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IL LIBRO DEI LIBRI NEI SUOI MANOSCRITTI

 

Il ‘Libro dei libri’ del quale ci proponiamo di narrare qui le vicende nel corso dei secoli, è la Bibbia. Ora, prima di tutto, che cosa è la Bibbia? Essa non è un libro unico, ma una collezione di sessantasei scritti, apparsi durante i quindici secoli che precedettero la venuta di Cristo e durante il secolo che seguì questa venuta, e composti da una cinquantina d’autori i quali, ad eccezione di Luca, l’autore del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, furori tutti d’origine giudaica. Il nome Bibbia serve bene ad abbracciare questa collezione. Esso è un plurale greco (tà biblía), che il latino medievale trasformò in un singolare femminile (Biblia, Bibliae, in stile monacale), per designare appunto la piccola biblioteca che costituisce il Libro per eccellenza.

La Bibbia si divide in due grandi parti: ‘l’Antico ed il Nuovo Testamento’, o ‘l’Antico ed il Nuovo Patto’. I trentanove libri (o per dir meglio i trentanove rotoli perché tale era la forma dei libri di allora) che costituiscono la raccolta dell’Antico Testamento, sono redatti quasi interamente in ebraico (1); i ventisette libri che costituiscono la raccolta del Testamento Nuovo sono scritti in greco.

 

Per cominciare dal Testamento Antico, domandiamoci: ‘Abbiamo noi un qualche autografo dei documenti che lo compongono?’ No; i manoscritti più antichi che possediamo del Testamento Vecchio e dei quali si può accertare la data, non risalgono più in là del l’undecimo secolo dopo Cristo.

Il manoscritto più antico che si conosca, di tutto l’Antico Testamento, è del 1010. Ecco qualche ragione che spiega la scomparsa dei documenti anteriori a questi.

Prima di tutto, il papiro, ossia il materiale che si usava per preparare quei manoscritti, non era così consistente da resistere alla corrosione dei secoli. Poi, ecco quello che accadde. Quando la conoscenza dell’antica lingua ebraica venne meno fra il popolo e si trovò limitata ai dotti, sorse la  ‘Masora’ o  ‘Massora’, che vuol dire  tradizione: termine, col quale si abbraccia tutto il lavoro fatto intorno al testo tradizionale dell’Antico Testamento da dottori giudei, dal sesto a prima della fine del nono secolo dell’era cristiana. I Masoreti cercarono di fissare, e infatti fissarono, in modo definitivo, il testo ebraico. Una volta fissato, i Giudei distrussero tutti manoscritti che non si trovavano in perfetto accordo con quel testo. Non solo. Se quel che si fa oggi fra gl’Israeliti si è sempre fatto, ed è certo che si è fatto, la scomparsa di questi manoscritti si capisce. Fra i Giudei è di regola che i manoscritti giudicati non più adatti all’uso religioso debbano esser distrutti, perché non cadano in mano ai profani. E non ci vuol molto a dichiararli fuori d’uso. Un manoscritto, per esempio, in cui si scopra un errore fatto dal copista, un rotolo di sinagoga consunto a forza di spiegarlo e ripiegarlo prima e dopo la lettura quotidiana, o che abbia delle lettere sbiadite o scomparse per via dei baci che i Giudei sono soliti dare alle prime e alle ultime parole del brano che leggono, sono un manoscritto ed un rotolo destinati a perire nella  ‘Ghenizà’, vale a dire nella stanza annessa ad ogni sinagoga, e destinata a raccogliere le spoglie dei venerati documenti.

A questo va aggiunta la sciagurata persecuzione di Antioco nel 168 av. Cristo: dello spietato re, che dichiarò guerra a morte ai libri della Legge, che quanti ne poté trovare tanti ne gettò alle fiamme, comminando al tempo stesso la pena capitale a chiunque fosse trovato in possesso di un esemplare del libro del Patto.

 

Il papiro ci interessa fortemente; perché, se è forse la pergamena ad essere usata ai primordi della letteratura ebraica, certo è che il papiro non fu senza importanza nella storia di questa letteratura, e fu il materiale di cui si servirono i traduttori greci dell’Antico Testamento e gli scrittori del Testamento Nuovo.

Il termine papiro sopravvive ancora nel francese papier, nell’inglese paper e nel tedesco papier; e il luogo classico del papiro antico fu l’Egitto. Ma, per trovarlo non c’è bisogno d’andare in Egitto; basta recarsi in Sicilia, a Siracusa. Qui, presso la Fonte Aretusa, che ispirò Teocrito, e sulle rive dell’Ánapo e del suo confluente la Ciáne, si trova una vera e propria foresta di papiri. Ernesto Renan, nel suo articolo  “Venti giorni in Sicilia” pubblicato nella  Revue des deux mondes del 15 novembre 1875, parlò della vallata dell’Ánapo; e a proposito dei papiri disse:  Il papiro non cresce in Europa che nella valle dell’Ánapo. In Egitto va diventando raro.

 

Ed ecco in che modo si preparavano i papiri antichi. Il papiro è pianta alta. Lungo l’Ánapo e la Ciáne, ve ne sono dell’altezza dai quattro ai sei metri. Ha lo stelo triangolare, molle, midolluto, e coperto di una sottile corteccia verde. Lo stelo non ha nodi, e finisce con una ricca pannocchia. Raccolti i papiri, se ne tagliavano gli steli midolluti in tante lunghezze di quindici o venti centimetri l’una; poi, queste frazioni dello stelo si tagliavano di nuovo in tante strisce finissime tipo un nastro. Queste strisce si collocavano l’una accanto all’altra, finché ce ne fossero abbastanza per formare la grandezza del papiro che si desiderava. Lo strato di strisce verticali, plasmato di colla o di pasta finissima, si copriva quindi con un altro strato di strisce orizzontali. Poi si metteva ogni cosa in pressa, e si lasciava ben seccare. I papiri seccati rimanevano un po’ruvidi; quando se ne voleva di più delicatamente preparati, si pulivano con la pomice o con la seppia, erano utilizzata da ambo i lati.

 

Due cose colpiscono lo studioso dei manoscritti ebraici: la grande accuratezza con cui sono redatti e la straordinaria somiglianza che hanno l’uno con l’altro. Questi fatti, che si spiegano già in gran parte col rispetto, con la venerazione della quale i Giudei hanno sempre circondato il testo sacro, finiscono con l’essere spiegati del tutto quando si pensi alle regole minute e rigorosissime che erano imposte allo Scriba. Riflettete un momento a queste regole, che valevano e valgono anche oggi per la copia di tutti i manoscritti, ma specialmente per la copia dei rotoli della Legge destinati al servizio religioso della Sinagoga. Il libro sacro da usarsi nella Sinagoga deve essere un rotolo di pelle, fatto di pelli d’animali mondi, preparate per questo uso speciale della Sinagoga, non da un Gentile, ma da un Israelita. Le varie pelli debbono esser connesse l’una con l’altra per mazzo di corde di tendini d’un animale mondo. Il manoscritto che ha da servire da originale deve essere un manoscritto antico e riconosciuto come degno di fede.

Ogni pelle che forma il rotolo deve con tenere un determinato numero di colonne; e questo numero deve esser lo stesso per tutto il codice.

La lunghezza di ogni colonna deve esser tale da non conte nere né meno di quarantotto né più di sessanta righe; nella larghezza, non deve aver più di trenta lettere.

tutto il codice deve essere prima rigato; e se lo scriba scrivesse tre parole in uno spazio non rigato, il codice non varrebbe più nulla. L’inchiostro deve essere non rosso, non verde, né di altro colore, ma unicamente nero, e preparato con una mistura di filiggine, di carbone dolce e di miele. Lo scriba deve guardarsi bene dal deviare dall’originale. Non una parola, non una lettera deve scrivere a memoria: senza aver, cioè, ben guardato prima il codice che ha davanti agli occhi. Fra ogni consonante deve passare lo spazio d’un capello o d’un filo; fra ogni parola, la larghezza di una delle consonanti più strette; fra ogni sezione del testo, la larghezza di nove consonanti; fra libro e libro, lo spazio di tre linee. Mentre lo scriba sta intento al suo lavoro, ha da portare scrupolosamente il suo costume giudaico; quando scrive uno degli usuali nomi propri di Dio, deve raccogliersi devotamente; prima di scrivere uno o l’altro di quei nomi, deve lavare il suo pennino; prima di scrivere il nome YHVH, il nome, cioè, che Dio dette a sé stesso e col quale si rivelò al suo popolo, lo scriba deve fare una abluzione generale del proprio corpo; e se avvenisse che uno, fosse anche un re, gli domandasse qualcosa mentre egli sta scrivendo il nome santissimo, non gli deve dar retta, e deve andare avanti a scrivere, senza degnare neppure di uno sguardo l’interruttore. Queste regole, date sul serio e seriamente osservate, sono sufficienti, a spiegarci la grande accuratezza e la reciproca somiglianza dei codici dei quali parliamo.

 

Oggi noi possediamo quasi duemila documenti antichi, talvolta strani, scritti ora su pelli rozze, ora su brune pelli africane, ora su rotoli di delicatissima pergamena; alcuni, anneriti dal tempo, sgualciti o strappati per l’uso, ed altri belli e freschi, come se fossero appena usciti dalle mani del conciatore e dello scriba.

Vengono da tutte le parti del mondo; dalla Palestina, da Babilonia, dal più lontano Oriente; dall’Africa, dalle isole dell’Oceano indiano, dalle grandi Università, dalle famose biblioteche dei Gentili, e dagli oscuri e luridi ghetti d’Italia e di Spagna. Preziose e finissime pergamene che servirono al culto delle sinagoghe: pergamene dalla nitida calligrafia dello scriba, che vi lavorò attorno in preghiera e digiuno; manoscritti curiosi dei Rabbini di Cina; rotoli di ruvida e rossa pelle di capra dei Giudei negri di Malabar. Possediamo anche una infinità di frammenti accartocciati; e ogni frammento non ha che poche e scarse pagine; ma pure rotoli enormi: dei ruvidi rotoli in pelle, che misurano a volte una cinquantina di metri di lunghezza; e dei macchiati e mutilati codici dei Profeti e dei Salmi, dissotterrati nelle  ‘Ghenize’, dove i Giudei li avevano sepolti.

 

Gesù di Nazareth, come è noto, non scrisse nulla. Egli venne nel mondo, non a portare un nuovo sistema dottrinale, ma a creare una vita nuova; e più che con parole dirette all’intelletto, egli esercitò la sua missione con l’energia del proprio influsso personale nelle coscienze e nei cuori suoi apostoli, ed i suoi discepoli, prima con la parola e poi con la parola e con gli scritti, continuarono la missione del Maestro. 

I primi discorsi degli apostoli, come i discorsi di Gesù, dovettero esser pronunciati in ebraico: o, per dir meglio, in quel dialetto siro-caldeo che era allora l’idioma corrente della Palestina; ma quando questo idioma, confinato in limiti geografici tanto ristretti, si dimostrò inadatto alla proclamazione di un Vangelo universale, allora la lingua degli apostoli e della letteratura cristiana diventò il greco.

Ma anche dei documenti greci della letteratura cristiana primitiva non esiste alcun autografo. I manoscritti più antichi del Nuovo Testamento sono del quarto secolo e poiché quelli più antichi che abbiamo del Testamento Vecchio non risalgono oltre l’undecimo secolo dell’era volgare, ne risulta che i manoscritti a noi noti del Nuovo Testamento sono molto più antichi di quelli che conosciamo del Testamento Vecchio.

Anche qui la povera qualità del materiale su cui scrissero gli autori sacri può essere, come nel caso dei manoscritti ebraici, un motivo di questa sparizione, un altro motivo può trovarsi nelle persecuzioni che infuriarono, non soltanto contro i cristiani, ma tentarono anche di distruggere interamente gli scritti sacri dei seguaci del Nazareno; si sa, per esempio, che la persecuzione di Diocleziano (2) fu per la letteratura del Nuovo Testamento quello che la persecuzione di Antioco era stata per la letteratura del Testamento Antico; il fatto è che i documenti originali non esistono, e non vi è scrittore antico il quale ne faccia menzione.

Di questi manoscritti ce ne sono giunti un tremila duecento, e si dividono in due classi: onciali e corsivi. Gli onciali sono circa duecento, e si chiamano così da un’espressione di San Girolamo nella Prefazione al libro di Giobbe: uncialibus literis, vale a dire scritto  con lettere alte un’oncia, ossia venticinque millimetri; gli altri tremila si chiamano corsivi, perché scritti nella forma di carattere che si usa comunemente.

I codici onciali del Nuovo Testamento più famosi sono quattro. Prima di parlarne in dettaglio, vediamo di farci un’idea esatta di quel che sia un  ‘codice onciale’. Prendiamo per esempio l’inizio del Prologo del Vangelo di San Giovanni (cap. 1. 1 a 5). “In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era in principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei nessuna delle cose fatte è stata fatta. In lei è la vita, e la vita era la luce degli uomini; e la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta”.

Nel Codice  ‘Alef’ o  ‘Sinaitico’, che è un Codice onciale, il brano si presenta come nella illustrazione di lato riportata. Riprodotto in italiano nella identica forma e disposizione di parole che ha nel greco, si presenta come nell’altra illustrazione. Dalle immagini appare evidente che l’onciale è un codice dove il testo è scritto tutto in lettere maiuscole, senza divisione di capitolo, di versetti, senz’ombra di segni d’interpunzione. Le ragioni di questo modo di scrivere possono essere state varie; una, e forse la principale, fu senza dubbio questa: che lo scritto occupava così meno spazio; e la considerazione era di non poco momento, quando si pensi che a quei tempi il materiale per scrivere (non solo la pergamena fina, ma anche il papiro comune) era carissimo.

Si comprende però subito che un simile modo di scrivere tutto in colonna, tutto con maiuscole, in stile lapidario, non doveva tardare a far sentire i suoi inconvenienti. E man mano che gl’inconvenienti presero a farsi sentire, quei vecchi caratteri cominciarono a perdere la loro durezza; le linee perpendicolari cominciarono ad inclinarsi, a connettersi l’una con l’altra, finché, fra il nono e il decimo secolo, il corsivo diventò d’uso generale, e gli onciali non servirono più che per copie di lusso. Sono di questo secolo le prime decorazioni, le dorature, le iniziali miniate; e più andò scemando, nei copisti, il sentimento della spiritualità delle cose contenute nel testo, e più crebbe in essi la preoccupazione delle fioriture e degli abbellimenti esterni delle cose che copiavano.

Nelle nostre Bibbie moderne tutto è mutato; vi troviamo maiuscole e minuscole, divisioni in capitoli e in versetti, punteggiatura, titoli, noterelle finali, un mondo di cose nuove, insomma.

 

Ora da dove e come è scaturito tutto questo?

Nell’Antico Testamento lo scritto continuo, per comodità della lettura pubblica fu la prima volta suddiviso nel Pentateuco in 153 sedarim o serie corrispondenti ai sabati di tre anni consecutivi. In seguito fu diviso ancora in 54 parashiyôth o sezioni corrispondenti ai sabati di un unico anno. Quando avvenne questa divisione non si può precisare; però è noto: che ai tempi degli apostoli questo modo di leggere il Pentateuco era già considerato come una consuetudine antica, stabilita in ogni sinagoga e intimamente connessa col culto sabatico (3). La divisione in capitoli gl’Israeliti la presero dai cristiani. Si sa che originò nel 1240 ma non è certo se si debba ascrivere al Cardinale Stefano Langton, Arcivescovo di Canterbury († 1228) o ad Ugo Carense († 1263). Fu il rabbino Isacco Nathan che per la prima volta, nel 1440, la introdusse nel testo ebraico. La numerazione dei versetti fu adottata la prima volta nel 1557 per il Pentateuco soltanto, e poi nel 1661 per tutto l’Antico Testamento.

 

Nel Testamento Nuovo, la divisione in capitoli è quella del 1240 adottata dal Langton o da Ugo Carense per l’Antico Testamento. La divisione in versetti, così come oggi è in uso nella Bibbia, risale al secolo decimosesto, ed è dovuta a Robert Estienne, il secondo di quella gloriosa dinastia di tipografi del Cinquecento, che fu per la Francia quello che i Manuzi fecero per l’Italia, e gli Elzevir per l’Olanda. Robert Estienne, dunque, stava preparando una Concordanza del Nuovo Testamento, opera che, non lui, ma suo figlio Enrico pubblicò nel 1594. Per quella Concordanza egli aveva bisogno di una divisione minuta del testo. Questa divisione pensò di farla lui; e la fece, narra suo figlio Enrico, mentre, a cavallo, viaggiava da Parigi a Lione. Enrico dice: inter equiitandum,  ‘mentre cavalcava’; e la frase si è sempre intesa, e si intende anche oggi, nel senso che Robert lavorò alla divisione del testo, proprio stando in sella; ma è molto più probabile e naturale che l’inter equitattdum voglia dire  durante le varie soste di questa cavalcata. Comunque sia, questa divisione in versetti apparve la prima volta nella quarta edizione del Testamento greco pubblicato dall’Estienne a Ginevra nel 1551; e la prima Bibbia intera che apparve così divisa, fu la Vulgata latina, da lui pubblicata a Ginevra nel 1555.

 

Due altre particolarità hanno i libri del Nuovo Testamento. I titoli, prima; i quali, evidentemente, non sono degli autori, ma cosa posteriore, nata senza dubbio quando si cominciarono a mettere insieme i vari scritti. Il bisogno d’intitolare ogni libro che entrava a far parte della collezione, si capisce; ma il titolo non rimaneva sempre lo stesso; si andava man mano alterando ed amplificando, a gusto e capriccio dei successivi copisti. Prendiamo l’esempio del Vangelo di Matteo. Il Vangelo uscì dalle mani dell’autore, senza titolo. Quando entrò nella collezione, ebbe il titolo semplicissimo: secondo Matteo. Un copista posteriore v’aggiunse di suo la parola Evangelo, e scrisse: Evangelo secondo Matteo. Un terzo amplificò ancora, e si ebbe: Il santo Vangelo secondo Matteo. E un quarto volle anche esso metterci qualcosa di suo, e disse: Comincia il santo Vangelo secondo Matteo. Nella loro forma più semplice, sono dei titoli di una grande antichità; ne fanno menzione, per esempio, Giustino Martire e Tertulliano sul tramonto del secondo secolo. Sono dei titoli che si fondano o sul contenuto degli scritti a cui sono riferiti o sulla tradizione, ma hanno pochissimo ed incerto valore.

 

E poi, ecco le note conclusive in coda ai singoli scritti. Queste note, apparse in calce ad ogni libro posteriormente ai titoli, sono di una varietà enorme; e, quel che è peggio, sono lardellate di ogni sorta d’errori. Anche esse, come i titoli, andavano crescendo  ad libitum del copista. Un esempio nella nota che si legge in calce alla lettera di San Paolo ai Romani. Da principio, queste note non facevano che semplicemente ripetere il titolo dello scritto: Ai Romani. Poi, successivamente una quantità d’informazioni, regalateci dalla generosità dei successivi copisti, e relative al luogo d’origine dello scritto (Scritta da Corinto), al mezzo con cui fu trasmessa (per mezzo di Febe), alla qualità della latrice (Diaconessa), qualità che un ultimo copista volle precisare ancora meglio, aggiungendo a tutte le informazioni degli altri queste sue: Ai Romani. Scritta da Corinto, per mezzo di Febe, diaconessa della chiesa di Cencrea. Passi per la lettera ai Romani; ma quanti svarioni in altri casi! La prima lettera ai Corinzi è data come scritta da Filippi, mentre fu scritta da Efeso. Quella ai Galati è data come scritta da Roma, mentre fu scritta anche essa da Efeso. Insomma, sono delle note probabilmente di antichi Padri, le quali non si sa di preciso quando prendessero la forma fissa che hanno oggi; sono fondate su tradizioni incerte o sopra un’esegesi più incerta ancora, e non hanno quindi alcun valore storico.

 

Consideriamo ora i quattro famosi onciali.

Il primo è il così detto  ‘Sinaitico’, che fu battezzato con la prima lettera dell’alfabeto ebraico, e si chiama quindi il Codice  ‘Alef’; il nome di  ‘Sinaitico’ gli viene dal fatto che fu trovato sul monte Sinai nel Convento di Santa Caterina. É un codice in buono stato, di pergamena finissima; consta di trecentoquarantasei carte e mezzo, delle quali centoquarantasette e mezzo riportano il Nuovo Testamento, l’Epistola di Barnaba e il Pastore di Erma (incompleto); le altre carte riportano dei libri (per intero o frammentari) del Testamento Vecchio; ogni carta ha quattro colonne, ogni colonna quarantotto righe, e risale al quarto secolo.

Addossato alle pareti granitiche del Sinai, a 1528 metri d’altezza, il Convento di Santa Caterina conserva anche oggi il carattere di fortezza che ebbe fin da principio; poiché qui fu anticamente un vasto castello, costruito nel 530 dopo Cristo dall’imperatore Giustiniano. Oggi si entra nel Convento da una porticina di ferro; ma una volta non era così; il Convento non aveva porta, e vi si entrava dall’alto, da una specie di cabina. Il visitatore, per entrare, doveva attaccarsi ad una fune e farsi tirar su dai frati mediante un argano posto nell’interno: congegno primitivo, che esiste ancora oggi, religiosamente conservato nel Convento. I frati del Convento appartengono alla Chiesa greca ortodossa; oggi sono pochi; circa una trentina; ma anticamente giunsero ad essere fino quattrocento. La Biblioteca del Convento una volta non aveva né ordine né aspetto di biblioteca, era un ammonticchiamento di libri e di codici di un valore inestimabile, di cui nessuno (e i frati meno di tutti) conosceva l’importanza: oggi la Biblioteca si trova posta in ampie stanze, piene di luce, ed è tutta ben catalogata.

 

Nel 1844 Costantino Tischendorf, allora libero docente nella Università di Lipsia, andò a visitare questo Convento. In mezzo ad una sala notò un paniere pieno di vecchie pergamene. Interrogato il bibliotecario, seppe che altri due mucchi di simili vecchiumi erano già serviti ad accendere il fuoco dei frati. Immaginarsi la sorpresa del Tischendorf quando, osservate minutamente le pergamene, scoprì che contenevano parte della traduzione greca dell’Antico Testamento. Egli poté senza difficoltà portarsele a Lipsia, dove le pubblicò, senza naturalmente dire dove le avesse trovate; e la pubblicazione destò un interesse enorme. Nel 1859 il Tischendorf tornò al Convento; vi si trattenne vari giorni, cercò, frugò, ma senza trovare altro. Finalmente, il 4 di febbraio, decise di partire; i cammelli erano già ordinati per la mattina successiva, quando il servo del Convento lo pregò di passare un momento da lui; e, condottolo nella sua stanza, gli mise dinanzi una gran quantità di pergamene. Il Tischendorf trovò che esse contenevano nientemeno che la traduzione greca di gran parte dell’Antico Testamento, tutto il Nuovo Testamento, il testo greco dell’Epistola di Barnaba che nessuno aveva mai potuto trovare, e il testo greco del libro noto col nome di  Pastore di Erma! Dopo pratiche interminabili, il prezioso tesoro, nel 1862, passò nelle mani dello Zar Alessandro III, perché il Convento di Santa Caterina, di culto greco ortodosso, era sotto la protezione dello Zar e dal 1869 al 1933 rimase nella Biblioteca imperiale di Pietrogrado. Nel 1933 la Russia sovietica lo vendette all’Inghilterra per centomila lire sterline; e da quell’anno esso si trova a Londra, gelosamente custodito nel  ‘British. Museum’.

 

Il secondo Codice è il ‘B’ o  ‘Vaticano’. É un codice membranaceo come il Sinaitico; è scritto su tre colonne, ha settecentocinquantanove carte, e contiene tutta la Bibbia. Si suppone che l’origine sia la stessa del  ‘Sinaitico’ e lo si data dalla metà del quarto secolo. Si chiama Codice  ‘Vaticano’, perché la Biblioteca Vaticana lo possiede da tempo immemorabile. Il primo catalogo della Vaticana è del 1475, e già allora la famosa Biblioteca lo possedeva. La scoperta della grande importanza di questo Codice è dovuta alle fortunose vicende della guerra. Il Codice giaceva ignorato e sepolto nella Vaticana, quando per le nostre Biblioteche e per le nostre Gallerie passò la tormenta francese. Con una quantità d’altri tesori artistici e letterari, anche il Codice ‘B’ si trovò, nel 1809, trasportato a Parigi. E fu là che Leonhard Hug, teologo cattolico e professare a Tubinga, lo vide, lo studiò, e ne rivelò l’immenso valore. Nel 1843 il Tischendorf andò a Roma a studiare il Codice che era stato restituito alla Vaticana. Ma non gli fu permesso di studiarlo che per due giorni, e per sei ore al giorno! Anche il Tregelles, nel ‘45, rinnovò il tentativo di studiarlo; e per ben cinque mesi lo cinse d’assedio. Egli stesso ha narrate le vicende di quell’assedio. Prima di permettergli d’accostarsi al Codice, lo frugavano come un ladro; gli levavano penne, carta, inchiostro. Due preti gli stavano alle costole; i quali, quando lo vedevano particolarmente interessato a passo speciale, cercavano con ogni mezzo di distrarlo; e se persisteva nella sua attenzione gli strappavano addirittura di mano il Codice. E lode va data a Pio IX che trovò il modo di porre fine a queste idiozie, facendo riprodurre del Codice l’eccellente facsimile, che si trova oramai in tutte quante le grandi Biblioteche.

 

Il terzo Codice è ‘l’Alessandrino’ o Codice ‘A’, che fu il primo dei Codici della Bibbia ad esser designato con una lettera dell’alfabeto. Da quanto si può giudicare, è un Codice della seconda metà del quinto secolo. La prima notizia storica che se ne ha è che fu presentato al patriarca d’Alessandria nel 1098; da dove il nome che porta, di Codice Alessandrino. Cirillo Lucare, nel secolo decimosettimo, l’aveva con se quando era patriarca di Costantinopoli. Nel 1628 lo regalò a Carlo  d’Inghilterra, ed oggi si trova a Londra, nel ‘British Museum’. É un manoscritto membranaceo, e contiene la Bibbia intera; ha settecentosettantatre carte, ed è scritto a due colonne.

 

Il quarto Codice, Codice ‘C’o di ‘Efrem’, il peggio conservato di tutti, è un palinsesto. Questa parola, che viene dal greco pálin, di nuovo, e psáo casso, raschio, dice tutto.

Si tratta di uno di quei documenti sui quali, cassato l’antico scritto che contenevano, si scriveva della roba nuova. Prima che fosse inventata la carta, poiché la pergamena era divenuta carissima, ecco che cosa si pensò di fare: prendere le vecchie pergamene, raschiarvi lo scritto degli antichi autori, e servirsene per scrivervi su le cose nuove che si volevamo pubblicare. Così fu che molte opere di grandi scrittori antichi andarono perdute. La richiesta delle opere antiche era scarsa; quella delle opere nuove, forte; alla seppia ed alla pomice fu dato l’incarico di accomodare le cose; e più d’uno scritto di un gran poeta o di un gran pensatore dovette cedere il posto alle elucubrazioni di qualche oscuro rimatore o di qualche insulso chiacchierone.

Ma torniamo al nostro Codice di Efrem. Esso non ha più che duecentonove carte, delle quali centoquarantacinque contengono il Nuovo Testamento; ogni carta è scritta in una unica colonna. Originò forse in Egitto, prima della metà del quinto secolo. Corretto poi, forse in Palestina verso il sesto secolo, e poi ricorretto forse a Costantinopoli verso il nono, si trovò, verso il dodicesimo, ridotto allo stremo; e qualche copista ignorante prese quel tanto che del vecchio Codice rimaneva, per iscriverci su trentotto trattati greci di un Padre della Chiesa di Efrem, un certo Siro. Questo spiega il nome di  Codice di ‘Efrem’; ma il Codice è noto anche con il nome ‘Regio Parigino’, o ‘Codex Regius Parisiensisi , perché si trova a Parigi nella Biblioteca reale dove fu portato da Caterina dei Medici. Fortunatamente, il copista, o i copisti che fossero, non riuscirono a distruggere che in parte il testo primitivo.

 

Questi, i quattro manoscritti classici della Bibbia intera; tutti gli altri che possediamo non ci forniscono più la Bibbia intera o parti dei vari libri di tutta la Bibbia, ma soltanto delle parti del Nuovo Testamento; e sono tutti Codici di gran valore; alcuni, di un valore inestimabile. Tale è, per esempio, il così detto Codice di Beza o Codice ‘D’, che si conserva in Inghilterra, nella Biblioteca della Università di Cambridge. Porta il nome di Teodoro di Beza (celebre teologo francese che passato in Svizzera divenne il successore del Calvino e tanta parte ebbe nelle vicende della Riforma a Ginevra) perché egli fu che, nel 1581, lo regalò alla Università Cantabrigense. Il Codice è greco e latino, contiene i quattro Vangeli e gli Atti degli Apostoli, e data dal quarto secolo.

 

Ma questa collezione di scritti biblici come si è andata formando?

Ha questa formazione una storia? Sì, ha una storia: storia interessantissima, complicata, irta di problemi, non tutti di facile e alcuni addirittura d’impossibile soluzione. Di questa storia ne tracciamo le linee generali.

Cominciamo dall’Antico Testamento. L’Antico Testamento non ha, in ebraico, un nome unico che lo designi tutto quanto; ma porta tre nomi, che accennano alle tre grandi parti in cui si divide: Torah, Nebiim, Kethubim: Legge, Profeti, Scritti: ossia (gli altri) Scritti.

Verso la metà del quinto secolo avanti Cristo, il Levita Esdra venuto da Babilonia a Gerusalemme per dare ordine alla comunità giudaica; la quale, sorta dopo l’esilio e in séguito all’editto di Ciro del 536, si trovava in tutt’altro che buone condizioni materiali e morali. Esdra, coadiuvato energicamente dal governatore Nehemia, riuscì nell’intento; e, fra i mezzi da lui adottati per raggiungere lo scopo, è ricordata ‘la lettura pubblica della Legge mosaica dinanzi al popolo, convocato in assemblea solenne’ (4). Da quel giorno, la Torah, che comprendeva il Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), divenne la norma della vita religiosa e sociale del popolo giudaico; da quel giorno, il giudaismo iniziò ad avere la sua Bibbia.

Durante l’età ellenica, le conquiste di Alessandro Magno, che avevano trasformato il mondo orientale, trasformarono anche radicalmente le condizioni della vita del popolo giudaico; e il popolo giudaico rimase addirittura senza profeti. È naturale quindi che, non sentendo più da tempo voce viva di profeta, provasse a poco a poco il bisogno di raccogliere gli scritti profetici che gli erano stati trasmessi dagli antenati, i libri storici che contenevano espressioni di profeti antichi, i libri profetici veri e propri, e si adoperasse a formare una seconda collezione di libri sacri, da aggiungere alla prima collezione della Torah. Così nacquero i Nebiim, i profeti; e un passo del prologo del libro di Gesù Ben-Sirach (l’Ecclesiastico) c’informa che questa seconda collezione era generalmente riconosciuta e circolava fra il popolo come collezione sacra ed ispirata, al principio del secondo secolo avanti Cristo.

 

E i dottori giudei non si fermarono qui, ma misero assieme una terza collezione di diversi scritti fino allora negletti, alcuni dei quali risalivano a tempi antichissimi, e altri erano di origine più recente; e sorse così la collezione dei Kethubim, degli (altri) Scritti. Dallo stesso Gesù Ben-Sirach, che ci conduce al 132 prima di Cristo, sappiamo che questa raccolta era già in via di formazione al suo tempo. Il numero dei Kethubim non fu fissato: variò parecchio, per le discussioni che alcuni di quei libri suscitavano, ma, verso l’anno 90 dopo Cristo, a Jamnia, che, dopo la caduta di Gerusalemme era divenuta il centro spirituale del giudaismo palestinese ed aveva una Scuola famosa che il Rabbino Simeon Ben-Azai dice composta di settantadue anziani, il numero dei Kethubim fu fissato, e la Bibbia giudaica rimase formata nel modo che è giunta fino a noi.

 

E veniamo al Nuovo Testamento. Gli apostoli e i primi cristiani fecero uso, per la istruzione religiosa, del Testamento Antico; e poiché la conoscenza degli scritti sacri fra il popolo giudaico era mantenuta e diffusa mediante la lettura pubblica che di quegli scritti si faceva regolarmente nelle Sinagoghe, è probabile che anche i cristiani mantenessero questo uso nelle loro adunanze. Fino alla metà del secondo secolo, la istruzione essenzialmente cristiana continuò ad essere impartita per via di tradizione orale, e la Chiesa non sentì la necessità di formare una collezione completa degli scritti che gli apostoli, durante i loro viaggi missionari, inviavano man mano alle comunità che avevano fondate. Ma la necessità di formare una collezione non tardò a farsi sentire; prima di tutto, per il minaccioso dilagare dello gnosticismo; poi per il moltiplicarsi degli scritti apocrifi, e finalmente per la convinzione che si andava facendo sempre più profonda nei credenti, che qualunque altro fondamento si fosse voluto dare alla istruzione religiosa in luogo di questi scritti, sarebbe stato fondamento manchevole, insufficiente.

La culla della collezione del Nuovo Testamento fu probabilmente l’Asia Minore; e verso la fine del secondo secolo, le chiese dell’Asia Minore, di Alessandria e dell’Africa occidentale erano d’accordo nell’accettare i quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli, tredici epistole di Paolo, una di Pietro, una di Giovanni, e l’Apocalisse. Della Chiesa romana di questo tempo non sapremmo a questo proposito nulla di sicuro, se a questa lacuna non supplisse in parte il frammento di Canone romano del secondo secolo, scoperto dal Muratori nell’Ambrosiana di Milano e da lui pubblicato per la prima volta nel 1740, e che per tale motivo è noto col nome di ‘Frammento Muratoriano’. Questo frammento ci dice che la Chiesa romana, verso il 170 o il 180, possedeva una collezione, che includeva i quattro Vangeli, gli Atti, tredici epistole di Paolo, l’Epistola di Giuda, due Epistole di Giovanni, e l’Apocalisse.

Il terzo secolo non portò nella collezione cambiamenti notevoli; soltanto alcune Epistole, come per esempio quella agli Ebrei e quella di Giacomo, cominciarono a circolare più ampiamente e ad acquistare maggior favore. E le cose rimasero così fino al quarto secolo, quando la Chiesa cominciò a sentire il bisogno di distinguere nettamente  libri sacri dagli altri scritti, e prese a chiamare canonici, vale a dire da servir di norma per la fede i libri che considerava come fonti purissime della conoscenza cristiana. Intanto, la Chiesa greca, riconosciuti come ‘canonici’ i libri che fino allora erano stati contrastati, fissò legalmente il proprio Canone nel Concilio di Laodicea, verso il 363; la Chiesa latina lo fissò nel Concilio d’Ippona del 393 e nel terzo di Cartagine del 397, e il Canone del Nuovo Testamento si trovò così fissato nelle due grandi Chiese quasi nello stesso periodo e, con esclusione di qualche divergenza in alcuni particolari, con mirabile armonia.

Una cosa va qui notata, che ha grande importanza. La collezione dei Libri sacri che è giunta fino a noi, non fu fatta né per comandamento di Dio né per comandamento di uomini.

Il processo della formazione del Canone fu graduale: i Concili poco altro fecero che ratificare il giudizio già pronunziato dalla Comunità cristiana. Il Canone fu il risultato della vita religiosa della comunità e il criterio con cui il Canone fu formato, fu il criterio religioso del popolo credente.

 

 

1. Alcune parti sono scritte in aramaico.

2. Diocleziano regnò dal 281 al 305. La sua terribile persecuzione dei cristiani cominciò nel 303.

3. Atti XV. 21;  Cor. III. 5.

4. Nehemia VIII. Giosia, nel 180 anno del suo regno, cioè nel 621 av. Cristo, aveva già data anche egli pubblica lettura del ‘Libro della Legge’; ma questo non fu che un incidente precursore e nulla più, perché non ebbe séguito immediato.

 

Il Libro dei Libri

Nei suoi manoscritti - Nelle sue Traduzioni - Fra le rovine dei Templi