Per comprendere il sistema esposto da Patanjali è pure necessario ammettere l’esistenza dell’anima ed in confronto la non importanza del corpo fisico che essa abita. Poiché Patanjali sostiene che la Natura esiste solo per l’interesse dell’anima, nell’esistenza della quale è scontato che lo studente creda. Quindi egli non si prende la pena di provare ciò che ai suoi tempi era ammesso da tutti. E siccome egli afferma che il reale sperimentatore e conoscitore è l’anima e non la mente, ne consegue che quest’ultima, definita un "organo interno" o "principio pensante", benché più elevata e sottile del corpo, non è altro che uno strumento adoperato dall’anima per acquisire delle esperienze, nella stessa maniera in cui un astronomo adopera il suo telescopio per ottenere delle informazioni sui cieli. Ma la mente è un fattore importantissimo nel conseguimento della concentrazione; questa, d’altra parte, non può essere ottenuta senza la mente, ed osserviamo che perciò nel Libro I Patanjali vi dedica la sua attenzione. Egli dimostra che la mente è, come egli la definisce, "modificata" da tutti gli oggetti o soggetti che le sono presentati o verso i quali è rivolta. Questo può essere ben illustrato dalla citazione di un brano del commentatore: "L’organo interno è paragonato (nel Vedanta Paribbasha) all’acqua, a motivo della sua capacità di adattarsi alla forma di qualsiasi modello. Come le acque di un serbatoio, defluendo attraverso un’apertura, passano per un canale in bacini e prendono una forma rettangolare o un’altra forma, secondo la geometria del recipiente che le contiene, nello stesso modo l’organo interno, manifestandosi, passa per la vista o per un altro canale, per raggiungere un oggetto – per esempio una brocca – e si modifica secondo la forma della brocca o di un altro oggetto. É questa condizione alterata dell’organo interno – o mente – che è chiamata la sua modificazione". Mentre l’organo interno si modella in tal modo sull’oggetto, nello stesso tempo riflette tale oggetto e le sue proprietà, sull’anima. I canali attraverso i quali la mente è obbligata a passare per giungere ad un oggetto o ad un soggetto, sono gli organi della vista, del tatto, del gusto, dell’udito, etc… Così, dunque, attraverso l’udito essa assume la forma dell’idea che può essere data con la parola o, attraverso gli occhi, dalla lettura, prende la forma di ciò che è stato letto, ed ancora, le sensazioni quali il caldo e il freddo la modificano direttamente e indirettamente per associazione e ricordo, e ugualmente avviene nel caso di tutti i sensi e di tutte le sensazioni.
É inoltre risaputo che quest’organo interno, pur avendo un’innata disposizione ad assumere l’una o l’altra modificazione che sono in funzione di un costante ritorno degli oggetti – sia che questi ultimi si presentino direttamente, sia che, per associazione od altrimenti, provengano unicamente dal potere di riproduzione del pensiero – può essere controllato e ridotto ad uno stato di calma assoluta. É proprio questo che Patanjali intende con "impedire le modificazioni". Si vede bene in questo caso, la necessità della teoria che fa dell’anima la reale sperimentatrice e conoscitrice. Poiché se noi fossimo solo la mente o degli schiavi della mente, non potremmo mai raggiungere la reale conoscenza, perché l’incessante panorama degli oggetti modifica continuamente quest’organo non controllato dall’anima, impedendogli sempre di raggiungere la vera conoscenza. Ma poiché l’Anima è considerata superiore alla mente, essa ha il potere d’impossessarsene e di tenerla sotto controllo, a condizione però che noi utilizziamo la volontà per aiutarla in questo lavoro. É allora solamente che si realizzano il fine reale ed il vero scopo della mente. Queste tesi implicano che la volontà non è completamente dipendente dalla mente ma che può esserne separata e, inoltre, che la conoscenza esiste come un’astrazione. La volontà e la mente non sono che dei servitori a disposizione dell’Anima. Ma da così lungo tempo siamo dominati dalla vita materiale e non ammettiamo che il reale conoscitore – e il solo sperimentatore – è l’anima, che questi servitori restano gli usurpatori della sovranità dell’anima. É per questo che nelle antiche opere Indù si afferma che "l’Anima è l’amica del sé ma anche la sua nemica" e che l’uomo deve elevare il sé attraverso il Sé". In altre parole, c’è una lotta costante tra il sé inferiore ed il Sé Superiore. Le illusioni della materia intraprendono di continuo una guerra senza tregua contro l’Anima, tendendo sempre a trascinare verso il basso i principî interiori i quali, essendo situati in posizione mediana tra il superiore e l’inferiore, sono capaci di raggiungere sia la salvezza che la dannazione.
Negli Aforismi non c’é alcuna allusione alla volontà. Essa pare sottintesa, sia come una realtà ben compresa ed ammessa, sia come uno dei poteri dell’anima stessa di cui non si discute. Numerosi antichi Autori Indù ritengono, e noi siamo disposti ad adottare il loro punto di vista, che la Volontà è un potere spirituale, una funzione o un attributo, costantemente presente in ogni parte dell’Universo. É tuttavia un potere incolore al quale non può essere attribuita nessuna qualità di bene o di male, ma che può essere usato in qualsiasi modo scelto dall’uomo. Quando tale potere è considerato come ciò che nella vita ordinaria si dice "volontà", osserviamo che esso opera unicamente in connessione con il corpo materiale e con la mente, guidato dal desiderio; considerato sotto l’aspetto dell’influenza dell’uomo sulla vita, esso è più misterioso, perché la sua azione va oltre la portata della mente; analizzato nei suoi rapporti con la reincarnazione dell’uomo o con la persistenza dell’Universo manifestato attraverso un Manvantara, esso appare ancora più lontano dalla nostra comprensione e vasto nel suo fine. Nella vita ordinaria la volontà non è schiava dell’uomo, ma essendo guidata solo dal desiderio, essa fa dell’ uomo uno schiavo dei propri desideri. É da questo fatto che ha avuto origine l’antica massima cabalistica "dietro la Volontà sta il Desiderio". I desideri, trascinando di continuo l’uomo in ogni direzione, lo inducono a commettere delle azioni e a generare dei pensieri che sono di natura tale da determinare la causa e la forma di numerose incarnazioni, e lo asservono ad un destino contro il quale egli si ribella e che costantemente distrugge e ricrea il suo corpo mortale. É un errore dire di color che sono conosciuti come uomini di forte volontà, che i loro voleri sono completamente a loro asserviti, poiché essi sono talmente imprigionati nel desiderio, che quest’ultimo, essendo forte, mette in azione la volontà verso la realizzazione degli scopi desiderati. Ogni giorno osserviamo degli uomini, buoni o cattivi, prevalere nei loro diversi campi di azione. Dire che negli uni la volontà è buona e negli altri è cattiva è un errore evidente e dovuto al fatto di scambiare la volontà, lo strumento o la forza, con il desiderio che la mette in azione verso uno scopo buono o cattivo. Ma Patanjali e la sua scuola sapevano bene che si sarebbe potuto scoprire il segreto che permette di dirigere la volontà con una forza dieci volte superiore all’ordinaria, se essi ne avessero indicato il metodo, e che degli uomini malvagi dai forti desideri e privi di coscienza, l’avrebbero utilizzata impunemente contro i loro simili; essi sapevano anche che perfino degli studenti sinceri possono essere sviati dalla spiritualità se rimangono abbagliati dai risultati stupefacenti prodotti da un addestramento soltanto della volontà. Così Patanjali, per queste ed altre ragioni, conservò il silenzio sull’argomento.
Il suo sistema postula che Ishwara, lo spirito nell’uomo, non è toccato dalle afflizioni, dalle azioni, dai frutti delle azioni o dai desideri, e che quando un fermo atteggiamento è assunto allo scopo di raggiungere l’unione con lo spirito attraverso la concentrazione, Esso viene in aiuto del sé inferiore e lo eleva gradualmente a dei piani superiori. In questo processo la Volontà acquisisce gradualmente una tendenza sempre più forte ad agire secondo una linea differente da quella tracciata dalla passione o dal desiderio. Così essa si libera dal dominio del desiderio e finisce per assoggettare la mente stessa. Ma fino a quando la perfezione in tale pratica non è raggiunta, la volontà, continua ad agire secondo il desiderio, soltanto che quest’ultimo si è trasformato in aspirazione per cose più elevate e lontane da quelle della vita materiale. Il Libro III ha lo scopo di definire la natura della condizione di perfezione, che qui è detta Isolamento. L’Isolamento dell’Anima in questa filosofia non significa che un uomo si separa dai suoi simili diventando freddo e duro, ma significa unicamente che l’Anima è separata o liberata dalla schiavitù della materia e del desiderio, essendo a questo punto capace di agire in vista di compiere il fine della Natura e dell’Anima Universale che include le anime di tutti gli uomini. Questo fine è chiaramente indicato negli Aforismi. Numerosi lettori e pensatori superficiali, per non parlare di quelli che si oppongono alla filosofia Indù, non mancano di affermare che gli Jivanmukta o Adepti, si separano da ogni forma di vita umana, da ogni attività e da ogni partecipazione delle faccende collettive, isolandosi su delle inaccessibili montagne dove nessun grido può raggiungere le loro orecchie. Una tale accusa è direttamente in antitesi ai principî della filosofia che prescrive il metodo ed i mezzi per raggiungere una simile condizione. Questi Esseri certamente sono inaccessibili all’osservazione umana ordinaria ma, come chiaramente espone questa stessa filosofia, hanno l’intera natura come obiettivo, e questo includerà tutti gli uomini viventi. Può sembrare che non si interessino ai progressi od ai miglioramenti transitori, ma essi lavorano dietro le scene dell’autentica illuminazione fino a quando i tempi e gli uomini saranno maturi per sopportare la loro apparizione in forma mortale.
Il termine "conoscenza" come è qui usato, ha un significato più vasto di quello che abitualmente gli diamo. Esso implica una completa identificazione della mente, per un certo periodo di tempo, con un oggetto o soggetto qualunque sui quali può essere diretta. La scienza e la metafisica moderna non ammettono che la mente possa conoscere oltre i confini di certi metodi prestabiliti e di limitate distanze, e nella maggior parte dei suoi rami l’esistenza dell’anima viene negata o ignorata. Non è ad esempio concepibile che si possano conoscere i costituenti di un blocco di pietra senza mezzi meccanici o chimici adoperati direttamente sull’oggetto, e che si possa diventare coscienti dei pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, a meno che essa non li esprima con parole od in azioni. Quando i metafisici trattano dell’anima, restano nel vago e sembrano temere l’approccio scientifico poiché non è possibile sottoporre l’anima ad un’analisi chimica, né pesarne le parti su di una bilancia. L’Anima e la Mente vengono ridotti alla condizione di strumenti limitati che registrano certi fatti fisici posti alla loro portata attraverso dei mezzi meccanici. In un altro campo,m come ad esempio in quello della ricerca etnologica, si ritiene che si possa ottenere questa o quell’altra informazione su certe razze di uomini, per mezzo dell’ osservazione fatta con l’aiuto della vista, del tatto, del gusto e dell’udito: in questo caso la mente e l’anima sono ancora dei semplici registratori. Ma il sistema di Patanjali sostiene che il praticante che ha raggiunto certi stati, può dirigere la sua mente su di un blocco di pietra collocato lontano o vicino, su di un uomo o su di una classe di uomini e che può, per mezzo della concentrazione, conoscere tutte le qualità intrinseche di questi oggetti, come pure le loro caratteristiche occasionali, e sapere tutto attorno al soggetto. Così, ad esempio, per quanto concerne gli indigeni dell’Isola di Pasqua, l’asceta può conoscere non solo quello che è visibile attraverso i sensi o che può essere conosciuto attraverso una lunga osservazione o ciò che è stato registrato, ma anche le qualità profonde e la linea esatta di discendenza e di evoluzione del particolare tipo umano esaminato. La scienza moderna non può sapere niente degli indigeni dell’Isola di Pasqua e non fa che delle vaghe supposizioni sulla loro origine; essa non può nemmeno dirci con certezza ciò che è e da dove è venuto un popolo come quello Irlandese, che ha sotto gli occhi da così lungo tempo. Nel caso del praticante dello Yoga egli è capace, attraverso il potere della concentrazione, di identificarsi completamente con la cosa considerata e di compiere così, interiormente, l’esperienza diretta di tutti i fenomeni e di tutte le qualità manifestate dall’oggetto.
Perché sia possibile accettare tutto ciò che precede, è necessario ammettere l’esistenza, l’utilizzazione e la funzione di un mezzo eterico che compenetra tutte le cose, chiamato Luce Astrale o Akasa dagli Indù. La distribuzione universale di questo mezzo è un fatto della natura che si trova metafisicamente espresso nei termini "Fratellanza Universale" e "Identità Spirituale". É in questo mezzo, con il suo aiuto, e attraverso la sua utilizzazione, che le caratteristiche ed i movimenti di tutti gli oggetti sono universalmente conoscibili. Esso è, per così dire, la superficie sensibile sulla quale sono incise tutte le azioni umane, tutti gli oggetti, i pensieri e le situazioni. L’indigeno dell’Isola di Pasqua è il residuo di un ceppo che ha lasciato la sua impronta in questa Luce Astrale, e porta con sé la traccia indelebile della storia della propria razza. L’asceta, durante la concentrazione, fissa la propria attenzione su questa impronta, e poi legge la registrazione perduta per la scienza. Ogni pensiero di Herbert Spencer, di un Mill, di un Bain o di un Huxley, è collegato, nella Luce Astrale, al rispettivo sistema filosofico da essi formulato, e tutto ciò che l’asceta deve fare consiste nel trovare un semplice punto di partenza connesso con uno di questi pensieri e di leggere poi nella luce astrale, tutto ciò che essi hanno pensato. Ma Patanjali e la sua scuola, considerano tali prodigi come relativi alla materia e non allo spirito, per quanto essi sembrare piuttosto assurdi a delle orecchie occidentali o, tutto al più, se si concede loro qualche credito, appaiano come dei prodigi provenienti dallo spirito.
WILLIAM QUAN JUDGE