I rapporti tra Stato e Chiesa nel 1870-1871 non si potevano certo definire ‘cordiali’. Dopo la presa di Roma, infatti, Pio IX rifiutò qualsiasi trattativa volta al raggiungimento di un accordo tra le due istituzioni. Il pontefice aveva scomunicato tutti coloro che, sia pur minimamente, potevano aver contribuito all’occupazione. Per spiegare lo stato d’animo e la disposizione del Vaticano verso il regno basti pensare che per ben 58 anni i pontefici non varcarono i confini vaticani e che fu proibito (l’interdizione cadde solo nel 1920) ai capi di Stato cattolici di recarsi in visita ufficiale a Roma. La nobiltà capitolina si divise in due fazioni: l’aristocrazia nera fedele al papa e quella bianca fedele al re. Un rimedio si tentò con la legge delle guarentigie (13 maggio 1871) di cui furono artefici Lanza e Visconti-Venosta. La legge era divisa in due capitoli: uno relativo al pontefice e uno che regolava i rapporti tra Chiesa e Stato. A Pio IX era concessa la libertà di trattare con i cattolici all’estero, di indire concili e l’immunità delle tre residenze. Inoltre venivano riconosciuti particolari privilegi alla stampa pontificia e venne assegnata al papa una dotazione annua di 3.225.000 lire. Lo Stato italiano, dal canto suo, rinunciava alla nomina dei vescovi; ma manteneva il diritto sulle provviste beneficiarie delle sedi vescovili. "Pasquino", 5 marzo 1871
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