusta delle soluzioni. Vidura stesso andrà a Panchala per parlare ai nostri nipoti e per invitarli qui, ad Hastinapura, per avere un colloquio chiarificatore."
Duryodhana non replicò: aveva realizzato che in quel momento gli sarebbe convenuto maggiormente nascondere le proprie intenzioni bellicose; anche se fosse stato costretto a una tregua, pensò che in tempo di pace avrebbe potuto trovare meglio la maniera di distruggerli senza correre rischi.
Vidura partì il giorno stesso e fu ricevuto da tutti con grande affettuosità e rispetto. Appena arrivato aveva trovato gli eserciti Vrishni e Panchala in stato di allarme, pronti a cominciare una guerra nel giro di pochi giorni. Anche Krishna era lì, con tutti i suoi familiari.
"Ho un messaggio da parte di vostro zio Dritarashtra," disse il saggio Vidura dopo i saluti. Dice: "Sono contento che siete ancora vivi, ma ho saputo che covate desideri di vendetta, tanto che addirittura volete combattere contro di noi. Sono stupito: come possono uomini retti come voi giungere a simili propositi? Venite ad Hastinapura e cerchiamo di risolvere i problemi che sono sorti tra voi e mio figlio Duryodhana."
Quel messaggio irritò i Pandava: lo zio parlava di pace ora, ma non aveva mai fatto niente per impedire al figlio di attentare alle loro vite, né per frenare il suo odio. E ora che avevano ottenuto degli alleati forti parlava di pace, auspicava una soluzione pacifica. Ciò nonostante Yudhisthira non voleva inutili spargimenti di sangue, per cui decise di accettare l'invito.
Pochi giorni dopo i Pandava partivano alla volta di Hastinapura.
Nell'antica città capitale dei Kuru vennero ricevuti con tutti gli onori e con grande affetto. Soprattutto, i Pandava apprezzarono le manifestazioni di simpatia da parte dei cittadini che ancora li amavano incondizionatamente e non avevano mai accettato i sentimenti e le vili strategie di Duryodhana.
 
32
La divisione del regno

 Quando però Dritarashtra introdusse con modi paterni il suo discorso di benvenuto, Yudhisthira non poté fare a meno di scorgervi espressioni false. Tuttavia egli rispose senza astio, nascondendo la sua preoccupazione circa le proposte che in seguito lo zio avrebbe avanzato; per lui la cosa più importante era di porre fine a una contesa che oramai durava da troppo tempo, per cui in quel momento avrebbe accettato qualsiasi cosa a patto che lui e suoi fratelli non fossero esclusi dai loro diritti di nascita.
L'orazione di Dritarashtra fu lunga e piena di parole cortesi, finché non si arrivò al punto cruciale della questione: il possesso dei territori.
"Tu, Yudhisthira, sei il più anziano dei figli miei e di Pandu, e dunque ti spetterebbe di diritto l'intero territorio che è sempre stato dei nostri avi. Ma come desiderate governare voi fratelli, anche Duryodhana lo vuole e non sono riuscito a trovare argomenti validi per convincerlo diversamente. D'altra parte lui ha paura che voi vogliate privarlo di questa prospettiva tanto che questo sentimento nel corso degli anni si è tramutato in astio. Io credo sia saggio accontentare tutti dividendo il regno, cosicché da una parte regnerete voi, e dall'altra Duryodhana. Questa è la mia proposta; meditateci sopra e poi ditemi cosa ne pensate."
Accettare tale suggerimento avrebbe significato per Yudhisthira privarsi di parte del suo impero, ma egli fu entusiasta dell'idea. Tutti gli uomini giusti presenti all'assemblea applaudirono.
"Noi accettiamo la tua proposta come se fosse un ordine proveniente dal nostro stesso padre," disse Yudhisthira. "L'unica cosa che desideriamo è di espletare in pace i nostri naturali doveri di regnanti. Se la divisione del regno può assicurare ciò ed evitare un conflitto armato, noi siamo felici di prenderne solo metà."
E Dritarashtra disse:
"Tutto il territorio che si estende a sudovest di Hastinapura sarà vostro, mentre tutto il resto rimarrà a Duryodhana."
A queste parole nessuno riuscì a frenare un tremito di rabbia; non era un mistero per nessuno che la regione affidata ai Pandava fosse praticamente un deserto, senza grandi città, né acqua, né vegetazione, mentre la zona destinata a Duryodhana era quella più florida e sviluppata.
Dritarashtra cercava di imbrogliarli, ma stranamente né Yudhisthira né Krishna dissero nulla, e anche gli altri tacquero. Il figlio di Dharma accettò con parole gentili, ringraziando di cuore.
Quel giorno stesso, alla presenza santa di Vyasa, Yudhisthira fu incoronato re, e pochi giorni dopo i Pandava partirono alla volta del loro territorio.
La capitale del regno era Khandavaprastha, una piccola città che nel passato era stata la capitale dei Kuru. Una volta era stata così opulenta e florida che era ancora comune il detto "ricca come Khandavaprastha", sennonché un giorno un rishi le aveva scagliato contro una disastrosa maledizione che l'aveva fatta deperire al punto da ridurla in un piccolo paese circondato da uno sterile deserto. Allo stato attuale, tutt'intorno non si vedeva altro che desolazione; da secoli niente cresceva più in quel luogo maledetto.
Ma i Pandava non si sentirono scoraggiati e si misero al lavoro. Il principe di Dvaraka, Krishna, che aveva gli occhi tanto simili ai petali del fiore di loto, in meditazione chiamò Indra e gli chiese di far cadere grandi piogge allo scopo di rendere fertile il terreno; e in effetti in pochi giorni l'intero territorio di Khandava fu inondato da continue piogge. In onore e ringraziamento al deva, la capitale sarebbe poi stata chiamata Indraprastha. Poi Krishna chiamò Vishvakarma, al quale chiese di costruire meravigliose città, con stupendi palazzi, fontane e prati. La notizia che a Khandava qualcosa di incredibile stava accadendo cominciò a richiamare tanta gente e persino numerosi deva, tutti desiderosi di contribuire alla realizzazione del fantastico regno dei Pandava.
Non passò molto tempo che dove prima si estendevano aridi territori, ora si poteva ammirare un luogo pieno di verde, di fiumi, laghi e fantastiche città.
Le incredibile notizie che riguardavano il nuovo impero dei Pandava si diffusero velocemente e fiumane di persone, provenienti da ogni parte del mondo, vennero, sicure che nel regno dei virtuosi fratelli avrebbero potuto vivere senza privazioni materiali né spirituali. Presto Khandavaprastha pullulò di cittadini.
Arrivò il giorno dell'inaugurazione.
Vyasa stesso e molti altri saggi dal cuore privo di ogni attaccamento a questo mondo vennero personalmente a dirigere la cerimonia e a recitare auspiciosi mantra vedici.
Quando tutto fu terminato, Krishna e i Vrishni si congedarono e tornarono a Dvaraka. A Indraprastha molti sapevano chi era Krishna e l'amavano con tutto il loro essere, così al momento della partenza si sentirono come abbandonati. Ma nelle loro menti egli restava sempre presente. Per i Pandava cominciò un nuova vita di serenità, i tempi terribili di Varanavata parevano trascorsi da millenni.
 
33
Arjuna in pellegrinaggio
Trascorsero anni: ormai sembrava che nulla potesse disturbare il divino dominio dei cinque fratelli, che regnavano sui loro sudditi con tale rettitudine e giustizia che mai nessuno trovava niente da lamentarsi neanche per le cose più insignificanti.
Un giorno Narada, il figlio diretto di Brahma, celebre saggio celestiale, giunse in visita a Indraprastha e chiese a Yudhisthira di poter parlare con tutti i Pandava. Dopo il puja, i sei si appartarono.
"Ciò che voglio dirvi è che questa pace con i vostri cugini è solo apparente. Essi non vi hanno ancora perdonato il fatto di essere superiori a loro in qualsiasi cosa, né lo faranno mai. Duryodhana è colmo di invida e di odio; non riesce a spiegarsi da dove prendiate le capacità di fare le cose più impossibili. Non potrà mai capire che l'origine della vostra forza è la purezza di cuore e la devozione al Signore Supremo che ora è presente in questo mondo. Duryodhana tutto il giorno soffre di una rabbia senza limiti, ancor più ora che avete saputo trasformare Khandavaprastha in un florido regno. Anche se tace e non complotta apertamente contro di voi, non dovete illudervi perché lo farà appena ne avrà l'opportunità. In questi giorni state assaporando un momento di felicità, ma è una cosa temporanea; dovrete ancora sopportare dolori e disagi."
"Ma come possono danneggiarci, ora?" chiese Yudhisthira. "Abbiamo un florido regno, un esercito forte e ben addestrato, degli alleati fedeli. Cosa potrebbero ideare?"
"Loro sanno bene che nel passato non sono riusciti a distruggervi perché siete sempre stati uniti, ed ora che siete diventati più potenti risulterà ancora più difficile. La strategia di Duryodhana sarà questa: cercherà di creare ragioni di dissenso per farvi litigare e rompere questa vostra unione."
"Ma noi in tutta la nostra vita non siamo mai stati l'uno contro l'altro," disse il figlio maggiore di Kunti, "non abbiamo mai litigato. Come sperano di riuscirci loro?"
"Draupadi è l'unica ragione per cui potrebbero sorgere dissensi," rispose Narada, "per quanto grande sia l'amore che nutrono l'uno per l'altro, gli uomini che hanno in comune l'attaccamento per la stessa donna rischiano ad ogni attimo di litigare e distruggersi fra di loro. Ricordate come Sunda e Upasunda si uccisero per il possesso di Tilottama? Perciò prendete precauzioni e non fidatevi ciecamente dell'amore fraterno che vi unisce."
Un consiglio dato da un personaggio come Narada non poteva certo essere minimizzato.
Anche dopo che fu partito, i Pandava continuarono a discutere della cosa per trovare una soluzione. Bisognava evitare che qualcuno di loro, vedendo il fratello in compagnia di Draupadi, diventasse geloso e cominciasse a covare pensieri e sentimenti foschi.
"Una soluzione," concluse Yudhisthira, "potrebbe essere questa: nessuno di noi dovrà più vedere Draupadi in compagnia di un altro. Ogni settimana starà con uno di noi a turno, e se qualcuno trasgredirà questa regola andrà in esilio per dodici anni a visitare i luoghi santi."
A tutti sembrò una buona idea e da quel giorno quella regola fu osservata con rigore. Ma evidentemente le cose non dovevano andare così lisce per i Pandava neanche in quel periodo alquanto sereno.
Un giorno, infatti, mentre Draupadi era con Yudhisthira, un brahmana arrivò alla reggia e chiese di parlare urgentemente ad Arjuna, che lo ricevette immediatamente.
"Sono stato derubato delle mie mucche," si lamentò, "che sono la mia unica ricchezza. Per favore, fai presto, corri a recuperarle e punisci i criminali."
Sollecitato fortemente dal brahmana, Arjuna decise di inseguire all'istante i ladri, ma si ricordò che aveva lasciato le armi nella sala dove Yudhisthira era in compagnia di Draupadi. Il virtuoso Pandava era incerto su quale fosse la cosa giusta da farsi.
"Se non recupero le mucche del brahmana, il re ed io stesso saremo aspramente criticati per non aver assolto ai nostri doveri. Se invece entro nelle stanze di Yudhisthira potrò restituire la refurtiva ma dovrò andare in esilio. Devo farlo, non c'è alcun dubbio che fra i due mali il primo è sicuramente il peggiore."
Riprese le armi, Arjuna inseguì i ladri e recuperò con facilità la refurtiva. Poi tornò a corte.
"Cari fratelli," disse, "ricorderete senz'altro il nostro accordo che era più di un voto. Oggi non sarei dovuto entrare nelle stanze di Yudhisthira, per cui andrò via per dodici anni. Impiegherò bene questo periodo: viaggerò per i luoghi più santi di Bharatavarsha e starò insieme con grandi saggi dai quali imparerò molte cose."
I suoi fratelli erano costernati.
"Ma non hai l'obbligo di partire," disse Yudhisthira. "Tu sei entrato nella sala per prendere le armi. Dovevi proteggere le proprietà del brahmana, che è il primo dovere di uno kshatriya. Non sei entrato per motivi di gelosia o altro."
"Voi sapete bene quanto sia importante per uno kshatriya dire sempre la verità e non mancare mai alla parola data," ribatté Arjuna. "Se ciò accadesse anche una sola volta la sua reputazione sarebbe rovinata e nessuno lo rispetterebbe più. E se il popolo non stima i suoi governanti ogni cosa si degrada e la pace è distrutta. Noi abbiamo promesso: se per affetto familiare non manteniamo il nostro patto la gente dirà che siamo deboli, che siamo troppo attaccati ai piaceri della famiglia e ci criticherà. Non possiamo permetterci un simile rischio. Non preoccupatevi. Questi anni non saranno gettati via, imparerò cose che poi ci potrebbero tornare utili."
E il figlio di Indra partì per quel lungo viaggio.
Sebbene facesse soste solo di rado, ebbe modo di incontrare tante persone e conoscere nuovi usi e costumi.
Pochi mesi dopo la partenza da Indraprastha, infatti, Arjuna incontrò Ulupi, la figlia del re dei naga, con la quale si sposò ed ebbe un figlio di nome Iravan. E in seguito, dopo che ebbe ripreso il cammino, dirigendosi verso nordest, nel versante orientale delle Himalaya entrò nella città di Manalur, dove conobbe Citrangada, la figlia del re Citrasena. I due si innamorarono e si sposarono. Dalla loro unione nacque un bambino che chiamarono Babruvahana. Dopo qualche mese trascorso in compagnia della principessa di Manalur, Arjuna riprese il suo pellegrinaggio.
Da allora erano passati alcuni mesi quando Arjuna arrivò a Dvaraka, la città del suo grande amico Krishna. 
 
34
Arjuna e Subhadra

Non vi era giunto per caso. Aveva dei motivi. Quello principale era certamente il forte desiderio di rivedere il suo più caro amico, ma si sentiva anche mosso da un'enorme curiosità: sia ad Indraprastha che durante il tirthayatra, infatti, aveva sentito parlare da molti della sorella minore di Krishna, della quale tutti dicevano essere bellissima e di magnifico carattere. Egli voleva approfittare del suo arrivo a Dvaraka per vederla. Proprio per questo suo desiderio preferì non farsi riconoscere e si travestì da yati.
Così camuffato entrò a Dvaraka, dove passò inosservato. Ma Krishna, che è l'onnisciente Signore Supremo, sapeva dell'arrivo dell'amico e anche della sua intenzione di conoscere Subhadra, per cui andò a trovarlo nella modesta dimora dove aveva preso alloggio. Quando Arjuna lo vide entrare si alzò per abbracciarlo, felice di rivederlo dopo tanto tempo di lontananza.
I due parlarono a lungo, di tante cose, e anche di Subhadra.
"Sì, io sapevo che volevi conoscere mia sorella," disse Krishna, "e credo di non sbagliare se ti dico che anche a lei farebbe piacere. Da parte mia non ho niente in contrario, ma credo che dovremo risolvere un problema serio: Balarama ha già promesso Subhadra al suo discepolo Duryodhana, e ciò non ha fatto piacere né a me né a lei. Non sarà facile convincerlo a ritirare la parola data."
"L'unica cosa da fare," continuò Krishna, "è che domani stesso tu la rapisca e la porti via con te. Io stesso mi occuperò poi di placare le ire del mio focoso fratello. Anche se all'inizio lo considererà un atto irrispettoso, sii sicuro che poi ti perdonerà e che riotterrai la sua stima e amicizia."
E così accadde.
Arjuna rapì la bellissima Subhadra e Krishna convinse Balarama e gli altri Vrishni a perdonare il Pandava e a rinunciare alle loro intenzioni di vendetta.
Il matrimonio fu celebrato e i due vissero a Dvaraka per il rimanente periodo di esilio di Arjuna. Quando questo fu terminato, una lunga processione di Vrishni accompagnò gli sposi a Indraprastha.
Appena le fu presentata Subhadra, Draupadi ebbe un impeto di gelosia, ma ben presto le due principesse finirono col diventare buone amiche. Tutti festeggiarono il ritorno di Arjuna.
Dopo un po’ Subhadra diede alla luce Abhimanyu. Nello stesso periodo Draupadi partorì un figlio per ogni marito: da Yudhisthira nacque Prativindhya, da Bhima Sutasoma, da Arjuna Shrutakarma, da Nakula Satanika e da Sahadeva Shrutasena.
 
35
Il rogo della foresta di Khandava
La nascita dei ragazzi portò una ventata di grande felicità nel regno dei Pandava. Tutti erano contenti e in ogni città e villaggio di Indraprastha si festeggiò per giorni l'avvenimento.
I Vrishni erano ripartiti, ma Krishna era rimasto. La sua presenza conferiva alla corte un'atmosfera di spiritualità e di gioia, e specialmente Arjuna, con il quale trascorreva la maggior parte del tempo, era felice della sua presenza. Un giorno i due amici stavano passeggiando lungo le rive dello Yamuna, nella vicinanze della foresta di Khandava e stavano parlando dell'infanzia di Krishna, dei suoi genitori adottivi Yashoda e Nanda, dei suoi amici e familiari, delle gopi, prima fra tutte Radharani, quando un brahmana dallo splendore simile a quello del sole si avvicinò a loro. Il suo portamento era così solenne, la sua figura così alta e maestosa che i due si alzarono in piedi e lo salutarono con rispetto.
"O brahmana che splendi come un deva," lo salutò Krishna, "dicci cosa possiamo fare per te."
"Sono malato," rispose lui. "Da tanto tempo soffro di un grave male e i medici mi hanno assegnato una dieta per ritrovare la salute; ma non trovo nessuno che sia in grado di fornirmi gli alimenti di cui ho bisogno. Voi siete guerrieri famosi in tutto il mondo e il primo dovere della vostra classe sociale è di sostenere e aiutare i brahmana. Vorreste aiutarmi a trovare gli alimenti di cui necessito?"
"Certamente, siamo disposti a fare qualsiasi cosa per te," dissero i due. "Cosa dobbiamo fare?"
Lo strano personaggio decise di rivelare la sua vera identità.
"Cari amici, io non sono un brahmana, ma Agni, il deva del fuoco, colui al quale i brahmana offrono tutti i sacrifici vedici. Vi racconterò come è accaduto che mi sono ammalato.
"Molto tempo fa il re Svetaki celebrò cinque sacrifici del fuoco che durarono dodici anni, e fece versare nelle fiamme una tale quantità di ghi che gradualmente le mie condizioni di salute si sono rovinate. Da quel giorno smisi di ardere negli hotra vedici, per cui i brahmana si allarmarono al punto da spaventarsi: non ardendo il fuoco sacro l'intera società soffriva per mancanza di virtù e di necessità materiali. Allora Brahma intervenne e mi disse: "Devi ricominciare a bruciare!" Io gli risposi che ero malato e che non potevo. E lui ribatté: "Per ritrovare la salute devi divorare con le tue fiamme la foresta di Khandava".
"Così sono venuto subito in questo luogo e ho cominciato a causare incendi. Ma sfortunatamente qui vive con tutta la sua famiglia il serpente Takshaka, che è un grande amico di Indra, per cui ogni volta che tento di bruciare Khandava lui fa cadere fiumi di acqua che spengono le mie fiamme e io sono costretto a ritirarmi. Da allora la mia salute è andata peggiorando sempre più e devo assolutamente guarire. Io ho bisogno di due potenti guerrieri che sappiano tenere lontano Indra dalla foresta: solo così avrò la possibilità di divorarla. Aiutatemi, e ve ne sarò riconoscente."
Senza indugio, i due amici accettarono di aiutare Agni.
"Però se dovremo combattere contro i deva," dissero, "avremo bisogno di armi. Con queste che abbiamo non riusciremmo ad affrontare una simile battaglia. Procura delle armi adatte, dunque."
Agni fu d'accordo e chiamò Varuna; i due deva consegnarono agli amici trascendentali armi celestiali con le quali avrebbero potuto affrontare qualsiasi nemico. Ad Arjuna offrirono l'arco Gandiva e una faretra miracolosa che non esauriva mai le sue scorte di frecce, nonché uno strabiliante carro da guerra, mentre Krishna ricevette da Agni il disco Sudarshana. Ottenute queste ed altre armi, i due si sentirono pronti per la difficile impresa. A quel punto Agni si sentì già vittorioso e si gettò nei boschi di Khandava, espandendo le sue furiose fiamme. In pochi minuti la foresta divenne un inferno di grida di uomini e animali, che si mischiavano al crepitio delle fiamme e al fragore degli alberi che cadevano; il rumore era addirittura assordante.
E mentre il fumo saliva altissimo, nel cielo cominciarono ad addensarsi pesanti nubi nere, che aumentarono sempre di più con il passare dei minuti; poi i primi lampi, le prime gocce. Indra stava arrivando.
Krishna e Arjuna si prepararono al combattimento e quando la pioggia cominciò a cadere, i due inondarono il cielo di armi infuocate, prosciugando le nuvole. Poi la battaglia si fece feroce: i deva contrattaccarono, fino a che il duello divenne diretto. Dopo una violenta battaglia Indra fu sconfitto.
Egli, che durante il combattimento aveva ammirato il magnifico valore del figlio, si ritirò lasciando ardere la foresta. Del resto Takshaka era altrove e non correva alcun pericolo.
Khandava bruciò per giorni e giorni, ridando la salute ad Agni.
Quando il furore delle fiamme si placò, Krishna e Arjuna si rinfrescarono con soddisfazione nelle acque chiare dello Yamuna.