Per l'immagine ingrandita (1100x850)


 

 


 

Con la pubblicazione, nel 1896, del romanzo Le vergini delle rocce, D’Annunzio codificò l’ideale politico del ‘superuomo’. L’opera rappresentò per il poeta (il cui cognome vero era, come ricorda la didascalia, Rapagnetta) il punto d’arrivo della concezione dell’essere creatore del proprio destino oltre ogni freno morale, del supremo disprezzo del genio verso coloro che non abbiano conosciuto la consacrazione divina. Celebre come intellettuale, D’Annunzio decise di rivolgere le proprie doti di ‘superuomo’ alla politica, accettando la candidatura alle elezioni del 1897 per il collegio di Ortona a Mare. Mentre accentuava il proprio distacco dalle fazioni politiche («Sarà stupenda la singolarità delle mie abitudini sui banchi di Montecitorio»), d’altro canto brigava per garantirsi i voti dei conservatori.
A Pescara tenne un acceso comizio sull’aperta difesa della proprietà privata che gli valse le simpatie dei latifondisti e l’apprezzamento personale di Crispi: eletto facilmente, si sedette tra i banchi dell’estrema destra, ciò che non gli impedì tre anni dopo di passare d’un balzo (il cosiddetto ‘salto della siepe’) all’estrema sinistra: probabilmente per manifestare contro il reazionario governo Pelloux per andare «verso la vita».
Per la verità fu tutt’altro che assiduo alle sedute di Montecitorio, avendo preferito, dal 1899, gli ozi nella villa della Capponcina presso Settignano e la compagnia della Duse: una vita fastosa ben presto soffocata dai debiti.
È comprensibile, dunque, che fin d’allora il futuro ‘vate’ occupasse le pagine delle cronache e fosse l’obiettivo prediletto dei disegnatori satirici: ancora di più lo sarà alle elezioni del giugno 1900, quando solleciterà i socialisti a proporlo nuovamente candidato per uno dei collegi di Firenze e concluderà momentaneamente la sua carriera politica con un tonfo senza precedenti.


"Pasquino", 29 agosto 1897