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Il vecchio mito di Faust, che vende a Mefistofele la propria anima in cambio della felicità, ben si attaglia ai sentimenti che la gran parte degli Italiani nutriva per Giolitti, artefice nel bene e nel male delle sorti del Paese.
Il capo del governo aveva promesso una rifondazione sociale ed essa non si era avverata. Aveva promesso una pace stabile ed essa non si era verificata. Aveva promesso un relativo benessere, ma l'indigenza imperversava. Aveva promesso una guerra breve e fruttuosa, ma il conflitto durava senza prospettive di soluzione rapida e vantaggiosa.
Evidente lo sconforto dell'opinione pubblica, che anche nelle sue fasce tradizionalmente più solidali con Giolitti cominciava a manifestare segni di stanchezza per uno sforzo che si rivelava ogni giorno impari alle possibilità del Paese.
Dal canto suo, il presidente del Consiglio stava impegnando tutte le sue doti di navigato politicante nel risolvere il complicato intrico internazionale in cui aveva posto l'Italia, ponendo esplicitamente in second'ordine tutte le questioni interne che pure richiedevano un immediato intervento.
Anziché la felicità, le recenti vicende politiche e militari avevano portato il Paese a uno stato di prostrazione ideale ed economica da cui sarebbe stato difficile risollevarsi: dal canto suo, Giolitti pareva non vedesse altra soluzione che proseguire imperterrito sulla sua strada, quasi che le vicende del popolo che lo aveva scelto come guida non lo riguardassero da vicino.


"L'uomo di pietra", 24 febbraio 1912