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IL LIBRO DEI LIBRI NELLE SUE TRADUZIONI

 

Dopo aver parlato dei manoscritti del ‘Libro dei libri’, consideriamo ora le sue traduzioni. Il soggetto è certamente vasto; e si comprende bene che non è possibile occuparsi di tutte le traduzioni; ci limiteremo quindi alle principali; e, fra le principali, sceglieremo quelle che hanno un interesse speciale per noi.
Delle traduzioni greche dell'Antico Testamento non ricorderemo che la classica e giustamente la più famosa: la versione ‘Alessandrina’ detta dei 'Settanta'. Il manoscritto di questa versione, lo trovò Costantino Tischendorf, nel 1859, nel Convento di Santa Caterina sul monte Sinai. L’Alessandrina, è la prima traduzione fatta dall'originale ebraico in altra lingua, essa fu la Bibbia dei Giudei ellenisti che parlavano il greco, vale a dire dei Giudei, non solo d'Egitto e di Palestina, ma anche di quelli sparsi per tutta l'Asia occidentale e per l'Europa; e fu la madre di tutte le successive traduzioni. Creò addirittura il linguaggio religioso che doveva poi tanto servire al cristianesimo; ed è la traduzione di un testo ebraico scomparso che era di almeno dodici secoli più antico del più antico manoscritto ebraico che oggi possediamo.


Quale ne fu l'origine? I particolari relativi a questa origine li abbiamo in una lettera scritta da Aristea a Filocrate ai tempi di Tolomeo Filadelfo, re d'Egitto, nel terzo secolo prima di Cristo. Li riassumiamo brevemente.

Tolomeo, grande cultore dei libri, aveva ad Alessandria una Biblioteca, il cui ricordo è rimasto di fama mondiale. Direttore, come diremmo noi oggi, di quella Biblioteca era un certo Demetrio Falereo. Questi, parlando un giorno col re, gli disse: “Maestà, nella nostra Biblioteca c'è una grave lacuna”. “Che lacuna?” rispose il re. E Demetrio: “Vi manca una traduzione greca delle leggi giudaiche”. “E facciamola far subito”, replicò il re. E l'altro: “Ma chi sarà l'Israelita disposto a farcela, considerato che nei vostri domini, Maestà, ci sono tante e tante migliaia dei suoi fratelli che voi tenete schiavi?...” Tolomeo rimase lì per lì un poco soprappensiero; ma poi, siccome non era uomo da darsi per vinto, che fece? Due cose: diede immediatamente la libertà a centomila schiavi giudei, e stanziò una fortissima somma di danaro per far eseguire l'opera mancante nella Biblioteca. Fece ordinare un magnifico pellegrinaggio a Gerusalemme, del quale erano parte cospicua i centomila Giudei affrancati. Arrivato il pellegrinaggio a Gerusalemme, gli incaricati da Tolomeo si presentarono ad Eleazaro, sommo sacerdote; lo sbalordirono con regali d'oro, d'argento e d'altro, e gli presentarono la lettera con la quale Tolomeo gli chiedeva un esemplare della Legge e dei dotti Giudei capaci di tradurla in greco. Lo splendore del ritorno non ebbe nulla da invidiare a quello dell'andata. E col pellegrinaggio vennero settantadue dotti anziani dei Giudei, sei per ognuna delle dodici tribù, i quali, Aristea li ricorda tutti per nome, portavano con loro delle squisite pergamene della Legge.

Il ricevimento fatto ad Alessandria agli anziani fu addirittura regale. Si cominciò con un banchetto, e con delle feste, come Tolomeo soltanto sapeva e poteva ordinarle. Durante il banchetto, il re si assicurò, con settanta domande, che quei Giudei fossero proprio dei dotti; e, finalmente, il prefetto Demetrio condusse gli anziani nell'isola di Faro (1), dove un sontuoso fabbricato fu messo a disposizione dei settantadue traduttori, in un luogo assolutamente tranquillo. Qui, l'ispirazione non mancò; e in settantadue giorni precisi, il lavoro, fatto in comune e copiato sotto la direzione di Demetrio, fu pronto. Tale, la narrazione di Aristea; alla qual narrazione la fantasia popolare dei primi secoli del cristianesimo non mancò di aggiungere delle fantasticherie. Questa, per esempio: che i settantadue traduttori non avevano lavorato in comune, ma separati, in settantadue celle; che avevano sempre lavorato indipendentemente l'uno dall'altro, e che alla fine soltanto avevano confrontato il loro lavoro: lavoro, che era risultato preciso, identico, senza una sillaba di differenza, in tutte le settantadue traduzioni. E tutto questo per concluderne che la traduzione era stata un “miracolo”, l'opera diretta dello Spirito Santo (sic!).

 
La critica, naturalmente, ha lavorato su questa leggenda di Aristea; ha ridotto le cose alle loro giuste proporzioni, ed ha assodato: che la versione nacque per la necessità in cui si trovarono i Giudei alessandrini d'avere una Bibbia greca, quando non capivano più il loro idioma nazionale; che fu fatta in Alessandria; che il suo nucleo primitivo fu la Legge; che questo primo nucleo, il quale al principio del terzo secolo avanti Cristo era già in voga fra i Giudei alessandrini, vide la luce non più tardi del regno di Tolomeo Filadelfo (2), e che il rimanente dell'Antico Testamento fu tradotto più tardi, in vari tempi, molto probabilmente prima dell'alba dell'era cristiana.


Prima di trasferirci in Occidente, fermiamoci, un istante, dinanzi alla famosa traduzione semitica della Legge, nota col nome di Pentateuco Samaritano.
La storia delle origini dei Samaritani è narrata in II Re XVII. 24 e seg.
I Samaritani erano un miscuglio di cinque nazioni, fatte venire dall'Oriente da Assarhaddon per ripopolare il regno di Samaria, dal quale Salmanazar aveva portato via gli abitanti.
Al culto dei loro diversi dèi nazionali i nuovi venuti avevano aggiunto quello della divinità del paese, Jahveh. Terminata la cattività di Babilonia, essi offrirono ai Giudei i loro servizi per aiutarli a ricostruire il Tempio di Gerusalemme. I Giudei non ne vollero sapere; allora questi, che avevano parecchio credito presso i re di Persia, fecero di tutto per ostacolare il ristabilimento del popolo giudeo. Si costruirono un Tempio sul monte Garizim. Il loro primo sacerdote fu Manasse, sacerdote giudeo che aveva sposato una donna di Persia. Inutile ricordare come i Giudei detestassero i Samaritani (Giov. lV. 9).
Ora, che esistesse una recensione samaritana della Legge, vale a dire una versione del Pentateuco (3) nel dialetto usato dai Samaritani era noto, perché ne avevano parlato Origene, Girolamo, Eusebio, ma nessuno l'aveva mai vista. Finalmente, nel 1616, un viaggiatore, Pietro della Valle, capitato fra i Samaritani di Damasco, ne trovò un esemplare, e lo comprò. Poi ne fu trovato un altro esemplare in Egitto; ma la nave che lo portava in Europa fu catturata dai pirati, e non se ne seppe più nulla. Oggi se ne hanno circa sedici codici, sparsi nelle varie Biblioteche d'Europa. L'esemplare più famoso è quello che si trova nella sinagoga di Nablus (Neapolis) l'antica Sichem, tra l'Ebal e il Gherizim, dove i Samaritani, ridotti oramai a poco più di un centinaio, continuano il culto dei loro padri.

Il Pentateuco samaritano è la prova più evidente dell'influsso che la versione Alessandrina dei Settanta esercitò in Palestina. La questione delle relazioni che esattamente passano fra il Pentateuco samaritano e l’Alessandrina dei Settanta e il testo ebraico è stata molto discussa e risolta in vari sensi.
Oggi gli studiosi concordano nell'accettare la conclusione del Gescuius (4), che è questa: il fatto che i due Pentateuchi, samaritano e alessandrino, sono d'accordo fra loro ma non col testo ebraico masoretico che possediamo noi, dimostra che entrambi derivano da una fonte comune, esistente prima che fosse fissato il testo masoretico e il fatto che i due Pentateuchi non sempre concordano tra loro dimostra che il testo della Legge, prima d'esser fissato in modo unico, definitivo, esisteva in più di una recensione.

In Occidente, prima di tutto, troviamo l'antichissima Itala, come la chiamò Sant'Agostino, o Vulgata et communis, come la indicò, San Girolamo, o la Vetus, l’antica , come invece la designò San Gregorio.
È inutile che si indichi che si tratta di una Vulgata anteriore a quella che generalmente indichiamo con questo nome e che, come vedremo, fu opera di San Girolamo. Questa è la Vulgata del secondo secolo; quella di San Girolamo, invece, è la Vulgata che nascerà sul tramonto del quarto, e non prenderà il nome di Vulgata che molto più tardi.
Al principio dell'era cristiana, il latino s'andava a poco a poco sostituendo al greco, per diventare la lingua comune d'Occidente. Sant'Agostino ci dice che fin dai primissimi tempi del cristianesimo, la Chiesa latina possedette molte versioni delle Scritture, fatte da autori ignoti; ma su tutte primeggiò l’Itala. L'autore di questa versione non si sa chi fosse; che fosse originaria dell’Africa settentrionale è probabile; e che dati verso il 110 si può dire con certezza.
Verso la metà del quarto secolo, data la confusione, provocata dal gran numero di traduzioni anonime, cresciuta a dismisura per la sciatteria degli scribi, e l’ Itala, per l'ignoranza dei copisti, era ridotta in uno stato pietoso, la Chiesa d'Occidente considerò necessario un testo ufficiale della Bibbia. Damaso, allora vescovo di Roma (5), affidò l'incarico di preparare quel testo a San Girolamo, che nel 382 era appunto capitato a Roma. San Girolamo, che sapeva benissimo il latino, bene il greco e discretamente l'ebraico, si mise all'opra; e nel 383 ebbe pronti i quattro Vangeli; nello stesso anno o poco dopo preparò gli Atti e il resto del Nuovo Testamento; e fra il 390 e il 405 tradusse il Testamento Antico. Ed ecco in che modo condusse il suo lavoro. Prese dall’Itala, tali e quali, i cosi detti Libri apocrifi ; dall’Itala prese tutto il Nuovo Testamento e il Salterio, emendandoli qua e là; mentre tradusse dall’originale gli altri libri del Canone giudaico.
L'opera di San Girolamo fu opera di un filologo non sempre immacolato, ma esperto e coscienzioso. E, per quanto fosse a volte più interprete che traduttore, altre volte troppo vago di dare sfumatura messianica a dei passi che messianici non sono, altre volte ancora si compiacesse in qualche amplificazione, e in alcuni libri che tradusse troppo rapidamente si dimostrasse trascurato e quasi disattento, pure, San Girolamo lasciò un lavoro, nel suo complesso, di vasta dottrina, di pregevole fattura e di sufficiente fedeltà.
La comparsa dell'opera di San Girolamo scatenò una vera tempesta. Gli aristarchi in cotta e stola, i maligni, gl'invidiosi, lo assalirono velenosamente. E Girolamo, che era, forse, un sant'uomo ma di pazienza non sovrumana, rispondeva per le rime. Chiamava i suoi critici “homunculi bipedes aselli”, (asini a due piedi); e scrivendo a Marcella, nobile dama romana sua discepola, diceva: “lo, se volessi far valere il mio, li potrei coprire del mio disprezzo; perché che giova sonar la lira ai ciuchi? Se costoro non vogliono bere l'acqua che sgorga dalla sorgente pura, bevano a lor talento la melma delle pozze!”.
La tempesta, come tutte le tempeste, a poco a poco si calmo; e quando, nel 420, a Bethlehem, il sole tramontava sulla vita fortunosa del nonagenario Girolamo, la traduzione aveva di già cominciato a farsi strada. Per molto tempo ancora l'antica latina e la nuova versione di Girolamo furono usate, nelle chiese, parallelamente; ma nel settimo secolo, quando Gregorio I (6) le diede l'approvazione papale, la versione di Girolamo divenne di uso comune; nel secolo decimoterzo si cominciò a chiamarla Vulgata (editio vulgata, vale a dire divenuta d'uso generale); e nel 1546 (7) il Concilio di Trento la decretò autentica, in questi due sensi: di “ufficiale” e di “immune da errori” in quel che concerne la fede e la morale.

Adottata oramai ovunque nella Chiesa d'Occidente, la Vulgata si moltiplicò, nelle sue copie e col moltiplicarsi delle copie si moltiplicarono gli errori, causati da ignoranza quasi sempre, e qualche volta da malizia.
I tentativi di correzione non mancarono, ma spesso portarono nella versione più buio che luce. Il Concilio di Trento che aveva decretata autentica la Vulgata, aveva pur ordinato che si preparasse un testo ufficiale della versione di San Girolamo; ma nulla fu fatto di definitivo sino al pontificato di Sisto V (1585-1590).
Sisto V fece preparare e stampare nella Tipografia Vaticana un'accurata edizione della Bibbia latina, e la pubblicò nel 1590 con la Bolla Aeternus ille, che decretava solennemente doversi da tutti i cattolici accogliere e ritenere, tanto nell'uso pubblico quanto in quello privato, tale edizione come la sola autentica, e minacciava gravi pene contro chiunque avesse osato pubblicare e divulgare una nuova edizione che non fosse esattamente quella stessa. Sisto V moriva il 27 d'agosto del 1590; e nello spazio di circa un anno e mezzo salirono al pontificato Urbano VII, Gregorio XIV e Innocenzo IX; venne quindi Clemente VIII, che fu papa tredici anni (1592-1605). Sotto il suo pontificato, il 9 di novembre del 1592, ecco apparire una nuova edizione, coi tipi della Tipografia Vaticana, della Bibbia latina, munita di una prefazione del gesuita Bellarmino, nella quale si affermava che lo stesso Sisto V, avendo notato degli errori tipografici nella edizione del 1590, si era proposto di sottoporla ad una revisione. Ora, questi errori tipografici nella Sistina non erano più di una quarantina, e nella Clementina del 1592 ce ne sono più di duecento; e i luoghi in cui la Clementina differisce dalla Sistina nel testo sono circa tremila! Questa Clementina apparve nel gennaio del 1592; sul frontespizio, che conservava esattamente l’immagine della Sistina, al posto dell'autore, invece del nome di Clemente VIII si continuava a leggere il nome di Sisto V, e la Clementina passava così alla chetichella per Sistina. Il nome di papa Clemente VIII si cominciò a leggere nel frontespizio soltanto in edizioni posteriori di parecchi anni a quella del 1592; e la Clementina del 1592 è rimasta ed è tuttora, fondamentalmente, la Vulgata ufficiale.


Conviene tralasciare di parlare di Ulfila e della versione gotica, di Cirillo e di Metodio, dell'antica versione russa e delle prime versioni anglo-sassoni, perché nella seconda metà del secolo XIV, la severa figura di Giovanni Wycliffe, il primo dei grandi precursori della Riforma, impone di fare una breve sosta.
Per comprendere tutte le ire che si scatenarono contro questo uomo, bisogna pensare a quale fosse l'età nella quale visse con: il clero, ignorante e corrotto; la nazione, abbandonata a se stessa e dissanguata; la Chiesa, ridotta ad un vero campo di battaglia, su cui due papi, Gregorio XII e Benedetto XIII si contendevano la tiara, la nuova aria che spirava dai centri di cultura fondati ad Oxford, e, non ultimo, lo spirito potente di emancipazione che aleggiava in Roma e che cominciava ad agitare il popolo.
Il Wycliffe intese il suo tempo; accusò gli ordini religiosi d'aver tradito la loro missione; chiamò nero il nero, bianco il bianco, e concepì il gran disegno di dare la Bibbia al popolo. Le sacre Scritture, diceva, sono proprietà del popolo, e nessuno deve negargliele. Messaggio pericoloso, per quei tempi e si comprende subito che un uomo di quella tempra non poteva scamparla. Difatti, eccolo il 23 di febbraio del 1377 chiamato a un Sinodo di Londra per render conto delle sue idee. Il Sinodo le condannò come eretiche; e il Wycliffe, triste, non per la condanna, ma per l'accecamento dei suoi giudici, se ne tornò a Lutterworth, nella parrocchia di cui era rettore. E quivi, in mezzo ai suoi antichi manoscritti ed ai suoi commentari, si consacrò interamente alla traduzione di tutta la Bibbia; e la traduzione, felicemente compiuta, dette all'Inghilterra, per la prima volta, le Sacre Scritture nella lingua del popolo.
La traduzione del Wycliffe ha un gran valore linguistico; ma, come traduzione, ha il difetto fondamentale d'esser fatta, non sugli originali ebraico e greco, ma sul testo latino di San Girolamo. Lo stile della versione è piano e popolare; il Wycliffe tradusse, non per i letterati, ma per il popolo. E il popolo amò grandemente questa traduzione. Il costo di una copia della Bibbia era enorme; poche pagine di manoscritto si pagavano delle somme fortissime; e si narra che si offriva un carro di fieno per ottenerle in prestito un'ora al giorno, durante un certo periodo; e chi della traduzione sapeva molta parte a memoria era cercato e grandemente desiderato, perché andasse qua e là a recitare le parti imparate a memoria.
Il Wycliffe non si faceva illusioni; lo sapeva bene che la condanna delle sue idee altro non era che il preludio alla sua condanna a morte. Ma la salute gli risparmiò l'angoscia dell'estremo supplizio. L'ultima domenica del 1384, il Wycliffe fu colto da paralisi; e l'ultimo giorno dell'anno fu anche l'ultimo della sua vita. Il suo corpo fu sepolto nel cimitero annesso alla chiesa della quale il Wycliffe era stato rettore; ma quarantatre anni dopo (nel 1428), in seguito a un decreto del Concilio di Costanza (1415), le non dimenticate ossa furono esumate e bruciate; e le ceneri, gettate nelle acque del fiumicello Swift, che scorre presso la chiesa, di cui era stato il parroco.
 

La solita ignoranza, il solito fanatismo che hanno fatto ascrivere alla Chiesa,  nella storia dell'umanità, accadimenti vergognosi. Ma tutto questo ci aiuta a capire due cose: che la Verità assoluta non è il monopolio di questa o quest'altra Confessione religiosa, ma l'ideale a cui tutte le Confessioni religiose debbono mirare; e che il nostro dovere, qualunque sia la Confessione religiosa a cui apparteniamo, non è quello di vituperarci a vicenda e di scannarci, ma quello di rispettarci, d'aiutarci gli uni gli altri.
 

Col tramonto dell'età del Wycliffe tramonta l'età dei manoscritti e spunta l'alba dell'età della Stampa. Fino allo spuntare di questa alba, nei grandi centri della cultura d'Europa, nella solitudine delle celle, lontani dal mondo, armati d'una pazienza che è rimasta proverbiale, uomini e donne si consacrarono a copiare, lettera dopo lettera, in preziosi manoscritti, quelle versioni delle Sacre Scritture delle quali abbiamo ora parlato e fra gli ordini religiosi, va ricordato l'ordine di San Benedetto.
Mentre soltanto cinque secoli più tardi, l'ordine dei Certosini, fondato da San Bruno (8), si consacrava agli esercizi spirituali, e quello dei Cistercensi, fondato dall'abate benedettino Roberto di Champagne (9), si consacrava al lavoro dei campi, l'ordine fondato nel sesto secolo (10) da Benedetto di Norcia sulla storica e classica vetta di Montecassino, si consacrava a salvare dall'opera devastatrice del tempo i preziosi monumenti della letteratura classica e religiosa.
 

Il monachismo, nato in Oriente, si può dire che fu trapiantato in Occidente da San Benedetto, non solo, ma che fu anche da lui trasformato.
Il monachiamo asceta dell'Oriente non mirava che allo sprezzo della vita ed alla macerazione del corpo; il monachiamo che San Benedetto trasportò in Occidente, ebbe per motto “laborare est orare”, (lavorare è pregare). Sette ore al giorno, al lavoro manuale; il resto, allo studio; i vecchi e quelli che per debolezza di costituzione fisica non potevano lavorare, erano occupati nello Scriptorium, ossia a copiare o miniare le loro pergamene.
Giovanni Wycliffe era deceduto quando tramontava il secolo decimoquarto; e sul tramonto di questo secolo e all'alba del decimoquinto già apparivano i primi segni della età meravigliosa, nella quale il Rinascimento scuoteva dalle sue fondamenta la filosofia scolastica; la Stampa forniva alla Verità religiosa la sua migliore arma, moltiplicando gli esemplari della Bibbia e rendendola accessibile a tutti, e la scoperta d'un altro mondo rivelava altri sconfinati orizzonti, e dava un nuovo, vigoroso impulso allo spirito scientifico dei tempi.
 

Ed ecco a che cosa voglio alludere con questi segni precursori. Quantunque la carta già verso la fine del secolo decimoquarto cominciasse ad essere usata piuttosto largamente e rendesse quindi la trascrizione dei libri sacri meno dispendiosa, pure, il costo di quei libri rimaneva ancora così elevato da renderli addirittura inaccessibili alle borse del popolo, che pure ne aveva tanto bisogno. Come risolvere il problema? Come giungere a divulgare la conoscenza delle verità fondamentali e dei fatti più salienti del cristianesimo? Il modo con cui il problema fu risolto è intimamente connesso con le carte da giuoco, o meglio con i Tarocchi.

Un pittore parigino, un certo Jacquemin Gringonneur, fu, almeno così si dice, l'inventore di queste carte, che nel 1390 ideò e dipinse per divertire quel povero re di Francia che fu Carlo VI, affetto da una malinconia che rasentava la pazzia. Or ai primi del 1400 si pensò: E perché in modo analogo a quello usato per le carte non si incide nel legno e non si riproducono poi sulla carta delle immagini sacre? E poi: E perché a quelle immagini non si aggiunge una qualche parola? E man mano che l'arte d'incidere così quelle immagini su blocchi di legno e di riprodurre l'incisione sulla carta s'andava dirozzando, anche l'idea s'affacciava di comporre addirittura dei soggetti storici completi e forniti di testi esplicativi. Fu così che nacquero i così detti Libri xilografici, che vuol appunto dire scritti sul legno.
Il più antico di tutti o ad ogni modo uno dei più famosi e dei più rari, se non addirittura il più raro, porta il nome un poco fantastico: “Biblia pauperum” (Bibbia dei poveri), e fu edita in latino e in tedesco fra il 1420 e il 1435.
I blocchi di tutta l'opera sono quaranta i quali, riprodotti, danno quaranta pagine di formato in folio. Giunti a questo punto, per arrivare ai tipi mobili ed alla tipografia non mancava più che un passo. E il passo chi lo fece ? A questa domanda si è risposto e si risponde ancora variamente; ma le probabilità maggiori sono pur sempre per Giovanni Gutenberg, che si suppone nato a Magonza nel 1400.
Al Gutenberg, coadiuvato da Giovanni Faust e da Pietro Schoffer, è senza dubbio dovuto l'onore della invenzione. A noi, oggi, è difficile farci un'idea esatta degli ostacoli che quei grandi pionieri dovettero sormontare con la loro macchina primitiva. Quanto tempo il tipografo doveva avere speso nel comporre il testo, e quanta fatica per produrre un esemplare del testo stesso. Naturalmente, prima d'arrivare alla macchina tipografica moderna c'era ancora del progresso da fare; ma le fondamenta erano gettate, e l'arte che doveva portare all'Europa il soffio di una cultura nuova e feconda era nata e si andava sviluppando.
È proprio in questo pionieristico periodo che apparve il primo lavoro monumentale della letteratura biblica: la Bibbia poliglotta, vale a dire in più lingue, nota col nome di “Complutensis”, da Complutum, per i tipi Alcalà dove la poliglotta del Cardinale Ximenes de Cisneros fu stampata dal 1502 al 1517. L'opera consta di sei volumi. Nell'Antico Testamento ha da un lato il testo ebraico, dall'altro la traduzione dei Settanta con una versione latina letterale interlineata; in mezzo è la Vulgata, in fondo pagina è la parafrasi caldea con la relativa interpretazione latina, e nei margini sono segnate, spesso in gran quantità, delle radici ebraiche e caldaiche.
Ho detto che in mezzo è la Vulgata; e, a questo proposito, è interessante un passo che si trova nel Prologo del quarto volume: passo, nel quale gli editori spiegano perché avessero collocato il testo latino in mezzo ai testi greco ed ebraico. L'abbiamo posto li, essi dicono, perché vi sta al suo luogo; corrisponde al Cristo in mezzo ai due ladroni.
Ora, trattare da ladrone il testo ebraico, era un tradimento vero e proprio; così come dare alla Vulgata l'onore del posto del Nazareno sul Golgota, era un attribuire alla versione di San Girolamo un valore eccessivo. Ma il passo è notevole perché, nella storia delle idee, rappresenta un gran progresso fatto sulla via che doveva condurre al decreto del Concilio di Trento. Il grande valore della Complutensis consiste in questo: innanzi tutto, in essa apparvero stampati per la prima volta il Nuovo Testamento greco e la traduzione greca del Testamento Antico; poi, con essa si registra il primo tentativo di fare un'edizione critica della Bibbia. Certo, la Complutensis, date le difficoltà di quei tempi per consultare i manoscritti, è ben poca cosa quando la si confronti col lavoro rappresentato dalle nostre grandi edizioni critiche moderne; ad ogni modo, i primi tentativi sono sempre eroici, e la Poliglotta di Alcalà, dal punto di vista della critica sacra, è senza dubbio un'opera immortale.

Eccoci arrivati al periodo della rivoluzione protestante; e la figura che qui prima d'ogni altra attira la nostra attenzione è quella di Martin Lutero: del medico mandato da Dio, come lo definì Erasmo: medico spietato qual era richiesto dalle malattie profonde del tempo.
Nato ad Eisleben in Sassonia nel 1483, Martin Lutero studiò ad Erfurt; e a ventidue anni, nel 1505, ottenne il titolo di Maestro in filosofia, che corrispondeva al nostro dottorato.
Dotato di mente aperta ed acuta, d'ingegno poderoso e avido di nuove conoscenze, passava ore ed ore nella Biblioteca dell'Università. Un giorno vi scoprì un volume tanto raro, che l'avevano assicurato con una catena perché nessuno lo portasse via. Era la Bibbia. Martino ne aveva sentito parlare, ma non l'aveva mai veduta. La lesse avidamente, ricevette da questa lettura un'impressione profonda, e si sentì spinto, come mai prima, alla ricerca delle cose superne. Non immaginava, certamente, allora che sarebbe stato proprio lui a dare al suo popolo una traduzione classica del libro.
E qui conviene che passiamo a volo d'uccello sulla vita di Martin Lutero come riformatore. Di questo, si occupa la storia; qui a noi non interessa soltanto la sua traduzione della Bibbia.
Nel 1521 le cose erano giunte al tal punto che poca speranza rimaneva agli amici di poter salvare la vita del riformatore. Parve loro che l'unica, possibile via di salvezza sarebbe stata quella di farlo del tutto sparire, per un certo tempo almeno dalla scena su cui precipitavano gli avvenimenti. Anche Martin Lutero ne convenne; e il 4 di maggio del 1521, mentre tornava dalla Dieta di Worms, diretto in carrozza verso i monti della Turingia, giunto in un bosco solitario, cinque cavalieri bene armati si precipitano fuori all'improvviso, lo rapiscono, e lo conducono su al Castello della Wartburg, antica residenza dei langravi di Turingia. Qui rimase dieci mesi; dai primi di maggio del 1521 ai primi di marzo del 1522; e durante quei dieci mesi tradusse il Nuovo Testamento dal testo greco d'Erasmo.
Questa del riformatore non fu la prima traduzione della Bibbia in tedesco. La Germania, che era stata la madre dell'arte tipografica, aveva subito pensato a servirsi di questo nuovo mezzo potente per diffondere il volume. Esisteva per esempio, fra le altre, un'antica traduzione del secolo decimoquarto, fatta da autori ignoti; e di questa traduzione, dopo l’invenzione della stampa, si erano pubblicate ben diciassette edizioni.
Era una imitazione servile della versione latina; e così piena d'errori, e fatta così malamente, che anche oggi uno si domanda come dovesse fare il popolo a capirci qualcosa. Non è quindi da meravigliarsi se la nuova traduzione del riformatore, quando apparve nel settembre del 1522, fu accolta con grande entusiasmo.
Alla traduzione del Nuovo Testamento tenne dietro rapidamente quella dell'Antico, che usciva in parti separate, le quali andavano a ruba; e finalmente, nel 1534, apparve tutta la Bibbia. Quando si pensi che la scienza linguistica era allora nella sua infanzia, che le versioni tedesche esistenti prima erano più d'intoppo che d'aiuto ad un nuovo traduttore, che regole esegetiche, criteri ermeneutici, norme per ben tradurre, tutto era da creare, bisogna veramente riconoscere che la traduzione di Martin Lutero, anche con le imperfezioni da cui nessuna opera umana può andar esente, è un vero miracolo di scienza. La lingua della traduzione, nonostante le asperità dell’antico tedesco, suona come una magnifica melodia: nessun contemporaneo poté superarne la bellezza, e neppure oggi vi è chi la possa sopravanzare per l'efficacia e la vigoria della espressione.
La Bibbia di Martin Lutero non fu soltanto la base granitica della Riforma; fu il monumento “aere perennius” che il riformatore innalzò al proprio nome; fu un'opera, che la Germania a buon diritto considera come nazionale.

Dalla Germania passiamo in Inghilterra. Un secolo dopo la morte del Wicleff e un anno dopo la nascita di Martin Lutero, nel 1484, veniva al mondo, sui confini del paese di Galles, William Tyndall. Crebbe giovane amante degli studi, e si recò all'Università di Cambridge, attratto dalla fama d'Erasmo che v'insegnava. Erasmo aveva già pubblicato il suo Nuovo Testamento greco; il Tyndall s'innamorò di questo libro, lo meditò profondamente, e fu così tratto alla crisi decisiva della sua vita spirituale. Concepì subito l'idea di dare all'Inghilterra la Bibbia nella lingua del popolo; e, manifestatala, trovò opposizione da tutte le parti, specialmente, ovvio, dalla parte del clero. Emigrò. Nel 1524, ad Amburgo, lavorò alacremente alla traduzione del Nuovo Testamento. Vi lavorò, trovandosi in squallida miseria, in angoscia profonda, e in continuo pericolo della vita. Il Tyndall, come dice il frontespizio del libro, tradusse, non dalla Vulgata, ma dall'originale greco; come dall'originale ebraico tradusse il poco che lasciò del Testamento antico: il Pentateuco, i libri storici e parte dei profeti. Il Tyndall, perseguitato come eretico per aver tradotto e propagato il suo Nuovo Testamento, si era rifugiato a Worms. Tradito da un falso amico, cadde in un tranello tesogli per indurlo a lasciare quella città; fu preso, e condotto in carcere nel Castello di Vilvorden nei pressi di Bruxelles. Qui, dopo aver patito freddo, fame e ogni sorta di privazioni e d'angosce, il 6 di ottobre del 1536 lo strozzarono e lo abbandonarono alle fiamme del rogo. Le ultime parole del Tyndall furono queste: Signore, apri gli occhi al re d'Inghilterra!

Era allora re d'Inghilterra Enrico VIII, salito al trono nel 1509: nell'anno, quindi, in cui aveva sposato Caterina d'Aragona, già sua cognata. Le vicissitudini di questo matrimonio qui non ci interessano; alcuni ricordi sono però necessari per il nostro scopo.
innamoratosi alla follia di Anna Bolena, Enrico volle divorziare dalla moglie. Papa Clemente VII negò il divorzio; e il re, che pure era stato nemico della Riforma e autore egli stesso di un trattato contro Lutero, interruppe ogni rapporto con il papa. Primo ministro di Enrico VIII era allora Tomaso Cromwvell; arcivescovo di Canterbury, il Cranmer; il quale, nel 1533, dichiarò non valide le nozze del re con Caterina, e rese quindi possibile ad Enrico il suo matrimonio con Anna Bolena. Il Parlamento dichiarava nulla l'autorità del papa in Inghilterra, e nel 1535 Enrico era riconosciuto Capo supremo della Chiesa inglese. In mezzo a questi subbugli politico-religiosi, la Riforma andava continuamente acquistando terreno nel paese; e soltanto a distanza di tre anni dal martirio del Tyndall, nel 1539, l'Inghilterra aveva per la prima volta la sua Bibbia autorizzata dal governo. Era la storica “Great Bible” la Grande Bibbia, così chiamata dall'ampio suo formato. La Great Bible aveva un interessante frontespizio, disegnato dallo Holbein.

Enrico VIII moriva nel gennaio del 1547, e il suo regno passò successivamente ai suoi tre figli: Edoardo VI (1547-1553), amico della Riforma; Maria, detta la Sanguinaria (1553-1558), che fu il flagello dei Riformati, e i cui cinque anni di regno furono per l'Inghilterra gli anni del terrore; ed Elisabetta (1558-1603), che cercò di riparare, per quanto le fu possibile, gli scempi di Maria. Non riuscì, certamente a risuscitare le circa settecento persone, vittime del fanatismo di Elisabetta; ma richiamò i proscritti, restituì loro i beni confiscati, e dette loro modo di credere in Dio e di servirlo secondo l'aspirazione della propria coscienza.
I proscritti, che si erano rifugiati a Ginevra, tornando in patria, portarono con sé il frutto del loro lavoro nella terra d'esilio: la famosa Bibbia di Ginevra, preferibile alla Great Bible, perché più accuratamente tradotta, più maneggevole, più economica; per cui non c’è da stupirsi se divenne ben presto più popolare dell'altra. Ufficiale non poteva diventare, perché veniva da Ginevra, e aveva tinta troppo calvinista. La concorrenza delle due Bibbie fece nascere il desiderio di averne un'altra, che potesse diventare ufficiale e popolare ad un tempo. L'Arcivescovo Parker si mise all'opera, chiamando parecchi altri vescovi a coadiuvarlo; e nel 1568 apparve la nuova Bibbia, che fu appunto chiamata la Bibbia dei Vescovi. La quale, anche se divenne la ufficiale, non riuscì a strappare la ginevrina all'affetto del popolo.

Salito al trono, nel 1603, Giacomo I; nel luglio dell'anno seguente nominava una Commissione composta di cinquantaquattro traduttori, che erano gli ebraisti ed i grecisti più in voga in Oxford e a Cambridge, perché preparasse una nuova traduzione della Bibbia. Il risultato del lavoro di questa Commissione reale apparve nel 1611, e fu la Authorized Version, (la Versione autorizzata); la quale ad onor del vero non fu propriamente autorizzata da nessuno, ma divenne di per sé, non solo la Bibbia della Corte e delle chiese ufficiali, ma la Bibbia della Corte, delle chiese ufficiali, della nobiltà e del popolo.

E ben si meritò questo ruolo; perché essa è e rimarrà sempre un monumento classico della letteratura religiosa, per la bellezza della lingua, per la elevatezza dello stile, e per la fedeltà e la scrupolosa coscienza con cui fu condotta.

Se dall'Inghilterra passiamo in Francia, vi troviamo il famoso volgarizzamento della Bibbia fatto da Pier Roberto detto Olivetano. Le origini di questa opera, divenuta ormai rarissima, vanno cercate in Italia, tra le valli piemontesi delle Alpi Cozie, in mezzo alla Chiesa valdese, la più antica fra le Chiese evangeliche d'Europa, la Chiesa già in gran parte riformata quattro secoli prima della Riforma.
Nel secolo decimosesto, quando la tormenta della Riforma protestante passò sull'Europa, in Italia, la regione che, a motivo della sua posizione geografica, sentì più d'ogni altra gli effetti dello spirito innovatore fu il Piemonte. Di fronte al nuovo movimento riformista d'oltre Alpe bisognava che i Valdesi d'Italia assumessero un atteggiamento chiaro, preciso. Prima di decidersi, desiderarono informazioni dirette, sicure; e nel 1526, e poi di nuovo nel 1530, mandarono qualcuno dei loro a prenderne. Avute le informazioni, la decisione circa il da farsi spettava al Sinodo generale; e poiché gli evangelizzatori valdesi più anziani e più autorevoli si trovavano in Calabria e nelle Puglie, il Sinodo non poté esser fissato che per il 12 settembre del 1532.
Due messi andarono in Svizzera ad invitarvi i riformatori di Neuchâtel e del paese di Vaud. I messi tornarono, e condussero con loro il Saulnier, l'Olivetano, cugino del Calvino, e Guglielmo Farel. Il Sinodo, com'era stato deciso, si radunò il 12 di settembre, sotto i castagni di Chanforan, nella valle d'Angrogna. Delle deliberazioni di questo Sinodo una soltanto qui ci interessa. Nel Sinodo fu deliberato di destinare millecinquecento scudi d'oro alla divulgazione della Bibbia; e l'Olivetano, che conosceva bene il greco e meglio ancora l'ebraico, fu incaricato di fare del libro una traduzione francese, purgata secondo le lingue originali. Questi alpigiani, deliberando che la nuova traduzione dovesse essere in francese, intendevano fare omaggio ai riformati svizzeri, così nobilmente rappresentati nel Sinodo, e dimostrare che non dimenticavano il debito di riconoscenza che avevano col popolo ospitale sempre pronto ad aprir loro le braccia, quando la persecuzione li cacciava dal paese nativo. L'Olivetano si mise all'opra alacremente; e la sua Bibbia, che fu pubblicata a Serrières, presso Neuchâtel, con questa data: Des Alpes, ce douzième de février 1535, prese subito il posto che si meritava nel campo della Riforma francese.

La prima versione italiana della Bibbia apparve verso la metà del secolo decimoterzo. La tradizione, fino ai giorni nostri, l'ha attribuita all'uno o all'altro dei tre grandi domenicani: Jacopo da Voragine, Jacopo Passavanti, Domenico Cavalca; ma è tradizione oramai del tutto abbandonata. Che la versione sia della metà del duecento è certo; quanto alla sua origine, l'opinione che più si accosta alla verità è probabilmente quella che la ritiene un'opera anonima, uscita da uno di quei centri di così detti Poveri, dove tutti si obbligavano a vivere in povertà e a seguire alla lettera le pure norme del Vangelo (forse di tra i Valdesi del nord Italia o tra i Patarini toscani); a ogni modo, da uno di quei centri dove, in quel tempo aleggiava ancora il grande spirito di San Francesco, e le anime anelavano a una riforma della Chiesa, da effettuarsi per mezzo di un ritorno all'osservanza dei precetti evangelici.

Nel 1532 apparve a Venezia la versione intera della Bibbia dovuta al fiorentino Antonio Brucioli. Questa versione, fatta, non sugli originali, ma sulla traduzione latina del lucchese Santi Pagnini(11), ebbe due revisori: il fiorentino Santi Marmochino dell'ordine dei Predicatori (12), e il medico lucchese Filippo Rustici (13); e del Marmochino, Fra Zaccaria da Firenze, dell'Ordine dei Predicatori, ne fece ristampare, col proprio nome, il Nuovo Testamento (14). E se aggiungiamo il ricordo della traduzione del Nuovo Testamento del Castelvetro (se è attendibile la testimonianza che ne dà Lodovico Muratori), di quella eccellente del fiorentino Massimo Teofilo (15), e di alcune altre, anonime, quasi tutte rifacimenti della versione del Brucioli, e della diodatina e della martiniana, tutto s'è detto di quello che qui particolarmente c'interessa. Una parola, a proposito di queste ultime due.

La diodatina ci trasporta a Lucca. Nella prima metà del secolo decimosesto, nessuna delle città d'Italia sentì tanto l'influsso della Riforma quanto Lucca, la capitale della piccola repubblica. Un agostiniano, Pietro Martire Vermigli (16), priore di San Frediano, uomo profondamente pio e di santi costumi, era l'anima del movimento riformista lucchese. Una grande idea aveva concepita: fondare in Lucca una Scuola, che fosse per l'Italia quello che Vittemberga era per la Germania. E la Scuola da lui fondata fioriva, ed attirava quanto Lucca aveva di più nobile, di più serio, di più intelligente.
Ora eccoci al 1541. La città era in gran fermento. Nel Palazzo dei Signori si facevano dei grandi preparativi: Lucca attendeva nientemeno che l'arrivo di papa Paolo III e dell'Imperatore Carlo V. I due più potenti sovrani del mondo si erano dato appuntamento a Lucca per esaminare diverse questioni, come quella della rivoluzione protestante di Germania, e quella del Concilio di Trento che tutti aspettavano da un pezzo, e che bisognava una buona volta convocare. I due grandi arrivarono. Carlo V prese stanza nel Palazzo dei Signori, oggi Palazzo del Governo, il quale non era allora come è oggi. Il Palazzo odierno è l'antico, ampliato da Paolo Guinigi nel 1430, e di nuovo ampliato e riordinato nel 1577 su disegno e sul modello dell'Ammannati.

Allora, il Palazzo era l'unico residuo della celebre fortezza che Castruccio Antelminelli aveva costruita nel 1322, che costò a Lucca ben quarant'anni di duro governo, e che nel 1368 cadde sotto i colpi dei martelli e dei picconi dell'intero popolo lucchese, stanco dell'iniqua oppressione. E il Palazzo, destinato a nuova residenza degli Anziani e del Consiglio generale affinché la rinascente libertà abitasse appunto fra quelle mura che avevano servito d'asilo alla tirannide, fu deciso che fosse offerto come sua dimora all'Imperatore. E affinché l'Imperatore potesse starvi a suo agio, fu stabilito che, per il tempo della sua permanenza a Lucca, gli Anziani e i Consiglieri abbandonassero le loro residenze, e andassero ad abitare altrove in città. Ma l'Imperatore, dice un vecchio cronista Lucchese, con la sua solita cortesia, non solo non accettò, ma dichiarò che se essi fossero usciti dal proprio Palazzo, sarebbe andato ad alloggiare all'Hosteria. Per cui, al fine di non contraddire l’Imperatore, gli Anziani Consiglieri rimasero, e si sistemarono in alcune stanze.

La storia racconta che una notte, Carlo V fu svegliato da acute grida di dolore. Chiestane la causa, gli fu risposto che una gentildonna, moglie del Consigliere Michele Diodati, aveva partorito un bimbo. Paolo III, che abitava nel Palazzo Arcivescovile annesso alla stupenda Cattedrale di San Martino, ebbe anche esso la notizia della cosa. Il fatto era così originale che Carlo V esclamò: “Il bimbo porti il mio nome! E lo vo’ tener io a battesimo”. E Paolo III, per non esser da meno dell'Imperatore, disse: “E il battesimo l'amministrerò io!” Così andò che il neonato di Messer Michele e di Donna Anna si chiamò Carlo, ebbe Carlo V per padrino, e fu battezzato da Paolo III. E dire, che questo Carlo Diodati fu proprio il padre di Giovanni, il traduttore contestato e odiato della Bibbia della Chiesa Riformata!
La visita dell'Imperatore e del Papa fu per Lucca, dal punto di vista della Riforma, un disastro. Pier Martire Vermigli, fu preso di mira e poi costretto a fuggire; i giorni della Scuola da lui fondata, contati; il nucleo dei lucchesi che avevano già aderito alle idee riformate, guardati a vista e già condannati. E nel 1555 cominciò l'esodo doloroso.
Carlo Diodati, cresciuto, se ne andò a Lione ad imparare il commercio. Da Lione, quando il vergognoso massacro della notte di San Bartolomeo (1572) portò il terrore in tutta la Francia protestante, fuggì a Ginevra, e qui aderì apertamente alla Chiesa riformata. Sposò prima una Micheli, dalla quale non ebbe prole; poi una Mei, dalla quale ebbe sette figli; e il primo fu appunto Giovanni, nato il 3 di giugno del 1576, e battezzato dal lucchese Niccola Balbani.
Giovanni Diodati crebbe giovane serio, e di grande ingegno. A diciannove anni era Dottore in Teologia; e a ventuno, professore d'ebraico nell'Accademia ginevrina. Nel 1603 iniziò a tradurre dagli originali ebraico e greco l'Antico e il Nuovo Testamento, e pubblicò la prima edizione della sua Bibbia italiana nel 1607; la seconda, migliorata ed accresciuta, con l'aggiunta dei Salmi messi in rima, nel 1641.
Il Diodati ha dei meriti grandissimi, indiscutibili, ma non sono quelli della lingua e dello stile. Era nato a Ginevra; aveva fatto i suoi studi in francese; insegnava e predicava in francese; da buon cittadino prendeva parte attiva alla vita politica ginevrina, sempre parlando, scrivendo e pensando in francese; durante tutta la sua vita venne in Italia soltanto due volte: a Venezia, e per pochi mesi, scrisse, quindi, come meglio si poteva nel suo tempo e nelle sue condizioni; e che scrivesse come fece fu un vero miracolo: miracolo, però, in gran parte spiegato dal fatto che seppe giudiziosamente valersi dell'opera dei volgarizzatori che l'avevano preceduto. Il vero merito, e merito grande, del Diodati sta in questo. Conoscitore profondo dell'ebraico e non superficiale del greco, egli tradusse la Bibbia dagli originali; e con una tale fedeltà, che spesso rasenta lo scrupolo eccessivo. Era la prima volta (tranne forse il caso di Massimo Teofilo per il Nuovo Testamento) che in Italia si faceva così. Tutti i volgarizzatori, prima di lui, avevano tradotto la Vulgata. La concisione, il vigore, che troviamo specialmente nella sua traduzione dell'Antico Testamento, sono dovuti non, come si sente sempre dire e ripetere, alla lingua e allo stile del Diodati, ma al fatto che il Diodati ci mette in contatto immediato col conciso, vigoroso testo originale.

La sua lingua è spesso dura, e qua e là la parafrasi è spesso fancesizzante; il suo stile è non di rado intralciato, contorto; ma, nonostante le imperfezioni della forma, si percepisce sempre, per quanto si possa in queste condizioni, il testo rude, scultorio, degli scrittori sacri.


Mons. Antonio Martini pubblicò la sua versione del Nuovo Testamento nel 1769, e quella dell'Antico nel 1776.
Chi desidera conoscere il martirio che questa opera costò al povero Martini, le invidie, le calunnie di cui fu fatto bersaglio, le insinuazioni dei prelati e dei religiosi per gettarlo nelle amorose braccia del Sant’Ufizio, legga la "Storia aneddota del volgarizzamento dei due Testamenti", fatto dall'Ab. Antonio Martini, che Cesare Guasti pubblicò nella Rassegna Nazionale del settembre 1885.
Il Martini stesso scrisse quale fosse il suo proposito. “Mio proposito”, scriveva nella sua prefazione, “è stato di tradurre costantemente la nostra Volgata”. E più innanzi: “Mi sono tenuto a una versione interamente letterale conservando, quanto era possibile, la stessa frase, le stesse figure, e lo stesso ordine e, come diciamo noi oggi, giacitura delle parole, sforzandomi di ritrarre e rappresentare linimitabil modello che mi era dinanzi, e di renderne non solo una generale somiglianza, ma anche i più minuti lineamenti”.
E questo egli fece, salvo che in qualche rarissimo caso. Era toscano purissimo e conoscitore eccellente della lingua; ma non di rado sacrificò la concisione del testo alla preoccupazione stilistica; allora, divenne ampio, parafrastico; e il pensiero del testo si diluì talmente nella sua traduzione, che il lettore a stento ve lo ritrova. Il proposito del Martini dice tutto. Egli può essere ed è senza dubbio immensamente superiore al Diodati per la lingua; e lo riconobbe l'Accademia della Crusca quando, nella sua seduta del 28 luglio 1885, annoverò la martiniana fra i testi di lingua.

 
Un errore va combattuto, un pregiudizio va dissipato. È luogo comune parlar della Bibbia come di un libro che, mentre ebbe tanta fortuna oltr'Alpe ed oltre mare, in Italia rimase sempre un libro morto. Non è vero. Già nel secolo decimoterzo, la grande versione anonima circolava largamente, come norma di vita e come arma di protesta contro gli abusi della Chiesa; nel secolo di Dante e nel quindicesimo, i Domenicani e i Francescani leggevano quotidianamente la Bibbia al popolo. Mercanti, notai, artigiani, se ne copiavano ora questo ora quel libro, per il loro uso privato; e le sole Biblioteche fiorentine conservano oggi più di cinquanta di questi manoscritti. Ed è falso affermare che gli studi biblici, i quali produssero altrove la rivoluzione protestante, furono qua da noi sempre ignorati o tenuti in subordine. La prima parte stampata della Bibbia ebraica fu un Salterio, e uscì a Bologna nel 1477. La prima edizione del Pentateuco apparve pure a Bologna nel 1482. La prima edizione, edizione principe, dei Profeti uscì a Soncino, nel Cremonese, il 1485; e la prima edizione, pur edizione principe, degli Agiografi uscì a Napoli nel 1487. La prima edizione di tutto l'Antico Testamento apparve a Soncino nel 1488; la seconda a Napoli tra il 1491 e il 1493; la terza a Brescia nel 1494, e fu l'edizione di cui si servì Martin Lutero per il suo volgarizzamento tedesco. Il primo libro della Bibbia stampato in greco fu un Salterio liturgico edito a Milano nel 1481; e prima della fine del secolo decimoquinto due altri Salteri liturgici furono stampati a Venezia.

Già nel 1518 gli splendidi tipi di Daniele Bomberg a Venezia davano delle edizioni della Bibbia.
La versione Alessandrina dei Settanta fu la prima volta incorporata nella Complutensis; ma questa era ancora sotto i torchi di Alcalà, quando, nel 1518, l'Alessandrina usciva a Venezia dai torchi Aldini (17).

Il volgarizzamento anonimo del Duecento ebbe nove edizioni nel Quattrocento, e dodici nel Cinquecento. Tutti questi fatti, uniti all'altro, quello della diffusione delle traduzioni di cui abbiamo parlato: del Brucioli, del Marmochino, di Fra Zaccaria, di Massimo Teofilo e di Filippo Rustici, ci dicono che il Libro non fu mai un libro morto per l'Italia, ma anche in Italia circolò ampiamente, non soltanto nelle celle dei monaci, nei palazzi vescovili e nelle sedi cardinalizie dove si sa che era studiato, ma anche fra la nobiltà e fra il popolo.

E se la tradizione italica, durante un certo tempo, per ragioni note che non vale la pena di ripercorrere, rimase interrotta, ai tempi nostri riprende vita, le barriere cadono, i pregiudizi si dileguano, lo Spirito, il quale unisce e crea la vita, trionfa su ogni “Dogma”, che separa ed uccide.

 

 

1. Faro: isola presso Alessandria, alla foce del Nilo. Tolomeo Filadelfo vi fece costruire una torre di marmo bianco, alta centotrentacinque metri, che fu il primo ‘faro'.

2. Dal 285 al 217 av. Cr.

3. I Samaritani non ammettevano e non ammettono come Sante Scritture altro che il Pentateuco, vale a dire i cinque libri attribuiti a Mosè: Genesi, Esodo, Levitico. Numeri, Deuteronomio.

4. De Pentateuchi Samaritani origine, indole et auctoritate (Halle, 1815).

5. Morto nel 384.

6. 540 - 604.

7. Sessione IV del Concilio (8 aprile 1546).

8. Nel 1086.

9. Nel 1098.

10. Nel 529.

11. 1527.

12. 1538.

13. 1562.

14. 1542.

15. 1551.

16. 1500-1562.

17. La Complutensis, preparata prima, non uscì che due anni dopo (1520) l'edizione aldina.
 

Il Libro dei Libri

Nei suoi manoscritti - Nelle sue Traduzioni - Fra le rovine dei Templi