Visita a Taos

Per uscire da una delle autostrade che tagliano il Nuovo Messico, a seguire una delle carrarecce fra le distese deserte ed i rari coltivi, avviene di ritrovarsi in uno dei villaggi indiani Quere sopravvissuti; le case di fango e paglia, tozze ed eleganti, con le travi del soffitto sporgenti, si raccolgono attorno alla piazza e di questa stagione si ode, entrando nel dedalo di strade, un coro ora gutturale ora ruggente. Le donne s'affrettano, uscendo dalle porte di casa con i bambini, verso la piazza, recando piatti di cibi variopinti; hanno lo sguardo celato, i manti ondeggiano, verdi e scarlatti, al loro passo veloce. La piazza si svela all'improvviso, vasta, assolata; il canto cupo e imperioso dei danzatori allineati al centro risuona come una successione di colpi battuti contro la terra arida. La bruna cerchia delle case è interrotta dai colori violenti dei crocchi di donne che assistono immobili, ritte sui terrazzi coi manti agitati dal vento caldo e carico di aromi. I danzatori stanno in fila, la pelle lustra scintillante al sole, avvolti di fronde verdi chiarissime, battendo il tempo con le caviglie risuonanti di bubboli, agitando le piume, i simboli delle preghiere ascendenti al cielo. La danza non conosce enfasi e vasti movimenti, anzi è tutta affidata a gesti minimi, come quella dei Noh giapponesi, e l'impressione è d'una forza trattenuta, immensa, la stessa che dà il duro canto. Una forza sul punto di traboccare e una discrezione sottile che impongono un'inflessibile attenzione, grazie alla quale lentamente si penetra di là dell'apparente monotonia. La scena resta immutevole per un'intera mattina, sotto il sole. Poi i danzatori in fila s'incamminano verso una delle case dove le donne hanno allestito il pasto sacrale. Di alcune di queste danze e dei loro canti si conoscono lunghi commentari che sciolgono il mistero delle iterazioni dall'apparenza o troppo semplice o troppo enigmatica; di molti fra i simboli celati nell'abbigliamento si conoscono almeno alcuni significati. Ma l'ipnosi del sole, la scansione di petto delle voci, la tersa luce di deserto e d'altopiano, i profumi d'incenso delle piante esalanti nella calura, i sapori dei cibi; tutto ciò forma il corpo vivente che riveste l'invisibile verità di cui parlano i canti. Una verità più antica ma non discorde da quella che proclamano le chiese spagnole dei villaggi, di fango e paglia, intonacate di un bianco acceso, con le travi sporgenti, di forme assai simili a certo romanico sardo, spesso adorne di gioiosi affreschi popolari. I Pueblos non hanno mai accettato di separare con violenza le loro verità antiche e quelle portate loro dai francescani nel secolo XVI, anzi hanno saputo certamente arricchire la nuova fede. Dove si potrebbe altrove trovare qualcosa di simile alla sublime chiesetta di Chimayo? E un santuario di fango, con pale d'altare d'una grazia rustica e patetica, dove i santi cristiani hanno tratti da maschere di spiriti indigeni; dietro l'altare è celata una stanzetta dominata da una figura di Bambino, dove la nuda terra del pavimento ha proprietà miracolose. Chi l'ha mangiata o, fattane della mota, se ne è cosparso, ha talvolta potuto abbandonare in sacristia gli arti ortopedici, le grucce con cui vi si era trascinato. Le rastrelliere recano queste testimonianze di guarigione, un album raccoglie frasi devote dei visitatori; nelle ultime pagine mani femminili hanno tracciato, nel nobile spagnolo rinascimentale che ancora qui si parla o in inglese, suppliche per i giovani dei villaggi oggi in pericolo nel Vietnam.

Così l'alchimia di devozioni ha riprodotto in questo santuario rustico la pratica rammentata dagli antichi trattati medici e da Paracelso, di mangiare certa terra di certi luoghi privilegiati (la si chiamava in Europa terra sigillata).

Chi salga da Santa Fé inoltrandosi per una valle ubertosa fino agli altipiani, trova il villaggio più celebrato e antico, Taos.

Abbandonata la Taos spagnola piena di grazia, si percorra un sentiero di campagna ed ecco la Taos indigena, immutata forse dal secolo XIV.
Riecco le case quadrate, l'una sovrapposta all'altra, con terrazzi che immettono l'uno nell'altro, e nell'insieme danno un'impressione di fortezza, come certi monasteri tibetani. Riecco il breve dedalo di vie, e infine la piazza vastissima. Fermi qui al centro, si può cogliere una felicità piena di pace e di conoscenza: la stessa che può arridere a chi si soffermi all'incrocio del cardine e del decumano a Paestum o in quel che resti d'una qualsiasi città edificata secondo le antiche planimetrie sacre. Come a Paestum il centro mistico della città è il mundus, cioè un edificio sotterraneo che non coincide col centro geometrico delle due strade essenziali così anche gli edificatori di Taos provvidero a che nel piano stesso della loro città fossero iscritti dei luoghi dedicati alla contemplazione dell'armonia cosmica: i mundus di Taos sono detti kiwa e ve n'è uno per ogni quartiere. Sporgono da terra le cupole delle loro volte, dalle quali spuntano le scale che danno accesso, dall'alto, all'interno: simboli dell'asse del mondo. Soltanto gli uomini versati nelle sacre cerimonie hanno accesso ai kiwa, dove si custodiscono gli oggetti sacri. Stando nella piazza si coglie una singolare gioia, che proviene non solo dalla bellezza dei monti turchini a corona della cerchia di case, ma dal sentirsi in una geometria di proporzioni perfette, rispondenti alle norme stesse che reggono il nostro corpo cd i nostri pensieri ordinati. La linea clic congiunge il mezzogiorno alla tramontana è segnata dal ruscello che rallegra il borgo. Sull'asse che unisce oriente a occidente la strada principale sfocia nella piazza, a fianco della chiesa. Contemplare significò alle origini: stabilire esattamente l'orientamento d'un sito. Ma il centro dei più profondi pensieri religiosi dei Taosiani non è simboleggiato da alcun luogo del loro villaggio, si trova infatti nascosto dietro le giogaie di monti vicini, di là dai pascoli dove brucano liberamente i cavalli. C'è una conca fra le montagne, coperta di conifere, e al suo centro il sacro Lago Azzurro. Quando, al giorno designato, i Taosiani in processione scendono in giri concentrici verso il lago, si dice che i pesci accorrano a frotte a pelo d'acqua.

Proprio al pensiero di questo lago sono turbati i Taosiani, mentre preparano le grandi danze, poiché, ultima di tante tremende angherie durate nei secoli dalla loro fede delicata, benché essi abbiano la proprietà del lago, in qualche ufficio del ministero dell'agricoltura a Washington qualcuno ha deciso di mettere a frutto le risorse della conca. I luoghi che dovevano insegnare la verginità del creato potrebbero, se la minaccia non fosse sventata, ridursi a immondezzai del turismo ed a razionali pescaie. Taos elegge un capo, il quale cessa al momento della designazione di ricordarsi l'inglese e parla soltanto tiwa e quindi s'aggira, ammantellato e maestoso, insieme al suo interprete, come Mosè con Aronne, per Washington, dove la questione è stata portata al Senato. Due Taosiani ne parlano sorridenti e con amarezza. Esitano, come ogni pudico indiano, a parlare delle cose religiose, intime per eccellenza; quando domando il significato del lago mi domandano di dove vengo e, saputomi italiano, spiegano: "Il lago è per noi ciò che per lei è Roma. Il pellegrinaggio che vi facciamo è ciò che la Pasqua è per lei".

 

Il brano è tratto da: "I Letterati e lo Sciamano", Bompiani, Milano 1969, 1978, a cui si rimanda per gli approfondimenti.