"La mistica ebraica,
nei suoi rapporti con il divino,
ha i suoi primi
fondamenti nei testi stessi della Bibbia ebraica,
comunemente definita
Antico Testamento"
L'arazionalità
della realtà essenziale di Dio nell'ebraismo è indubbiamente
comune ad altre esperienze religiose. Tale processo di
arazionalità del divino non nasce semplicemente da un'incapacità
conoscitiva dell'uomo, quindi da un sentimento di impotenza di
fronte all'inaccessibile numinoso, ma da un'obbiettiva
incapacità di accertare e penetrare il mistero del Divino. Ciò
nondimeno nell'uomo, creato «ad immagine di Dio», quindi
potenzialmente predisposto al contatto con la divinità, non
esiste un dramma di inconoscibilità originaria che lo porta ad
un'estrema rinuncia. Al contrario, dalla stessa rivelazione
sinaitica proviene un invito imperioso ad orientare i propri
pensieri e le proprie azioni verso Dio («Siate santi, perché Io,
il Signore, Dio vostro, sono santo» Levitico 19,2). La Torà,
nella tradizione giudaica, è il primo medium attraverso il quale
Dio si è manifestato all'uomo facendogli conoscere la sua
volontà per cui, pur incapace di affermare l'essenza della
Divinità, l'uomo tenta le strade più confacenti per attingere
alla Realtà suprema. Se per un verso la spinta mistica sollecita
l'uomo verso la pienezza e l'unificazione con l'Essere supremo,
tale ricerca sperimentale del divino avviene come una naturale
evoluzione e conquista all’interno della sua stessa realtà
religiosa che promuove i suoi sforzi verso una meta da
raggiungere, cioè la stessa Kedushà (=sacralità) di cui la
Divinità è espressione sostanziale.
Per tale motivo si può riconoscere alla mistica uno slancio
«positivo» che non nasce dal nichilismo, dall'angoscia di un
vuoto cosmico, ma piuttosto da un desiderio di comunicazione
esistenziale con il Divino. Ovviamente tale processo drammatico,
inteso a ricostituire la primigenia scissione dell'unità, deve
essere percorso mediante un'azione integrativa dell'uomo nel
cosmo mediante un atto sacro che, sia M. Buber che G. Sholem -
grandi interpreti del misticismo ebraico - tendono a
rappresentare nella forma di un matrimonio mistico. Ed ambedue
questi pensatori sono concordi nel definire la mistica in
generale e la Qabalah in particolare come «la gnosi del
giudaismo», osservando per altro che si tratta dell'unica forma
di gnosi anti-dualistica.
La mistica naturalmente ha assunto aspetti diversi a seconda
delle circostanze storiche in cui si è presentata. Certamente,
il misticismo ebraico ha ricevuto influenze esterne, tuttavia lo
spirito del suo esoterismo è originale ed attraversa tutta la
storia di quel popolo. Tale esoterismo, peraltro, è rimasto
legato al popolo ebraico e lo ha accompagnato in tempi felici
come in quelli sventurati della sua lunga esistenza nazionale.
Processo storico. Per un'esigenza di schematizzazione
cronologica segnaleremo il processo storico dell'esoterismo
ebraico in tre fondamentali momenti:
I°. Il periodo più
antico segnato dall'esoterismo biblico e dall'elaborazione della
Tradizione orale condensata nella Mishnà e nel Talmud.
II°. Il periodo
della formazione vera e propria del momento mistico definito
Qabalah.
III°. Il periodo
moderno con la formazione del Chassidismo.
Queste tre tappe del processo storico della mistica si
alimentano di tutti i fattori religiosi propri dell'ebraismo e
propongono una tecnica di rigenerazione dell'uomo indispensabile
alla ricostituzione dell'unità originaria frantumata dalla prima
prevaricazione compiuta dall'Adam ha-kadmon, cioè l'antico uomo.
1. Primo
periodo. Per quanto concerne l'esoterismo mistico presente
nella Bibbia basti ricordare la teofania profetica di Isaia al
quale la Divinità appare sul trono divino, un trono di fuoco
circondato da angeli che si librano intorno con le loro ali: la
Divinità e gli angeli che scendono in terra a parlare con gli
uomini (Genesi 7,21-22; Esodo 3), senza peraltro sottolineare
l'ipostasi divina sotto forma di Rúach 'Elohìm (= Spirito
divino) (Genesin 1) oppure di uomini che salgono vivi in cielo e
di morti che risuscitano e animali che parlano come delle
creature umane.
Il libro di Daniele è, inoltre, tutto attraversato da un'aura di
mistero in cui sembra concentrarsi l'esoterismo biblico. E
questi, come altri autori, si rende conto che l'esoterismo
teologico non può essere spiegato a tutti ma solo a dei
privilegiati. Si può dire che il libro di Daniele costituisca il
ponte di collegamento tra lo spirito esoterico biblico e quello
dell'Apocalisse ebraica in cui l’esoterismo subisce un ulteriore
approfondimento.
Nella Bibbia ed anche nell’Apocalisse (Ezrà IV) vi fu una forte
riserva nel rivelare i segreti divini soltanto a pochi eletti.
Gli autori del Talmud (cf T. Chaghigà 146, Mishnà di Chaghigà II,
I. T. Chaghigà 13a) misero in guardia dal trasmettere i segreti
della Torà a chi «non fosse dotato di cinque qualità, a chi non
fosse principe di cinquanta persone, che fosse un uomo di
riguardo, consigliere dotto ed intelligente, aperto alle segrete
cose». L'esoterismo ebraico conquistò gradatamente larghe
cerchie popolari sicché le prime testimonianze letterarie della
mistica vennero in circolazione grazie a quella che può essere
definita la letteratura delle
Hechaloth (=i
Santuari) e della Merkavà, cioè il Carro divino. Lo studioso che
ha maggiormente individuato storicamente gli inizi dell'antica
mistica fu G. Sholem, il cui contributo è stato determinante nel
dimostrare che molti passi della letteratura rabbinica si
possono spiegare mediante un'analisi comparativa con certi
concetti rappresentati dai testi dell'antica mistica. Pertanto,
secondo Sholem, la letteratura delle Hechaloth, dal punto vista
cronologico, è da classificare comparativamente con i classici
della letteratura rabbinica, cioè il Talmud e la Mishnà.
Qual è il contenuto di questa antica letteratura mistica delle
Hechaloth? Sono dei trattatelli, quasi due dozzine, che si
interessano di cosmogonia e cosmologia, cioè della creazione del
mondo, di angelologia e della visione del «Carro celeste» avuta
e descritta da Ezechiele nel primo capitolo del suo libro. Tra i
testi più antichi vi sono le Hechaloth (=Palazzi o grandi case),
ma nello specifico libretto il termine indica i «Templi celesti»
o Santuari. É questa una letteratura giudaica che non ha
riscontro presso altre religioni ed ha origine dalle cerchie
mistiche denominate loredé ha-Merkavà (=coloro che discendono
nel Carro). Tale cerchia è esistita dal sec. II fino all'inizio
del sec. VII. Essa si è interessata della dettagliata
descrizione di un'esperienza mistica spirituale nei mondi
superiori. Lo ioredé (= colui che discende nel Carro) ha lo
stesso valore espressivo di colui che affronta il mare, cioè che
salpa per ignoti lidi. Colui che discende nel Carro si stacca
dalla sua attuale esistenza per iniziare un'esperienza che è
come un lungo viaggio nelle stanze del Cielo o nei Santuari
celesti. Egli intraprende un viaggio che, dopo un certo tempo,
lo porterà ad una completa immersione mistica nella Divinità.
Ampli squarci di tale letteratura appaiono come un viatico per
colui che affronta una strada complessa e complicata. Che cosa
deve portare con sé e quando deve intraprendere la strada il
mistico, quali sono i pericoli che lo insidiano, come si deve
comportare quando li incontrerà, quale parola d'ordine dovrà
usare e quali panorami gli si riveleranno lungo la strada? Alla
fine del suo viaggio giungerà all'ultimo Santuario, il settimo,
e là si concluderà il viaggio. Abbiamo qui un'espressione
linguistico-letteraria dell'esperienza mistica e chi non è un
mistico non può comprenderla pienamente. Il lettore potrà
affrontare i testi, capire più o meno la descrizione degli
eventi, comprendere le associazioni delle parole, però non potrà
rivelare l'esperienza spirituale che è dietro alle parole
scritte. Solo chi ha saputo elevarsi al di sopra e al di là
delle parole per conseguire l'essenza mistica che esse esigono
rappresentare, solo costui comprenderà il pieno significato di
tale viaggio verso l’alto.
La tesi essenziale che si può ricavare da tali libretti, non
tutti di facile comprensione, è la seguente: soltanto le persone
che riescono a conseguire la massima purezza fisica e spirituale
possono contemplare i segreti di Dio. Un altro tema implicito
nella letteratura delle Hechaloth e della Merkavà (=il Carro
divino) è derivato da una fondamentale ispirazione. Il
linguaggio di questi testi è un ebraico commisto ad aramaico,
arricchito di espressioni greche ed alquanto enigmatico.
Un altro breve trattato mistico è il cosiddetto
Alfabeto di
R. Akivà, in cui è esposto un importante misticismo
alfabetico e numerico che tenta di scoprire i misteri celati in
ogni parola e in ogni lettera della Scrittura.
Con la pubblicazione e la diffusione dello
Zòhar (= il libro dello
Splendore), il classico della Qabalah medievale, questa, come
movimento mistico sistematico dell'ebraismo diviene
l'insegnamento di quella realtà celeste che è la Merkavà e che
il pensiero filosofico identificò con la metafisica e
l'ontologia divina.
2. Secondo
periodo. In che cosa consisteva dal punto di vista mistico
la Qabalah e in particolare quella corrente esoterica che diede
alla Qabalah stessa il suo contributo più notevole: lo Zohar. Si
tratta di un commento ebraico al Pentateuco il cui autore
(forse) era R. Moshé de Leon; questi aveva accolto dei materiali
mistici assai antichi che, talvolta, si presentano come una
congerie dottrinale niente affatto sistematica e spesso
addirittura in contraddizione con i temi che presenta.
Per riassumere sinteticamente i contenuti mistici della Qabalah,
va ricordato che questo pensiero teosofico prende le mosse
dall'inconoscibilità della natura divina per tentare di
penetrare nella sfera teofanica intesa soprattutto come
emanazione ideale di mondi che rappresentano gli elementi
costitutivi del cosmo. La Qabalah, pertanto, secondo il
significato della parola, «tradizione», non rappresenta
semplicemente un patrimonio culturale che si sovrappone alla
testimonianza della Torà rivelata sul Sinai, essa è quasi una
continuazione del messaggio biblico che ha proposto all'uomo un
modulo divino per vivere eticamente sulla terra. È essa stessa
un messaggio che tende a unificare, con la collaborazione
dell'uomo, la corrispondenza esistente tra i due mondi: quello
celeste e quello terreno.
Secondo la Qabalah, Dio è nell'En-sof (=il senza fine,
l'infinito assoluto), quale condizione di «non-essere» rispetto
alla realtà cosmica. Il mondo era potenzialmente in Dio, ma
essendo il mondo finito, quindi imperfetto, esso non può
derivare direttamente da lui, l'En-sof ma per emanazione, cioè
mediante le Sephiroth che rappresentano il medium di cui Dio si
serve per irradiare il proprio potere creativo. La Divinità si è
servita di queste Sephiroth (= canali di luce) che si
trasformano negli elementi costitutivi del cosmo. Secondo la
Qabalah, le Sephiroth si dividono in tre gruppi: il primo gruppo
rappresenta una triade che costituisce l'universo come
manifestazione del pensiero divino. Il secondo gruppo viene
rappresentato da una triade di Sephiroth che esercitano un
potere etico immanente nel mondo. Il terzo gruppo è
rappresentato dalla triade dell'universo materiale, in cui si
realizzano gli aspetti fisici e dinamici dell'universo. L'ultima
Sephirâ, la decima, che indica la presenza di Dio nel mondo,
conferisce e completa l'armonia di tutte le altre Sephiroth che
formano un tutto unico partecipando ognuna delle qualità
dell'altra. Il principio generale che regola l'azione di una
Sephirâ nell'altra e in questo mondo è così espresso nello
Zohar: «Un'attività stimola dal basso una corrispondente
attività in Alto: vieni a vedere: una nebbia si leva dalla terra
e allora si forma una nube ed una si unisce all'altra per
formare un tutto» (Zohar a Genesi 2,6).
Quando si manifestò nel mondo l'unione tra Dio (En-Sof) e la
Shechinà (=la presenza immanente della Divinità nel mondo
umano), l'unione era completa ed armonica. Ma, a causa del
peccato, l'uomo rappresentato da Adamo, si allontanò da Dio sua
fonte primordiale. La frattura morale verificatasi portò alla
comparsa del male nell'universo, per cui all'ordine armonico
della creazione subentrò il disordine. Perciò, la Shechinà,
turbata dal disordine morale, vaga in esilio, impossibilitata a
recare benessere e benedizione al mondo. Scopo finale
dell'umanità è quello di restaurare l'unità originaria
frantumata dalla prevaricazione. E solo l'uomo può farsi
collaboratore di Dio per riallacciare il fluire dell'Amore
divino nell'universo umano. Il processo di reintegrazione
dell'unità, definito Yichùd (=unificazione), è un processo
continuo cui ogni individuo può dare il suo contributo mediante
la comunione con Dio e il perfezionamento etico.
L'elezione di Israele è un compito collettivo assegnato al
popolo ebraico per spianare la strada dell'umanità nella
riconquista universale dell'unificazione etica. La Shechinà è in
esilio come lo stesso popolo di Israele. Essa non ha abbandonato
il popolo ebraico e lo cura infondendogli speranza e certezza
nella futura redenzione segnata dall'avvento messianico. Quando
ciò avverrà, la Shechinà riavrà la sua intensità primitiva e si
riunirà all'En-sof. Allora l'universo sarà completo in alto e in
basso, sicché il mondo sarà unito da uno stesso legame, e «in
quel giorno il Signore sarà uno e uno sarà il suo Nome» (cf Zc
14,9), riconfermando lo stimolo etico dell'ebraismo. L'ideale
cabalistico spinge l'individuo a valorizzare l'uomo in sé onde
conseguire la pienezza della sua personalità pur rimanendo unito
a Dio e ai propri simili. La carica positiva della Kedushà (= la
sacralità) viene annullata e sollecitata dai vari atti religiosi
che promuovono nel soggetto un rapporto di autentica unione
mistica. La Qabalah conobbe momenti di approfondimento ed
evoluzione del pensiero mistico grazie alla forte personalità di
alcuni maestri cabalisti. Tra questi merita di essere ricordato
Isacco Luria detto Ari (Il leone), il quale rielaborò le
dottrine dello Zohar arrivando a risultati ed intuizioni
sorprendenti. L'essenza centrale del suo pensiero è la teoria
dello Zinitsúm (=contrazione) che propone una spiegazione
dell'autolimitazione di Dio infinito per creare il mondo
fenomenico.
La dottrina cabalistica si diffuse nei centri della Palestina
quali Tiberiade, Hebron, Gerusalemme, trasferendosi anche nelle
grandi comunità della diaspora europea, in Italia, Germania,
Olanda fin verso l'Europa orientale.
3. Il terzo
momento della mistica, trova il suo esito più ampio e felice
nel moderno
Chassidismo.
Il Chassidismo si presenta con una originale caratteristica, sia
per l'azione che esso esercita esclusivamente sulla società
ebraica, sia per essere legato al simbolismo attinto alla
tradizione mistica dell'ebraismo. Pertanto, il Chassidismo si
può definire un contributo interiore nato dalla coscienza
sociale ebraica. Gli eventi che produssero la formazione e
l'ascesa di questo movimento furono il
Sabbatianesimo e la Qabalah inglobati dal neo-chassidismo,
ciò nondimeno, nonostante tali fondamentali ispirazioni, il
Chassidismo presenta importanti innovazioni. Esso si ispira alla
Qabalah e questa è, a sua volta, ispirata dagli ideali profetici
dell'ebraismo presentando un forte orientamento messianico. Del
resto, come si è visto, la Qabalah avverte tutta la creazione
pervasa da un intimo conflitto che la spinge alla ricerca della
redenzione dal male. Il Chassidismo, quale espressione mistica
dell'ebraismo, si configura come un contributo originale per la
comprensione del problema etico.
La realtà dell'uomo e i suoi problemi sono innanzitutto problemi
di ordine morale dalla cui soluzione dipende quella che, con
sfumature e connotazioni dottrinarie diverse presso le religioni
e i sistemi filosofici, viene definita «la redenzione
dell'uomo». Alla soluzione del conflitto in cui sono
dialetticamente presenti i concetti di bene e di male, il
Chassidismo ha offerto una sua proposta etica di tutto rispetto
e degna di attenzione.
È prescritto nella Torà: «Non aggiungete e non diminuite nulla
rispetto a ciò che io vi comando». Il Chassidismo osservò
scrupolosamente tale precetto. Infatti, esso non modificò nulla
della letteralità dei precetti religiosi ebraici, tuttavia
aggiunse un quid, apparentemente non percettibile, ad ogni
regola e ad ogni prescrizione (mitzvà). Fu quel quid che infuse
nell'osservanza religiosa ebraica una nuova vita etica, una
dolcezza che conferì un significato particolare alle
prescrizioni della Torà e alle sue norme religiose. Il
Chassidismo diede un sapore, una motivazione nuova ad ogni atto
che l'ebreo era chiamato a compiere. Fu questa moltiplicazione
dei significati delle prescrizioni religiose (mitzvot) che
innovò la modalità di esecuzione degli atti, della
precettistica, facendola uscire dalla sua routine quotidiana per
conferirle un profumo nuovo, un'atmosfera esecutiva che veniva
alimentata dalla presenza vivificante dell'animo umano. Al
principio del dovere fu sostituito il principio del volere, cioè
del trasporto spontaneo e generoso di colui che una certa mitzvà
non solo l'adempiva, ma la ricreava con il fervore e il
trasporto di un'anima viva e coinvolta. Indubbiamente, anche i
Maestri della Torà avevano condizionato l'adempimento del dovere
religioso con il principio della kavanà (=l'intenzione). Il
Chassidismo, richiamandosi alla necessità vitale
dell'intenzione, diede a questo atteggiamento di volontà il
senso della missione. Il fondatore del movimento chassidico il
Ba'al Shem Tov (uno pseudonimo il cui significato è il «Padrone
del buon nome» di Dio) diceva: «Ognuno viene al mondo per
adempiere ad una missione e per apportare un miglioramento». Con
questo senso della missione l’individuo va nel mondo da un posto
all'altro sia nella propria città che in un'altra città. E si
dice che Ba'al Shem Tov così commentasse il verso dei salmi
(37,23): «I passi dell'uomo procedono dal Signore ed egli
desidera andare nella Sua strada». «Ciò si riferisce a quelle
persone che vanno in terre lontane con la loro mercanzia o cose
simili; esse si allontanano nel loro vagare senza pensare più al
Santo Benedetto. Essi ritengono che il loro spostarsi verso
luoghi lontani serva per far danaro. Ma non è così. Talvolta una
persona ha del pane che lo aspetta in terre lontane, per cui
egli deve mangiare quel pane soltanto in quel luogo e a quella
certa ora o bere acqua da quella certa fonte e il Signore, sia
egli benedetto, lo spinge ad andare e a partire per quel posto
per cui egli ritiene che quel viaggio ha luogo per sua libera
volontà ed egli non sa che invece è stato decretato dal Santo
Benedetto». Il senso che si ricava da questo insegnamento
chassidico è il seguente: come insegna la tradizione ebraica, il
Creatore è Provvidenza che guida tutti gli uomini. Il Besht
(Ba'al Shem Tov) ne fa un principio dinamico vivo che si
inserisce nel cuore di ogni persona per convincerla che ogni suo
passo nella vita è guidato da Dio, per cui tutti gli esseri
creati agiscono in funzione del loro Creatore e, anche se un
individuo si mette in viaggio per guadagnarsi il pane, egli,
così facendo, inavvertitamente si muove per migliorare una
situazione. Ogni cosa é connessa con un'altra. Tutte le cose
hanno un'anima. La vitalità stessa scorre nel cuore della
creazione come un fiume impetuoso dal momento che tutto ciò che
è stato creato è come il cuore dell'universo, la creazione
costituisce il centro e non vi è essere vivente che non faccia
parte del cuore della creazione divina. Il cuore, infatti, è con
il sangue la fonte della vita. Accanto al principio della
«Intenzione» (kavanà), quindi, i Chassidim pongono il principio
essenziale della «vitalità» degli atti o dell'interiorità per
cui il Besht osservava: «Il principio fondamentale della Torà è
quello di occuparsi dello studio e della preghiera per aderire
all'interiorità spirituale, e la spiritualità della luce
dell'Infinito è implicita nella lettera della Torà e della
preghiera». Questo per dire che la Torà, con i suoi precetti,
rappresenta delle cose spirituali che elevano e purificano
l'anima. Il Besht facendo dell'intenzione, della vitalità e
dell'interiorità spirituale un principio essenziale, produce una
rivoluzione etica nel mondo spirituale dell'ebreo provocando in
lui un mutamento nel suo comportamento. Infatti, se il principio
essenziale dello studio e della preghiera rappresenta un modo
per servire Dio, allora si deve considerare che il valore di un
tempo fisso stabilito per la preghiera può costituire un
problema di mancata osservanza del principio stesso se essa
preghiera non viene elevata nel momento stabilito, di qui il
contrasto tra i Chassidim e i Mitnaghedim cioè i loro oppositori
rappresentanti del rabbinismo dell'epoca. Sorge peraltro un
problema nel caso che l'orante, nell'ora stabilita, non avverta
l'interiore trasporto alla preghiera. Come si risolve il
contrasto che sorge tra «l'intenzione» di pregare e la
prevaricazione del tempo stabilito dai Maestri per
l'assolvimento del proprio dovere religioso? D'altra parte, i
Maestri stessi dell'ebraismo hanno affermato: Raharnanà Libà ba'é
(=il Signore richiede il cuore); forse il principio della
preghiera è fondato sul movimento delle labbra e non sui moti
del cuore? Comunque, i Chassidim, sia pure in conflitto tra
loro, preferivano la preghiera detta con intenzione interiore
alla preghiera recitata entro il tempo giusto. Infatti, essi
rispondevano che l'intenzione di pregare costituisce ugualmente
una preghiera in cui la volontà si unisce all'esecuzione, cioè
la meditazione sulla preghiera costituisce la preghiera stessa.
Del resto, il Besht sosteneva che l'uomo si trova dove sta
pensando. Chi pensa alla preghiera, quindi, è come se pregasse.
Questo modo di sentire non veniva considerato dai Chassidim come
un'offesa o una diminuzione del valore della norma relativa alla
preghiera a tempo fisso. Del resto anche i Maestri avevano
insegnato che «il Santo Benedetto considera la buona intenzione
come l'atto stesso». Non così, però, pensavano i Mitnaghedim,
mentre i Chassidim ritenevano che la cosa essenziale fosse la
stabilità fissa nel cuore e non «il tempo stabilito» per la
recita della preghiera. Come la preghiera si applica al culto
del cuore così, per quanto riguarda Io studio della Torà,
avevano insegnato i Maestri. «L'uomo studi sempre nel luogo in
cui desidera studiare». I Chassidim attingono alle fonti del
classicismo ebraico dai salmi 1,2: «Il suo desiderio è la legge
del Signore e nel suo insegnamento medita giorno e notte», cioè:
è dovere meditare la Torà, ma è necessario suscitare
l'interesse, il desiderio dello studio. Pertanto, nel
Chassidismo l'attrazione allo studio costituisce un principio
essenziale. «O amico dell'anima mia, Padre misericordioso,
attira il tuo servo alla tua volontà». Il Besht insegnava a
servire il Signore con il culto del cuore, insegnava ad amare il
Creatore di un amore illimitato e a comprendere le intenzioni
della Torà in modo autentico. «L'uomo deve avere piena fiducia
nel Creatore che può quello che egli vuole; egli distrugge i
mondi in un attimo e li crea in un momento e in lui sono
radicati tutti i beni e le norme (cattive) che sono nel mondo,
perché in ogni cosa si esercitano la Sua influenza e la Sua
vitalità e soltanto a lui io tendo e in lui ho fiducia». «Una
persona che legge la Torà con grande amore ed entusiasmo scorge
la luce che è in essa; il Signore Dio benedetto non è pedante e
puntiglioso con lui, anche se questi non capisce le motivazioni
e non dice le cose come si deve. La cosa può essere paragonata
al comportamento di un piccino che è amato assai dal padre e al
quale il piccolo chiede qualcosa; anche se questi balbetta, il
padre trae godimento nel sentirlo». «L'uomo che prega, con la
sua preghiera e il suo studio, esercita un'influenza su tutti i
mondi, perfino gli angeli si nutrono della sua preghiera perché
l'uomo è una scala posta a terra la cui cima giunge al cielo ed
ogni suo movimento provoca impressione in alto» (cf M. Buber,
Racconti, 243). A Dio non si giunge con i digiuni e le
privazioni, bensì mediante la gioia e l'entusiasmo: «Lo servirò
con gioia perché non lo faccio per bisogno, ma per soddisfazione
di fronte a lui ».
Il Chassidismo eredita la concezione cabalista luriana secondo
la quale grazie allo Tzimtzúm, cioè alla contrazione di Dio dal
mondo (= uno pseudo ritirarsi dell'En-sof) Dio fece posto
al mondo fenomenico. Nel buio del caos, Dio proiettò la Sua
luce, l'Essere si frantumò nel divenire, cioè i «Vasi» che
esprimevano le multiformi manifestazioni della creazione, non
riuscendo a sopportare la potenza di luce dell'En-Sof si ruppero
per cui la luce si irradiò non in modo uniforme nell'universo.
Pertanto, nel creato vi sono zone di luce e zone di oscurità. Le
zone buie sono una specie di male negativo. Essendo stata
infranta la divina armonia, la Shechinà (la presenza immanente
di Dio) è andata in esilio. La luce divina attraversa qua e là
il buio per cui nel mondo vi sono zone di male e zone di bene
(oscurità e luce) mescolate insieme. Pertanto, non c'è male che
non contenga del bene, come non esiste bene che sia totalmente
esente dal male. Il male morale, che dipende dall'uomo, può
essere vinto dalla forza di volontà umana. L'uomo ha il compito
di operare il Tiqùn (= la redenzione). Il male è universale,
occorre quindi che gli uomini facciano uno sforzo comune per
vincere e creare dei mondi nuovi. Ogni individuo deve unirsi
alla collettività per conseguire insieme ad essa la redenzione
della vita universale, cioè per affrettare la redenzione
messianica. L'idea del rinnovamento universale porta ad un
motivo dominante nel Chassidismo, l'immanenza di Dio (la
Shechinà in esilio nel mondo attende che ogni uomo la ritrovi).
Questa immanenza divina va perseguita per conseguire l'unione
con il Divino. Tale unione con il Divino va conquistata
attraverso la gioia e l'entusiasmo, di qui il ballo e il canto.
Colui che può aiutare a trovare unione con Dio mediante la gioia
e l'entusiasmo è lo Zadiq, cioè il Rebbe che costituisce la
personificazione stessa della Torà, colui che fa da tramite con
la rivelazione divina presente nel mondo. Lo Zadiq è la figura
carismatica che accompagna gli ebrei alla scoperta dei mondi
superiori, perché egli conosce la strada giusta da percorrere e
può provocare il risveglio.
Gli elementi a disposizione della zadia per guidare l’ebreo
sono: l'Umiltà, la Preghiera e il Racconto. La Torà «è rivestita
di racconti e di storie perché non la si può trasmettere così
come è». Lo Zadíq, come fa la Torà, riveste il suo insegnamento
di argomenti di fantasia, presenta delle storie che possono
trarre in inganno coloro che vogliono impedire il Tiqún (= il
risveglio), ma in effetti lo Zadíq, con il racconto, riesce a
trasmettere i contenuti mistici che collegano l'ascoltatore ed
ogni cosa a Dio e che lo porta alla teshuvà (=alla conversione
morale), che costituisce la strada maestra per arrivare al Tiqún.
«Lo stile narrativo degli aneddoti chassidici è estremamente
semplice e i miracoli in esso descritti sono ingenui voli di una
fantasia ironica gentile e dimessa». Va tenuto presente che,
come nel racconto chassidico, nell'aneddoto si trasmette
l'eredità del patrimonio talmudico, il midrash, il racconto
popolare che educava le masse facendo loro avvertire, mediante i
voli della fantasia, le profonde verità etiche della Torà.
Grazie a questo modo popolare di trasmettere l'insegnamento, il
Chassidisimo riusciva a toccare profondamente l'animo
dell'ascoltatore e a trasmettergli la fiducia nell'azione
dell'uomo, dandogli sicurezza nello sviluppo delle proprie
capacità. In un mondo oscurato dal caos sociale, lo Zadíq
chassidico diviene così «l'anima del popolo». Come è stato
giustamente scritto, lo Zadíq «non è affatto un persuasore
dittatoriale, ma un vero e proprio Socrate dell'ebraismo»,
questo perché il Chassidismo predica che Dio si realizza
attraverso l'uomo ed Egli esiste quanto più esiste l'uomo (A. J.
Heshel, Dio alla ricerca dell'uomo). La figura dello Zadíq nel
Chassidismo assolve a diverse funzioni: egli è in continuo
conflitto con il cattivo istinto e questa sua lotta interiore
costituisce addirittura un servizio, un atto di amore, di gioia,
un momento di studio e di preghiera. Questa lotta interiore è
l'adempimento di una mitzvà (= precetto). Diceva Nachman di
Breslavia: « Il mondo dice che non si dovrebbe cercare la
grandezza, ma io dico che voi dovete cercare soltanto la
grandezza... quando cercate un Rebbe» (la parola è la
deformazione di Rabbi-Maestro che erano i rabbini-capo di un
gruppo chassidico). «Tutto ciò che vedete nel mondo, tutto
quello che esiste, serve di prova per dare all'uomo la libertà
di scelta».
Abbiamo già accennato alla gioia come sistema spirituale del
Chassidismo; infatti, questo movimento mistico nutrì e nutre un
.atteggiamento profondamente negativo verso la tristezza
considerata come un espediente del «cattivo istinto» per
danneggiare l'uomo. Perché mai la tristezza è considerata in
maniera così negativa dal Chassidismo? Perché si sosteneva che
la tristezza sottrae all'uomo la sua forza vitale, le sue
energie spirituali, impedendogli l'entusiasmo dinamico proprio
della religiosità. «L'uomo depresso si rinchiude in se stesso e
non viene sollecitato e scosso a procedere sul sentiero che
porta al culto divino. L'uomo depresso, rinchiuso in se stesso,
perde la sua forza vitale e non si accende di entusiasmo
spirituale» (Nachman di Breslavia). L'uomo deve sempre agire per
il suo Creatore, quindi deve fare in modo di arrecare
soddisfazione e piacere al Santo Benedetto. L'uomo deve agire
vivendo la sua religiosità in modo attivo e diretta al fine di
far piacere a Dio, poiché questo è il fine divino riguardo
all'uomo, cioè che viva vivacemente la vitalità divina. La
gioia, quindi, costituisce l'ingresso, l'approccio più consono
per avvicinarsi a Dio, l'approccio all'En-Sof (= all'Infinito),
che è nell'Ente. Ovviamente la gioia non è quella degli sciocchi
e dei sensuali, ma l'entusiasmo dinamico che desta il fondamento
divino che è nell'uomo. Questa concezione della gioia, come
processo volto al culto divino, rappresenta il focus del
pensiero chassidico. Va ricordato che il concetto di gioia, così
inteso, ha dei precedenti nell'insegnamento rabbinico (T.B.
Shahat 30b). Si racconta che Rabbà prima di iniziare lo studio
narrava delle cose scherzose e Rashì dice che il cuore dei
Maestri si apriva allo studio della Torà a causa della gioia che
era in loro. I Maestri ritenevano che soltanto la gioia
consentisse di avvertire quell'elevazione e quell'attaccamento
necessari per lo studio. Fintanto che il cuore dell'uomo è
insensibile e il suo spirito è pesante, non può risplendere
(accendersi) in lui la luce divina.
Questa gioia è la gioia di mitzvà. Tra i diversi espedienti a
disposizione del Chassidismo per arrivare al cuore dei propri
seguaci ed entusiasmarli, c'erano la musica, il canto e la
melodia. Grazie alla musica, i Rebbeim riuscivano a scuotere le
fibre intime dei loro ascoltatori. Grazie alla melodia, essi
tendevano non ad assopire o a distrarre gli interessi dei loro
discepoli, ma a purificare i loro cuori. Dobbiamo ricordare che
anche questo sistema di coinvolgimento è presente in molti testi
classici dell'ebraismo, primo fra tutti la Bibbia, il Canto di
Mosè e di Debora, il canto del Re Salmista (Sal 103,35) sono
stati ripresi dal Talmud. Si racconta che appesa al capezzale
del re David c'era un'arpa e quando a mezzanotte il vento
soffiava, facendo vibrare le corde dello strumento, il re
cantore si destava e componeva le sue celebri melodie in onore
dell'Eterno. I canti e le melodie composti dai Maestri del
Chassidismo divennero celebri fra gli ebrei dell'Europa
orientale. Il R. Nachman di Breslavia diceva ai suoi
ascoltatori: «Guardate voi come pregate? È possibile servire Dio
solo con le parole? Venite, vi insegnerò un modo nuovo di
pregare non attraverso le parole, ma mediante il canto. Noi
cantiamo ed Egli, il Santo Benedetto in alto, capirà il nostro
canto. Il principale mezzo di comunione con l'Uno, sia egli
Benedetto, può attuarsi da questo basso mondo mediante la
melodia e la musica...». R. Pinechas di Koretz soleva dire:
«Padrone del mondo, se fossi un musicista non ti consentirei di
vivere in alto, ma ti costringerei a venire in basso qui con
noi». Il canto e la melodia entrarono a far parte integrante
dell'insegnamento chassidico tanto che in ogni corte dei Rebbe
vi erano musicisti e cori pronti a registrare ogni nuovo tono e
a diffonderlo tra i loro aderenti per rendere più recettiva e
vitale la loro fede e il loro entusiasmo per la vita.
Nell'insegnamento lubavitch - un moderno movimento chassidico -
si sostiene che la voce stimola la kavanà: «La lingua, diceva R.
Sheneur Zalman, può essere paragonata alla penna del cuore, il
canto alla penna dell'anima». R. Hillel di Paretz diceva: «Chi
non ha un senso musicale non può avvertire il valore del
Chassidismo». Il Chassidismo ha avuto ed ha ancora un grande
successo nel mondo ebraico di ieri e di oggi. Va, comunque,
detto che il Chassidismo non ha modificato sostanzialmente le
forme tradizionali mediante le quali si è espresso l'ebraismo,
cioè non ha modificato né la Torà né il modo di vivere e
praticare l'ebraismo mediante le mitzvot (=norme della vita
ebraica). Il Chassidismo fu ed è un movimento mistico che tentò
di trasferire un modo di sentire il rapporto con la divinità non
come un fenomeno elitario, cioè proprio di alcuni individui, ma
come un processo umano coinvolgente, collettivo. Ai singoli
ebrei dispersi nei villaggi ucraini recò il conforto e la gioia
di far parte di una comunità umana aperta cui veniva insegnato
che tutto è divino, che Dio è vicino a coloro che lo cercano e,
pertanto, ogni ebreo che voleva poteva essere un Chassid.
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