"Pange lingua"

Carmina Burana secolo XIII

STORIA  DELL'ALCHIMIA

 


 

Parte III

 

dionigi zachaire, nato nel 1510 da una famiglia nobile della Guienna, pervenne molto tardi alla scoperta della pietra filosofale. Ebbe il torto di lavorare per anni e anni attenendosi a tutte le ricette, che gli alchimisti exoterici si passavano allora l'un l'altro. Non v'è dunque da stupire s'egli perde quasi tutto il suo patrimonio, dopo una quantità d'insuccessi alchimici.

Trovò alfine la vera strada nel 1546. Il giorno d'Ognissanti entrò a Parigi, comprò i trattati dei principali maestri, La turba dei filosofi, Le opere di Raimondo Lullo e di Trevisano, poi si chiuse in una cameretta e studiò quegli autori, senza comunicare con alcuno dei garzoni di laboratorio della capitale francese. Dopo diciotto mesi di lavoro solitario, cominciò a frequentare i veri filosofi. Costoro l'iniziarono progressivamente ai loro processi. La sua costanza fu, alla fine, coronata da splendido successo; lo studio assiduo di Raimondo Lullo gli permise di afferrare il segreto tanto desiderato. Zachaire eseguì la trasmutazione a Tolosa, durante la celebre peste del 1549. Si suppone sia morto assassinato nel 1550, durante un viaggio in Germania.

La sua Filosofia naturale dei metalli è un'opera curiosissima e utile, perché distorna dalle vane ricerche che fanno perdere tempo e denari. Però da poche spiegazioni precise sulla sequela delle diverse operazioni dell'opera.

 

giovanni dee [1] - (in origine Dey, Nero) - nacque a Londra il 13 luglio 1527 da una famiglia di nobile e antica prosapia del principato di Galles. Suo padre, Orlando, lo fece educare per bene a Londra, e poi a Chelmsford (Essex) e a Cambridge. Ottenuto il diploma di maestro d'arti, Giovanni si reca, nel 1548, a Louvain, dove insegna diritto civile, mentre segretamente si da allo studio delle scienze occulte. Nel 1550 si reca a Parigi e vi professa gli elementi di geometria d'Euclide. Salita al trono Maria, sorella maggiore d'Edoardo VI, egli torna, l'anno appresso, in Inghilterra; ma, accusato di avere attentato con arti magiche alla vita della regina, è imprigionato e giudicato prima dalla Camera stellata di Westminster che lo proscioglie e poi da un tribunale ecclesiastico, che lo condanna. Il 29 agosto 1553 la regina Maria lo fa scarcerare ed egli allora, lasciato l'insegnamento pubblico, si consacra allo studio delle antichità inglesi e raccoglie preziosissimi cimeli. Nel 1558 in occasione dell'ascensione al trono di Elisabetta, secondogenita d'Enrico VIII, Dee è chiamato in corte per un'operazione d'astrologia giudiziaria. Annoiato della vita cortigianesca nel 1563 lascia di nuovo la patria e viaggia per il Belgio, la Germania e l'Austria-Ungheria. Nel ritorno si ferma ad Anversa, per terminare la Monade geroglifica, che dedica all'imperatore Massimiliano II (1527-1576). Tornato in Inghilterra, si stabilisce a Greenwich, residenza estiva della regina, e s'intrattiene con lei sulla pietra filosofale. Preso nuovamente dal desiderio di viaggiare, nel 1571 si reca nella Lorena, dove si ammala. Elisabetta gli manda due medici e lo fa tornare in Inghilterra. Allora si stabilisce a Mortlake, sulla riva destra del Tamigi, a otto miglia da Londra, dove la regina si reca d'estate a respirare aria pura. Ivi s'ammoglia e vive alcuni anni tranquillo. Essendogli morta la moglie nel 1575, entra nelle grazie della regina, che spesso si reca a visitare la sua famosa biblioteca e le celebri collezioni raccolte. Dee frattanto si dedica alla ricerca degli arcani della filosofia occulta e sopra tutto allo studio del problema dell'elisire filosofico.

Al principio del 1580 il mago inglese s'unì in società con un giovane venticinquenne, detto Kelley, per studiare l'occulto; costui l'accompagnò sempre in tutti i viaggi e fu cagione delle sue sventure. Il 22 dicembre 1581 Kelley e Dee cominciavano insieme le operazioni magiche. Il 21 novembre 1582, durante una seduta, un angelo recò a Dee uno specchio magico (una sfera di cristallo), del quale egli si servì per scrutare il futuro e per interrogare gli spiriti sul modo di contenersi nelle diverse contingenze della vita.

Credendo d'essere perseguitato, il celebre cabbalista inglese, il 21 settembre 1583, fuggì da Mortlake con la sua seconda moglie Jane Fromond, (sposata il 5 febbraio 1578), con suo figlio Arturo, allora di quattr'anni, con gli altri suoi bambini, con Kelley e sua moglie (sposata in quello stesso anno) e coi servi, insieme con un tale Alberto di Lasky, nobile polacco. Costoro, dopo molte peripezie sbarcarono a Briel (Olanda), donde si diressero al castello del Lasky (presso Cracovia), che raggiunsero felicemente il 3 febbraio 1584.

Giunti a questo punto della storia del Dee, dobbiamo aprire una parentesi per chiarire alcunché. Né il Dee, né il Kelley furono alchimisti, ma tutti e due possedettero la pietra filosofale e operarono trasmutazioni, senza conoscere però il segreto della sua fabbricazione. Di questa pietra, o per meglio dire della polvere di proiezione, venne

in possesso casualmente il Dee, e non il Kelley, come molti erroneamente asseriscono.

Ecco come andò la cosa:

"Dee faceva ricerca di antichità e soprattutto di carte e manoscritti. In certi scavi eseguiti nel sepolcreto dell'abbazia di Glasgow, nel territorio di Somerset, furono rinvenute dentro una tomba vescovile due palle d'avorio e un manoscritto. Questo lotto spettò a un albergatore. I suoi figliuoli, però, giocando con una delle palle la spezzarono; e da essa uscì fuori una polvere bianca, che si disperse. L'albergatore mostrava a'viaggiatori di passaggio l'altra palla e il manoscritto, con la speranza che li avrebbero comprati, ma nessuno voleva saperne. Capitato Dee al suo albergo, gli offrì noncurante uno scellino (L. 1,25).

L'albergatore credé di toccare il cielo col dito e la vendita fu effettuata immediatamente. Or bene, quel manoscritto era un trattato di alchimia e la palla d'avorio, forata, lasciò vedere una polvere pesantissima, di colore rosso-bruno, che non era se non pietra filosofale".

Di questa polvere Dee fece due parti: una che portò con sé a Cracovia, l'altra che lasciò nel laboratorio di Mortlake e che fu dispersa dalla gente che, appena saputa la sua partenza, invase la casa e la biblioteca e le saccheggiò, nell'idea che il celebre mago fosse un fattucchiere e un negromante.

Della prima, una parte fu impiegata da Dee in operazioni trasmutatorie per abbagliare la corte austriaca; un'altra (due once) fu da lui regalata al Rosenberg; ciò che ancora gliene rimaneva gli fu involato da Kelley, al momento della loro separazione.

Chiarito quest'affare della polvere di proiezione, torniamo alle avventure di Dee. Costui rimase soltanto cinque settimane nel castello di Lasky. Il 9 marzo del 1584 si recò a Cracovia, dove continuò l'evocazioni magiche; e finalmente, dopo un soggiorno d'alcuni mesi in quella città, si rimise in viaggio e giunse l'8 agosto a Praga, dove Rodolfo II, imperatore di Germania, teneva brillantissima corte.

"Quel sovrano era astrologo e alchimista; in casa sua tutti erano iniziati; egli spendeva, alchimiando, dei tesori, e, mentre speculava sulla congiunzione degli astri, i popoli e i parenti si congiungevano contro di lui, sicché perdeva una parte de' suoi stati. Si racconta che quando morì, la qual cosa avvenne nel 1612, si trovarono nel suo laboratorio diciassette barili di purissimo oro destinato a consumarsi nelle prove".

Costui perciò accoglieva volentieri gli operatori rinomati che gli si presentavano. Fu dunque a ragion veduta che Dee e Kelley si recavano dal figlio Massimiliano II [2]; però la fortuna non andò loro a seconda. Rodolfo dubitò della scienza del Dee e tutte le pressioni di costui per far breccia nell'animo suo riuscirono vane. Sicché il nostro mago, dopo molte peripezie, lasciò Praga e si diresse a Cracovia dove giunse il 2 aprile 1585.

Anche colà gli affari volsero al male: il re Stefano, consigliatovi dal Lasky, accolse in corte il Dee e s'indusse anche a presenziare una seduta magica; ma quando fu all'atto pratico - la notte del 27 maggio 1585 - si spaventò e lasciò in asso l'operatore, del quale poi respinse qualsiasi altra proposta.

Sicché il Dee, verso la fine di luglio di quello stesso anno, tornò a Praga in misere condizioni finanziarie. Là lo attendevano nuove traversie.

Pedinato da un tal Francesco Pucci, fiorentino, spia del Sant'uffizio, malveduto dallo imperatore, chiesto dal vescovo di Piacenza, nunzio del papa, per condurlo a Roma e darlo alle fiamme come mago e negromante, dovette la sua salvezza all'imperatore stesso, che non s'arrese alle ingiunzioni del nunzio pontificio, ma si limitò a bandirlo dai suoi stati [3], e al suo allievo, il nobile Guglielmo Ursino, signore di Rosenberg, burgravio supremo di Boemia, il quale non solo lo difese presso Rodolfo II, ma ottenne anche la concessione d'ospitarlo nell'avito castello di Trebona.

In esso lo sventurato cabbalista dimorò dal 1586 fino alla fine del 1589, (epoca nella quale la regina Elisabetta lo richiamò in patria); in esso continuò le sedute magiche, insieme col suo ospite, al quale regalò due once (56 grammi) di polvere di proiezione, e col Kelley, che non lo seguì in Inghilterra.

In patria, essendo sempre tenuto in conto di mago e di negromante, il Dee fu nuovamente veduto di mal occhio dalla corte e dal clero.

Alfine, il 20 maggio del 1595, la regina lo nominò, per compassione, direttore del collegio di Manchester (nella contea di Lancastro), ch'egli abbandonò volontariamente nel novembre del 1604, per tornare a Mortlake, dove, in compagnia del suo amico Bartolomeo Hickmann. ricominciò l'evocazioni. Morì a ottantun'anni nel 1608, oppresso dal male.

Lasciò le seguenti opere: La monade geroglifica, trattatello ermetico, scritto nel 1564 [4]; Propoedeumata Aphoristica ecc. ; True and faithfull relation, ch'è la narrazione delle sue evocazioni; Schema natalitium Edoardi Kellaei a Devo formatum erectumque [5]; e molti pregevoli manoscritti.

 

Edoardo Talbot, più conosciuto sotto il nome di Kelley, nacque a Worcester il primo d'agosto dell'anno 1555. Gli uni lo dicono farmacista, gli altri notaro. Convinto di falso, ebbe le orecchie tagliate. In seguito a quella avventura lasciò Lancastro, teatro delle sue gesta, e si dedicò alla ricerca del segreto de' filosofi; ma il desiderio dell'oro lo spinse alla magia nera. Dopo l'evocazione d'uno spirito infernale, che gli apparve sotto la forma d'un cadavere sotterrato di fresco, fece la conoscenza del Dee (1580), che seguì come discepolo, come compagno e come genio malefico.

Sposò nel 1583, accompagnò Dee finché v'ebbe il suo tornaconto; era irascibile, turbolento, collerico, beone. Non aveva né religione, né onestà. Aiutando il suo maestro, fece apparire nello specchio magico dei demòni [6] e consigliare dagli angeli a colui la promisquità delle loro mogli. Partito Dee da Trebona, egli provvisto della polvere di proiezione involata, colla speranza di far fortuna, si recò a Praga, dove per mezzo della detta polvere si cattivò l'animo di Rodolfo II. Ebbe il titolo di chimico dell'imperatore e nel 1590 fu creato barone di Boemia. Però non seppe approfittare della buona fortuna. Avendo acquistato grandi ricchezze mediante la polvere, lussureggiò e scialacquò. Da ultimo, essendosi reso colpevole di frode verso l'imperatore, suo protettore, fu condannato alla detenzione perpetua in una fortezza. Allora, quale suo suddito, la regina Elisabetta - forse dietro preghiera del Dee, ch'aveva avuto contezza della sventura toccata al suo ex compagno, - lo reclamò, ma l'imperatore si rifiutò di consegnarlo e Kelley, perduta ogni speranza di salvezza, stabilì di evadere. A tal fine si calò, mediante una corda, lungo il muro esterno dell'edifizio, ma essendo caduto a terra si spezzò le membra e morì miseramente qualche giorno dopo (1595).

 

Arturo Dee, figlio di Giovanni, nacque a Mortlake nel 1579 e seguì i genitori sul continente. Sposò a Manchester, mentre suo padre dirigeva il collegio di quella città. Si dedicò interamente allo studio della medicina e della chimica. Poco dopo, Giacomo I lo inviò all'imperatore di Russia, che l'aveva richiesto d'un medico inglese. Rimase diciottenni alla corte dello zar. Al ritorno, fu messo nel novero dei medici giurati del re Carlo I. Da ultimo il Dee si stabilì a Norwich, dove morì nell'età di oltre settant'anni, verso il 1650. Fu sepolto nella chiesa di S. Giorgio. Ha lasciato una piccola raccolta alchimica intitolata: Fasciculus chimicus.

 

Lo scorcio del secolo XVI non ci offre più grandi artisti.

 

Menzionando Biagio di Vigenère, contemporaneo di Gastone di Cleves [7], vivente nel 1545, che fu autore del Trattato del fuoco e del sale, terminiamo la storia di quest'epoca che, tutto considerato, è poco notevole.

Nel secolo del quale ci siamo occupati vissero anche i seguenti ermetisti di minor conto:

 

Cosimo I de' Medici, detto il Grande (1519-1574). Costui si dilettava a lavorare di lambicchi, formando molte acque e sublimati atti a medicar molte infermità "e ne ha quasi per ognuna" come scrive l'ambasciatore veneto Andrea Gussoni.

 

Mercurio Giovanni, alchimista italiano. Fu a Lione nel 1501.

 

Giovanni Augurello, pure alchimista. Visse a' tempi di Leone X (papa dal 1513 al 1521), che lo burlò, dandogli una borsa vuota per riporre l'oro, di cui cantava l'artificiale produzione in un poema (La Crisopeja) a lui dedicato.

 

Giovani Battista della Porta (1540-1615), Napoletano. Fu dottissimo. Scrisse la Magia naturalis, frutto di quarant'anni di studio. Una parte di quell'opera tratta De metallorum trasmutatione. Più che alchimista, egli fu fisico, ottico e fisionomista. Gli affibbiarono il soprannome di Magus veneficus, ma si difese. Scrisse anche De distillationibus;De humana physiognomonia; De occultis litterarum notis; De oeris trasmutatione, ecc. Fu tradotto in moltissime lingue.

 

Leonardo Fioravanti. Celebre medico e alchimista, autore di uno Specchio di scienza universale, del Reggimento della peste e del Tesoro della vita umana (1570)].

 

Nel secolo XVII, il primo che richiama la nostra attenzione è il Cosmopolita. Egli si chiamava, a dir vero, alessandro sethon. Nacque nella Scozia. Fu un vero iniziato. Possedè la chiave della scienza ermetica e  [fabbricò l'oro non per sé, tant'era il suo disinteresse, ma per convincere gl'increduli]; fedele al proprio giuramento, si rifiutò di comunicare il segreto alchimico al duca di Sassonia e costui lo fece immediatamente imprigionare (1602). Né dolcezza, né violenza riuscirono a vincerlo: egli fu un vero martire dell'alchimia. Un Moravo, michele sendivog, sendivogio o sandovingio, nato non si sa in quale città nel 1566, ma dimorante a Dresda (Sassonia) ottenne di visitare il filosofo nella prigione e gli offrì di aiutarlo a evadere in cambio di alcune bottigliette di polvere filosofale. La fuga s'effettuò senza inciampi e Sethon mantenne la promessa; ma non godè della riacquistata libertà, perché morì nel 1604 con le membra imputridite e i nervi rattratti.

Sendivogio, venuto in possesso dell'elisire e dei manoscritti dello Scozzese, si fece credere adepto,  [si spacciò per Cosmopolita] e si fece attribuire l'opera di Sethon [8], che rimaneggiò stupidamente. I De lapide philosophico tractatus XII comparvero a Praga nel 1604. Nel 1604 fu pubblicata una nuova edizione di questi trattati, dedicata ai principi di Germania, per cura del consigliere wurtemburghese Corrado Schuler [9] Sendivoglio percorse l'Europa eseguendo numerose proiezioni, grazie alla quantità di polvere che possedeva.  [In una sala del castello di Praga, dove il taumaturgo aveva operato, Rodolfo II pose l'iscrizione:

Faciat hoc quispiam alius

Quod fecit Sandovingius Polonus.

 

Morì di morte naturale a Cracovia nel 1646].

 

Il celebre cabbalista Enrico Khunrath (1560-1605), ha prodotto opere di molto merito, quali: l'Anfiteatro della sapienza eterna,  [stampato nel 1609, condensante tutta la scienza sintetica dei maghi], la Confessione del caos dei fisico-chimici  [e la Signatura magnesiae. Questi due ultimi opuscoli postumi sono due manuali indispensabili agli studenti d'ermetismo [10]].

 

Andrea Libavio, che morì in Sassonia nel 1616, scrisse un Trattato della pietra e dei Commentari di Arnaldo da Villanova.

 

Giovanni d'Espagnet, autore dell'Arcano di filosofia ermetica e dell'Enchiridione (Manuale) della fisica ristabilita, merita d'essere menzionato al pari di giovan Battista Van Helmont.

Costui, che fu medico e chimico nativo di Bruxelles (1578-1644), fu per un pezzo tra gl'increduli e i beffatori, ma quando, nel 1618, un adepto si recò da lui a Vilvorde (presso Bruxelles) e gli consegnò un quarto di grano di polvere di proiezione, col quale egli eseguì una trasmutazione di mercurio in oro, diventò uno dei più ferventi alchimisti, tanto che al figlio, natogli poco dopo, diede il nome di Mercurio [11].

Van Helmont fu discepolo di Paracelso. Scrisse l'Ortus medicinae, nel quale fece intravedere l'azione benefica del magnetismo [12]].

 

Ma a noi tarda di giungere a Erineo Filalete, al grande adepto inglese, del quale tracceremo brevemente la biografia.

Nato nel 1612 non si sa dove, non tardò a divenire uno zelante apostolo dell'alchimia, che propagò per ogni dove con infaticabile ardore di predicazione.

Fu filosofo di grandissimo merito, versatissimo nella pratica dell'arte sua. Realizzò dapprima moltissime trasmutazioni in Inghilterra, nascondendosi con infinite precauzioni, per conservare la sua indipendenza. Adottò uno pseudonimo, come fecero molti adepti (il suo vero nome non si conobbe mai; fu supposto essere Tommaso Wagnan o Vaughan): Filalete significa amico della verità e il nome Erineo o Ireneo, pacifico.

Lo troviamo poi nell'America inglese, dove fa stupire i conoscitori con la gran fertilità della polvere di proiezione. Essa era di gran lunga più potente di tutte le altre, antecedentemente sperimentate. Un suo granello, messo sopra una quantità decupla di mercurio, si produceva una tintura che nobilitava anche diciannovemila partì di metallo.

È attribuita a Filalete la trasmutazione operata in casa di van Helmont, il quale d'allora in poi fu convinto - come s'è detto - della realtà dell'alchimia. E si sa bene che van Helmont, da quel chimico celebre e abilissimo ch'era, non si sarebbe mai fatto ingannare per mezzo di un'essenza tintoria, analoga a quella degli alchimisti exoterici di professione.

Il nostro filosofo, uomo semplice e ordinato e di carattere dolce, strinse amicizia con una quantità di dotti exoterici, e segnatamente col famoso chimico inglese Boyle. Conobbe pure Elvezio.

Il Filalete viaggiò molto, errando per la Francia, per l'Italia, per la Svizzera, per la Germania, e spingendosi fino all'India. S'iniziava, senza dubbio, ai vari misteri dei paesi che percorreva, giacché soltanto la scienza lo conquise. Per questo motivo gli fu concesso di realizzare la grande opera ermetica in tutto il suo splendore.

 [Filalete morì nel 1680].

Le opere sue devono servir di guida a ogni apprendista d'alchimia. Esse costituiscono forse i manuali maggiormente iniziatici al vastissimo problema dell'alta magia. Nell'Introitus l'Autore dipinge se stesso, svelandoci nel contempo l'uomo e l'adepto; poi studia magnificamente la confezione della pietra e le sue proprietà. Il titolo completo dell'opera è il seguente: Introitus apertus ad occlusum regis palatium, ossia Ingresso aperto del chiuso palazzo reale. - Lo si trova nel secondo volume della Filosofia ermetica del Lenglet Dufresnoy, in latino e in francese; noi ne abbiamo dato il sunto nel nostro recente libro: Come si diviene alchimista (parte terza). Le altre opere di Filalete, la Metamorfosi dei metalli, la Sorgente della verità chimica e la Preparazione del rubino celeste,  [costituenti il Trattato trino], stanno nella Biblioteca chimica del Manget [13].

Ma è il primo libro, all'Introitus che bisognava fermarsi, meditando a lungo e con gran cura le rivelazioni che vi sono contenute.

 

Filalete è l'ultimo dei grandi adepti. L'avventuroso Borri [14] e gli alchimisti exoterici Lascaris [15], Boetticher [16] e Delisle, che vennero dopo di lui, non meritano affatto che ci occupiamo di loro.

Anche james price sembra essere stato alchimista di poco valore: si suicidò, disperato per non essere riuscito a compiere dinanzi alla Società reale di Londra, che ve l'aveva costretto, le sue operazioni trasmutatorie.

 

Accenneremo ora di volo altri alchimisti del secolo XVII, ch’è bene non dimenticare totalmente:

 

Mercurio Van Helmont, figlio di Giovanni Battista. Costui non smentì il nome che portava e tirò dalla sua Leibniz, benché non gli venisse fatto di trovare la pietra miracolosa. Pure morì credendo fermamente alla sua esistenza.

 

Giovanni Federico Schweitzer, medico del principe d’Orange, più cognito sotto il nome latino d’Helvetius (Elvezio) [17], non credeva all’esistenza della polvere di proiezione, quando un avvenimento venne a modificarne completamente le idee. Il 27 di dicembre del 1666 si presentò a casa sua, all'Aja, uno sconosciuto, il quale gli mostrò una scatoletta d'avorio, contenente la pietra filosofale. Costui, che volle conservare l'incognito, tornò a visitarlo dopo tre settimane e, vinto dalle sue istanze, gli regalò un minuzzolo di pietra, grosso come un grano di miglio. Helvetius tentò da solo la trasmutazione, fondendo un'oncia e mezza di piombo, che convertì in oro. Tutti gli orefici della città stimarono altissimo il grado di quell'oro e Povelius, saggiatore generale delle monete olandesi, lo trattò sette volte coll'antimonio, senza vederne diminuire il peso. Helvetius allora si ricredette e scrisse il Vitulus aureus in difesa dell'alchimia [18].

 

Goffredo Efraimo Leibniz, celebre filosofo, matematico ed erudito, nacque a Lipsia nel 1646 e morì nel 1716. Fu l'inventore del calcolo differenziale. La più nota delle sue opere è la Teodicèa. Dicesi ch'entrasse in una società ermetica.

Il celebre Martini, professore di filosofia a Helmstadt, fu, come molti altri, convinto dell'esistenza della pietra filosofale, solo dopo aver assistito a una trasmutazione. Essa fu operata da uno sconosciuto, nel 1621, nella aula stessa dove Martini insegnava. Un passo del Trattato di logica del dotto filosofo accenna appunto alla sua personale credenza nella fabbricazione dell'oro artificiale [19].

 

Giacinto Grimaldi fu un altro difensore dell'alchimia. Difatti egli scrisse un libro per ribattere il Messinese Francesco Avellino, che nella sua Expostulatio contra chymicos, ecc., Messina, 1637, s'era scagliato contro gli ermetisti, considerando tutti, veri e falsi, come impostori o illusi. Il libro aveva questo titolo: Dell'alchimia, opera che con fondamenti di buona filosofia e perspicacità ammirabile tratta della realtà, difficoltà e nobiltà di tanta scienza, delle meraviglie della natura, dell'arte dei metalli, e delle regole e metodo da osservarsi nella composizione dell'oro alchimico, Palermo, 1645.

 

Richthausen. Era un gentiluomo, che dimorava a Vienna. Nel 1648, con la polvere lasciatagli in legato da un suo amico morto in Boemia, fece delle proiezioni a Praga sotto gli occhi di Ferdinando III di Germania (imperatore dal 1637 al 1657) [20], amante di alchimia come Rodolfo. Il Richthausen ebbe il titolo di Barone del Caos e coll'oro che ottenne si coniarono medaglie coll'iscrizione "Aurea progenies plumbo prognata parente".

 

Il sacerdote Giuseppe Marini scrisse il Tesoro Alchimico, Venezia, 1664. In esso rivela l'animo suo ulcerato per aver perduto per l'alchimia, parenti, amici, poderi e illusioni.

Fu, non v'è da dubitarne, un alchimista exoterico.

 

Stefano Vinache, - forse più esattamente Vinasce o Vinacce - Napoletano, dimorante a Parigi all'epoca di Luigi XIV (re dal 1643 al 1715), era tenuto in conto di persona arricchitasi improvvisamente. I domestici, da lui licenziati, dicevano che fondeva l'argento e che possedeva qualcuno dei segreti per ottenere la pietra filosofale. Fu messo alla Bastiglia, forse per falsificazione. Offrì al re trecento milioni, con la stessa facilità con la quale gli avrebbe dati tre luigi d'oro, a condizione d'esser lasciato in libertà e di non fare indagini sull'origine di quell'argento, ma Luigi non acconsentì. Madama di Maintenon trasmise al sovrano una seconda memoria del Vinache (Vinasce), che ebbe lo stesso esito della prima. In seguito a quest'insuccesso, l'alchimista si tagliò la gola [21].

 

Domenico Manuale, Napoletano. Fu allievo del Lascaris. La Spagna e la Germania furono i campi delle sue meraviglie, o meglio delle sue imposture. Finì sulla forca a Berlino, nel 1709, per non aver saputo mantenere a Federico I quello che aveva promesso.

 

Brandt. Chimico svedese. Scoprì il fosforo mentre faceva delle ricerche alchimiche.  [Morì nel 1692].

Nel secolo XVIII il primo nome che dobbiamo rilevare è quello di Antonio Giuseppe Pernety, benedettino, nato a Roanne nel 1716 e morto nel 1801, autore di due buone opere di volgarizzazione, il Dizionario mito-ermetico e le Favole greche ed egiziane svelate. Il simbolismo dell'arte spargirica v'è esposto eccellentemente; il ricercatore coscienzioso, degno di essere iniziato, scopre utili punti d'appoggio là, dove il semplice amatore d'occultismo, avido di ricchezze materiali, trascorrerà accecato da quella stessa luce, della quale non può sostenere lo splendore.

 

L'abate Lenglet-Dufresnoy, nato a Beauvais nel 1674 e morto nel 1775, scrisse tra le altre opere la Storia della filosofia ermetica che lo pone tra i migliori cronisti dell'alchimia. Il secondo volume del suo lavoro racchiude le pagine divine di Filalete.

 

Paykull, che per aver voltato le armi contro il proprio re, Carlo XII di Svezia (monarca dal 1697 al 1718), preso in battaglia, fu condannato a morte, domandò gli si commutasse la pena, promettendo di fare ogni anno per un milione di scudi d'oro; e invero con vana materia da lui preparata ottenne dell'oro, e si coniò una medaglia coll'iscrizione: Hoc aurum arte chimica conflavit O. a. V. Paykull". Fu, molto probabilmente, un semplice alchimista exoterico].

 

Di fama molto più dubbia del Paykull fu il plommen-pelt. Il fatto ch'ora riferiamo basta a caratterizzarlo.

 

Gustavo III di Svezia (1746-1792), debole di mente e di accesa fantasia, fu uno dei principi che porsero orecchio ai ciarlatani d'ogni risma.

Egli, per molti e molti anni, ebbe costume di visitare una celebre indovina, la signora Alfredsson. Non riuniva la dieta, non prendeva alcuna deliberazione, senza prima averla interpellata.

Fu attorniato da persone che gli misero innanzi la fabbricazione della pietra filosofale. Il re si lasciò sedurre. La grand'opera doveva tentarsi in Stoccolma sotto gli occhi e per conto dell'augusto personaggio.

Fu scelto per la gran prova un venerdì santo, giorno preferito per consimili operazioni da quegli alchimisti, che accoppiavano il misticismo alle loro stravaganze. Il re si recò, di notte, accompagnato dai due suoi fratelli, il duca Carlo e il duca Federico, nella casa di un tal Plommenfelt.

Il re e i principi avevano digiunato tutto il giorno, sperando così di meritare il favore del cielo. In quello stato di debolezza... non era difficile vendere loro lucciole per lanterne.

L'operatore non comparve che a mezzanotte, con una lunga e sporca zimarra, spettinato, e il suo volto aveva una espressione tra teatrale e smarrita.

Prese un crocifisso, collocò il re e gli altri astanti intorno a un circolo segnato col carbone sul pavimento; ed egli andò a porsi nel mezzo.

Quindi segnò un po' nell'aria e un po' sul terreno delle linee e delle figure cabbalistiche, consultò un certo specchio, che si teneva davanti, e balbettò delle formule e delle preghiere.

Dopo un lungo silenzio, s'udirono dei colpi nelle pareti. Plommenfelt disse che gli spiriti desideravano entrare, ma che non potevano per la presenza nella sala di qualche persona gravemente colpevole; e rinnovò scongiuri e supplicazioni.

Il re e i principi erano vivamente turbati. Il giovine duca Federico si gettò piangendo fra le braccia del re e promise di osservare da quel giorno verso di lui quell'amicizia fraterna, che era stata più volte obliata. Il duca Carlo manifestò gli stessi sentimenti; e Gustavo III accolse e ricambiò con la maggiore tenerezza quelle amorevoli dichiarazioni.

E la grand'opera venne rimandata a un altro giorno [22].

Gustavo III stabilì di fare degli esperimenti nel suo medesimo palazzo. In una sala remota fece portare un altare, un crocifisso, dei sacri dipinti; e volle ivi operare da solo. Egli medesimo in una sua lettera del 25 maggio 1781 confessa l'insuccesso dell'impresa.

L'operazione cominciò alla mezzanotte. La camera era freddissima. Tuttavia il re si spogliò, rimanendo in camicia, come gli era stato prescritto.

Ora - ci domandiamo noi - quale operazione poteva compiere Gustavo III in tale abbigliamento? Certo nessuna ch'abbia relazione coll'arte sacra. L'augusto personaggio fu dunque vittima di una sconvenientissima burla.

Parole magiche, preghiere, scongiuri, abluzioni pel corso di un'ora non valsero ad appagare i suoi voti. Solo egli intese dei rumori nella gola del camino.

Ma che cercava dunque lo sventurato malato reale? Forse neppure lui lo sapeva. Difatti, se fosse stato iniziato, o se solo avesse goduto lo intero uso della ragione, non si sarebbe piegato a pratiche cotanto ridicole e, quel ch'è più, inutili.

Ma, mentre Gustavo III sognava chimere, dei congiurati si raccoglievano nell'ombra. Essi finirono coll'ucciderlo nella sua stessa capitale, durante un ballo mascherato.

Mentre i gabbamondo sfruttavano la nominanza dell'arte alchimica per ingannare i semplici ed empir la borsa, proprio come al dì d'oggi i medium di professione sfruttano con lo stesso scopo le meraviglie dell'occulto, i veri iniziati si stringevano in fraterni consorzi. Così nella Vestfalia fu fondata, nel 1790, una società ermetica, che durò fino al 1819  [23].

 

 

 [1] I cenni su Dee e su Kelley sono tratti dalla "Vita di Giovanni Dee" del compianto Filofotes, pubblicata nei vol. 21-23 dell' "Initiation", perché le notizie date dall'A. sono troppo laconiche. (N. d. T.)

[2] Cade in errore chi asserisce ch'essi si recavano da Massimiliano; costui morì nel 1576. A lui si presentò probabilmente il Dee solo, nel 1563.

[3] È inesatta l'affermazione di alcuni scrittori, che il Dee fu imprigionato insieme con Kelley; dalla narrazione del Poisson, desunta dalla Vita Joannis Dee di Tommaso Schmit, pubblicata a Londra nel 1707, ciò non risulta affatto.

[4] Tradotto in Francia da A. Poisson (Initiation del 1892).

[5] Stampato nel Theatrum chimicum britannicum d'Ashmole.

[6] Si distingua dèmone, angelo, genio benefico, da demònio, diavolo, genio malefico.

[7] Autore dell'Apologia dell'atre di far l'oro e l'argento.

[8] La nuova luce chimica o trattato dei tre principi. Questo volume è da leggere e da meditare.

[9] Luigi Esquieu, / Rosa Croce.

[10] De Guaita, Au seuil du mystère, p. 60.

[11] Papus, Traité méthodique de Science Occulte, p. 656-657.

[12] Initiation, Vol. XX, p. 45. (N. d. T.)

[13] al Filalete sono attribuite anche l'opere seguenti: Experimenta de praeparatione mercurii sophici; Ripley revised; Enarratio trium Gebri... ; Anthroposophia theomagica; Magia adamica; Lumen de lumine e Medulla alchimiae. (N. d. T.)

[14] Giuseppe Francesco Borri nacque a Milano il 4 maggio del 1627. Compì gli studi a Roma, nel seminario dei gesuiti e poi fu ammesso in Vaticano. In seguito si consacrò alla medicina e alla chimica; ma menò in pari tempo vita sregolatissima. Nel 1654, dando egli scandalo, la polizia lo perseguitò; allora finse di correggersi della vita dissoluta. L'anno dopo, essendosi stabilita a Roma, Cristina Alessandra, ex-regina di Svezia, figlia di Gustavo Adolfo (nata nel 1626, regina dal 1632 al 1654, morta nel 1689), protettrice dei letterati, degli artisti e degli scienziati, e sopratutto degli alchimisti, comeché seguace ella stessa delle dottrine e delle pratiche spargiriche, il nostro gesuita le si presentò ed eseguì una trasmutazione. Se non che, essendo morto il pontefice Innocenzo X ed essendo stato innalzato al soglio pontifìcio Alessandro VII (nel 1655), nemico acerrimo dei novatori, nel cui numero si trovava il Borri, costui, per sfuggire all'occhio vigile del Sant'Uffizio, risolvè d'abbandonar Roma. A tal fine si travestì da pellegrino, per non destar sospetti, e chiese ricetto per una notte al marchese Massimiliano Palombara, noto alchimista romano, il quale possedeva una villa sull'Esquilino. Accolto benignamente, il Borri eseguì nottetempo una trasmutazione nel laboratorio del marchese al quale lasciò delle note alchimiche, che colui, nel 1680, fece in parte dipingere e in parte incidere nel casino della villa; poi s'involò e si recò a Milano, dove diffuse le sue idee religiose e dove trovò molti seguaci. La Santa Sede però non dormiva, e il 5 gennaio 1661 lo condanno, quale eretico ad essere bruciato vivo. Egli però se n'era, in antecedenza, fuggito a Strasburgo (1660). Da quella città si recò ad Amsterdam (1662-63), ad Amburgo (1664?), dove carpì molti denari alla regina Cristina, che in quel tempo si trovava colà a diporto, e a Copenaghen (1669?), dove spillò denaro al re Federico III, che morì il 9 febbraio 1670. Odiato da' cortigiani di quel re, il gesuita milanese risolse di lasciare la Danimarca e di recarsi in Turchia. A tal fine si avviò per la Moravia, ma a Goldingen il governatore, dubitando di lui, lo fece imprigionare. Nel 1672, l'imperatore d'Austria lo fece consegnare al pontefice, allora Clemente X, che lo chiuse in una cella del Sant'Uffizio. A Borri furono fatti abiurare i propri errori, cioè il suo libero pensiero, e fu fatta fare pubblica penitenza. Qualche anno dopo il duca d'Estrées, ambasciatore di Francia, ottenne che il gesuita fosse trasferito a Castel Sant'Angelo, dove gli fu concesso anche d'impiantare un laboratorio. Egli morì in quel carcere il 10 agosto 1695. Borri pubblicò: Gentis Burrorum notitia, opera anonima, Strasburgo, 1660; De vini generatione in acetum, decisio experimentalis; Epistolae duae ad TH. Bartholinum, de ortu celebri et usu medico, necnon de artificio oculorum humores restituendi, Copenaghen, 1669; Istruzioni politiche date al re di Danimarca, 1681; e i suoi nemici diedero alle stampe dieci lettere sue, in un libro intitolato: La chiave del gabinetto del cavaliere G. F. Borri, col favore della quale si vedono varie lettere scientifiche, chimiche e curiosissime, con varie istruzioni politiche e altre cose, degne di curiosità e molti segreti bellissimi, Colonia, Marteau, 1681, piccolo in 12°. La prima e la seconda di queste lettere delle quali pare che l'abate di Villars abbia dato il sunto nel suo Conte di Cabali (o Conversazione sulle scienze segrete) trattano degli elementini; nelle sette seguenti si parla della grand'opera, della congelazione del mercurio e d'alcuni segreti metallurgici e cosmetici; l'ultima ha per oggetto l'anima degli animali. Sono precedute da una lettera anonima, indirizzata al Borri, loro presunto autore. Per gli scritti alchimici lasciati dal Borri al marchese di Palombara, (ben poca cosa, invero), si consulti il libro di Francesco Cancellieri: Dissertazioni epistolari di G.B. Visconti e Filippo Waquier de la Barthe sopra la statua del Discobolo scoperta nella villa Palombara, ecc. pubblicato a Roma nel 1806 per cura d'Antonio Fulgoni (Vedi pag. 40 e seg.) — Della villa Palombara non rimane più vestigio; solo è stata conservata l'intelaiatura marmorea d'una porticina d'accesso, ch'ora s'ammira nel giardino pubblico di piazza Vittorio Emanuele, a Roma. Essa porta incisi vari segni alchimici e alcuni versi dell'infelice Borri (N. d. T.). Vedi "La porta ermetica" di Giuliano Kremmerz - I volume di questa collezione. (N. d. E.)

[15] Lascaris conservò l'incognito, al pari di Filalete. "Egli si spacciava disceso dall'omonima famiglia reale, e archimandrita d'un convento dell'isola di Mitilene; la sua tintura faceva, per dire il vero, meraviglie, ed ebbe molti allievi in Germania, fra cui il Bòtticher".

[16] Giovanni Federico Bottger o Boettiger (1682-1719) era di Scleiz. Non seppe far l'oro, ma trovò la maniera di fabbricare la porcellana, della quale, nel secolo XVIII, si volle tener segreta la composizione, per impedire la concorrenza. "La fabbrica di Sassonia, dove venne incarcerato il Bòtticher, era una fortezza con saracinesca e ponte levatoio; e nessuno forestiero poteva varcare la soglia; sulle porte dell'officine si leggeva: «Segreto fino alla tomba»". Presentemente il segreto della ceramica è diventato di dominio pubblico, di modo che se ne fabbrica dovunque. E le fabbriche sassoni hanno per emule quelle di Sèvres e di Doccia (Firenze).

[17] Da non confondere con Claudio Andrea Helvétius, che visse nel sec. XVIII e fu enciclopedista.

[18] Papus, Tratte méthod. de Se. Occ., pag. 653-655.

[19] L'Hyperchimie, giugno 1899, pag. 16.

[20] A dir vero, la prima trasmutazione fu eseguita propriamente dal conte di Rutz, Soprintendente delle miniere con la polvere del Richthausen, presenti lui e l'imperatore. Con un grano di polvere furono cambiate in oro 2 1/2 libbre di mercurio (Hyperchimie, giugno 1899, pag. 16).

[21] Le Voile d'Isis, n. 180 del 20 novembre 1894.

[22] Come ben si vede, non si trattò dell'opera alchimica e neppure di quella magica. Fu piuttosto una seduta mistico-spiritistica, o meglio un'impostura qualsiasi. Noi ne abbiamo riportata qui la descrizione non per il suo interesse, che non ne ha alcuno, ma per dimostrare che un ciurmatore, qual era il Plommenfelt, non può produrre che ciurmerie.

[23] Da uno studio su Gustavo III pubblicato nella Revue des deux mondes e riportato dal De Castro (Op. cit., pag. 313-315).

 

 

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L'Alchimia dalle Origini fino al secolo XIV


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