Le agitazioni sociali, intuibili nel Mezzogiorno fin dal 1897, secondo quanto aveva documentato lo stesso Giustino Fortunato, esplosero nella primavera del 1898 per tutta la penisola. L’insurrezione popolare milanese dei primi giorni di maggio fu preceduta da un infiammato clima generale pervaso da violente dimostrazioni antigovernative, da ‘incidenti’ da parte della polizia e, non ultima, dalla rievocazione delle cinque giornate del 1848. Come commissario straordinario a Milano, il generale Bava-Beccaris (soprannominato dall’opinione pubblica Barba-Beccaio per la sua crudeltà) represse duramente i moti popolari non esitando a far uso dei cannoni per riportare la città alla ‘normalità’. Le fonti del tempo riferiscono della morte di un numero imprecisabile di cittadini, non lontano comunque dal centinaio, oltre ai 450 feriti. Si susseguirono arresti a catena in un crescendo indiscriminato. Le persecuzioni colpirono noti personaggi come Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Costa, Bissolati, Lazzari, Valera, De Andreis e anche don Davide Albertario, direttore dell’edizione milanese del l’ "Osservatore cattolico". La repressione non investì solamente gli uomini, poiché furono posti fuori legge decine di giornali, disciolte le associazioni sindacali, le banche contadine, le Camere del Lavoro, chiusi un numero elevatissimo di comitati parrocchiali e in genere tutte quelle organizzazioni popolari che avrebbero in qualche modo potuto dare fastidio alle autorità. Bava-Beccaris si guadagnò l’incondizionato plauso della monarchia a tutto disposta pur di conservare in vita le istituzioni tradizionali. Lo spettro della guerra civile incombeva sull’Italia: per questo tutti i giornali (almeno quelli che non erano stati soppressi) lanciavano appelli alla pacificazione, richiamando gli ideali risorgimentali ed evocando, come per esorcizzare i mali presenti, le figure di Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele. “Pasquino", 15 maggio 1898.
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