Il Massone e la Morte Il concetto di morte è fortemente presente in Massoneria, lo si ritrova nei rituali di iniziazione e nei passaggi di grado. Come mai tutto questo fiorire di teschi, bare, testamenti? Quello che può sembrare una sorta di gusto per il macabro o richiamare simboli utilizzati nel mondo profano per cose non gradevoli, sottintende in realtà uno dei principali temi e finalità della Massoneria, come vedremo più avanti. Intanto esaminiamo il rapporto dell’uomo con la morte. La Morte, la paura di morire, il dolore. Un animale lotta per la sopravivenza, ma è disponibile al sacrificio (morte) per la salvezza della specie. Questo accade perché la sua è una coscienza di gruppo, istintiva e non individuale. L’uomo, che ha coscienza propria, sembra più disponibile a far morire gli altri, piuttosto che se stesso. Chi non segue questo, è colui che spesso chiamiamo eroe, così come accade all’innamorato (es.: una madre che si sacrifica per salvare il figlio). In ogni caso, persone fortemente motivate, che seguono un ideale o una forza interiore sconvolgente. Il morire corrisponde al cessare delle attività in cui ci si riconosce, la paura del morire corrisponde quindi al cessare del riconoscersi. Quando si è morti non vi è più alcuna differenza tra conoscente e conosciuto, semplicemente perché manca il soggetto. La morte di per sé non è altro che un nuovo stato. Esiste una situazione simile, che nominiamo differentemente : nascita. Quando nasciamo non abbiamo coscienza individuale, o per lo meno non ne manteniamo il ricordo, la consapevolezza. Visto obiettivamente l’atto del nascere corrisponde alla morte di un essere (quello che vive nell’acqua, al buio, senza capacità di azione...), che all’improvviso si trova catapultato attraverso "un tunnel nero e buio" verso la "luce esterna" dove respira un altro elemento e dove per nutrirsi dovrà agire... Eppure festeggiamo la nascita e non la morte, perché di una "riconosciamo" il percorso, dell’altra no. Ancora una volta il problema e la conseguente paura, sta nel "conoscere" o meno. Se infatti sapessimo che morire vuol dire "spostarsi altrove", la morte perderebbe l’alone di disperazione che l’accompagna. Ma se lo "spostarsi altrove" non fosse accompagnato da coscienza, come reagiremmo? Tutti i cambiamenti comportano un pedaggio. Il morire comporta un probabile dolore fisico (malattia, accidente...) e un dolore "sentimentale", l’abbandonare ciò a cui si tiene (affetti, potere, sesso, soldi...). Questo fa più paura della morte in sé, perché conosciamo ciò che lasciamo, è stata la nostra ragione di vita, il nostro stesso essere in questo mondo e, ancora una volta, non conosciamo ciò che "forse" troveremo. A questo punto possiamo già affermare che il cambiamento di stato (morte) comporta sofferenza e paura per due possibili cause principali: l’abbandonare e il non conoscere.
Come naturalmente avrete notato, questi due termini si ritrovano nelle principali filosofie e religioni, al punto tale che alcuni comandamenti/insegnamenti religiosi e filosofici tendono al distacco dalle cose, come da noi l’abbandonare i metalli. Quindi l’abbandono, nel senso del distacco consapevole (che non corrisponde obbligatoriamente anche al distacco materiale, fisico) da qualcosa, è un modo per liberarsi dalla paura e dalla sofferenza, in altri termini aiuta a "liberarsi". Una delle causa di sofferenza del cambiamento di stato (morte) verrebbe così meno. Rimane il non conoscere. Anche in questo caso religioni e filosofie sembrano, anche se in modo diverso, rispondere a questa esigenza dell’essere. La religione lo fa dichiarando la realtà del post mortem, legandone la consapevolezza, l’usufrutto, al rispetto, in vita, di regole codificate (comandamenti, dogmi...). A mio parere la descrizione di questa realtà è solo un pallido e burlesco ricordo di conoscenze antiche e tradizionali. Altre religioni o filosofie puntano più che sul post mortem in quanto realtà descrivibile, sul come, liberata dal condizionamento del corpo fisico già in vita, la coscienza possa godere di altro in quanto non dipendente, appunto, dalla vita organica del corpo. E’ in queste indicazioni che troviamo inviti a sperimentare la morte in vita, così come a creare un osservatore di sé, come il vivere la vita come attimo, come un eroe pronto a morire, come fosse unico e ultimo. Così facendo il tentativo sembra essere quello di allenare la coscienza ordinaria ad uno stato di pienezza e consapevolezza autonomo rispetto il mondo profano e gli strumenti di comunicazione del corpo/mente con esso (i sensi). Così facendo si dischiuderebbero delle porte o "potenzialità", precluse al profano, che riporterebbero al mondo delle idee, a ciò da cui veniamo e di cui siamo frutto, con la capacità del Sé di goderne.
A mio parere la Tradizione nostra rientra in questo campo. Il Massone, iniziato, dovrebbe conoscere che c’è forse una strada, una possibilità di conoscenza, così come l’adepto (alchimista, tantrico, ermetico... che sia) dovrebbe oltre che conoscere, operare per tentare il grande salto, quello verso l’immortalità. Immortalità: parola grossa, chimera di tanti esseri che hanno consumato la loro vita e le loro risorse per trovarne la chiave. Sarebbe necessario indagare, per capire se è solo chimera o se è cosa possibile, che forse uno, anche solo uno su miliardi di persone, ci è riuscito, se ci sono possibilità, anche se in un modo lontano dalla nostra capacità di comprendere. Il Cristo, il Buddha e altri personaggi sembrerebbero messi lì a dire: è possibile! Anche nel filone della Tradizione alcuni personaggi sembrano essere morti e poi ricomparsi, ma non è questo il momento per parlarne. Il Massone sfugge ai dogmi, non crede, ma ha fiducia e avanza per tentativi, provando e riprovando, innanzitutto a capire e distinguere ciò che sembra da ciò che può essere. In questo suo cercare può trovare indicazioni importanti che possono metterlo nelle condizioni di operare, passando oltre la fase speculativa, ma questa è scelta singola, individuale e poco trasmettibile. Tutta l’educazione del Massone è comunque tesa al conoscere e abbandonare, agendo con discernimento, o saggezza. Perché agire con saggezza? Per il bene comune, certo; ma anche perché, ritengo, quando ci si muove nel buio, cercando la luce, o meglio quando ci si sperimenta nel buio della coscienza in cerca di luce, sono tanti i fantasmi interni, i guardiani della soglia, che si possono incontrare, così come è facile seguire una parvenza di luce, nel buio per rendersi conto alla fine di aver inseguito solo un riflesso della luce che si cercava, ed è ormai tardi. Tutta l’educazione del massone, attraverso i riti ed il rituale, è tesa allo sperimentare la morte in vita, come atto eroico, reale, e l’obbiettivo finale è forse quello di ottenere una coscienza che, abbandonato il corpo fisico, riesca a vivere come realtà autonoma.
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Restare coscienti dopo la "trasformazione" non è il frutto di opere pie, ma solo il possibile risultato di un lavoro su di sé.
Da: www.grandeoriente.it |