I postumi del trasformismo, malattia tipica di un regime rappresentativo giovane come quello italiano, alla ricerca della democrazia, si ritrovano in questa vignetta del "Pasquino", di poco successiva alla costituzione del governo presieduto dal Di Rudinì. L’esigenza di dar vita a coalizioni politiche di una certa entità e che tenessero conto di fenomeni tipici fin dalle origini dei partiti politici italiani, come il frazionismo e l’abuso del clientelismo, aveva già in passato portato alla costituzione di governi ibridi. Crispi addirittura guidò i suoi governi spesso attraverso conflittualità interne senza tenere in grande considerazione le accuse di incoerenza rivolte a lui, come già ai suoi predecessori, da opinione pubblica e avversari politici. Di Rudinì si adattò senza troppi problemi a questa prassi. Oltretutto, il suo governo nasceva su presupposti molto fragili e in un clima arroventato. Già scosso alle fondamenta dalla ‘questione morale’ e dalla strage dell’Amba Alagi, il gabinetto Crispi crollò in seguito al disastro militare di Adua (1896) e il Di Rudinì (che peraltro aveva avuto una parte di primo piano nella defenestrazione), chiamato a sostituirlo, non fece altro che costituire una compagine comprendente uomini di estrazioni diversissime accomunati solo dall’ostilità a Crispi. Senza una precisa collocazione politica, il nuovo gabinetto collezionò insuccessi in ogni campo, nel tentativo impossibile di accontentare tanto la vecchia borghesia moderata quanto i fermenti dei ceti operai. Costretto a un rimpasto in luglio, Di Rudinì riuscì a concludere la pace con l’Abissinia (26 ottobre) e a districarsi nei nodi della politica internazionale, ma sul piano interno la politica del berretto rivoluzionario e della parrucca nobiliare al momento opportuno, usata con scarsa prudenza, alla lunga si rivelerà inadeguata all’effettiva importanza dei problemi sul tappeto. "Pasquino", 29 marzo 1896
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