Per l'immagine ingrandita (1100x850)


 

 


 

Che l’Italia abbia ricalcato, nelle sue strutture, il modello piemontese è cosa innegabile. Lo Stato italiano venne costruito dall’alto, da quella minoranza che fu protagonista dell’unificazione e, stretto ai fianchi da due forze temibili, quali la Chiesa e i repubblicani, scelse la centralizzazione più assoluta per difendersi.
Il Paese venne diviso in 59 province presiedute da prefetti e suddivise in comuni guidati da sindaci.
I problemi erano enormi: si dovevano unificare 7 sistemi fiscali diversi e codici legislativi differenti da regione a regione. Era urgente creare una sola amministrazione perché le divisioni interne contribuivano a far vacillare la già precaria coscienza nazionale.
A questi ostacoli se ne aggiungevano altri: si trattava di scegliere se utilizzare nel pubblico impiego i vecchi funzionari, servitori degli antichi regimi, o i nuovi impiegati impreparati ma fedeli alla monarchia, e di vincere le resistenze che la nuova amministrazione, come del resto si evince dalla vignetta, incontrava nel Paese. «Un’orda di funzionari e poliziotti piemontesi era calata su Napoli» dice Seton-Watson «per restaurare l’ordine dopo il crollo dei Borboni... con scarso tatto e con il paternalismo tipico della Destra, si misero all’opera per portare la civiltà in una terra ‘medievale’ di barbarie e di corruzioni».
II giudizio non è del tutto negativo: l’amministrazione piemontese fu certo piatta e non innovatrice, ma tuttavia fu onesta, efficiente e ispirata a un ideale di moderazione e di tolleranza nei confronti della libertà civile.


"Spirito Folletto", Milano, 22 maggio 1870