Nel 1167 a Saint Félix de Caraman, una località della Francia meridionale nei pressi di Tolosa, si diedero appuntamento i maggiori esponenti dell'eresia catara. Scopo della riunione era l'organizzazione del movimento attraverso la creazione di nuovi vescovi e la definizione dei confini territoriali dell'istituenda diocesi di Carcassona. Era presente «papa» Niquinta o Niceta della chiesa di Dragovitza, proveniente dai Balcani o da Bisanzio. Un episodio, questo di St Félix, che palesa l'esistenza, nella seconda metà del XII secolo, di un'organizzazione strutturalmente definita, di rapporti e contatti con il cristianesimo e le chiese orientali, ma soprattutto - al di là dei significativi esiti che questo «concilio» avrà nell'evoluzione dell'eresia - in stridente conflitto con il quasi assoluto silenzio delle fonti di parte cattolica. In quel 1167, infatti, in Italia raggiungeva l'acme il contrasto tra i Comuni e il Barbarossa e nel nord si dava vita alla Lega Lombarda e l'imperatore tedesco si vedeva costretto, a causa dell'epidemia dissenterica che aveva colpito il suo esercito alle porte di Roma, a ridimensionare la progettata aspirazione di far valere la propria supremazia sul Papa e sui Comuni della ricca Lombardia. Le due massime autorità del modo occidentale - il Papato e l'Impero - erano dunque troppo indaffarate a tutelare i propri interessi per rendersi conto di quale pericolo si stesse diffondendo nella cristianità. A dire il vero sin da una ventina d'anni prima il prevosto Evervino di Steinfeld aveva avvertito con preoccupata apprensione la presenza e la diffusione in Colonia di un gruppo particolare di eretici e ne aveva scritto a san Bernardo di Clairvaux. Costoro - Evervino afferma - si ritengono i veri depositari dell'insegnamento di Cristo e gli unici legittimati a chiamarsi suoi discepoli perché come Cristo e gli apostoli nulla possiedono; hanno una loro gerarchia; condannano il matrimonio e si astengono da latticini e carne, da tutto ciò insomma che è originato da un rapporto sessuale; non hanno sacramenti tranne il battesimo, che impartiscono non con l'acqua ma imponendo le mani, e tranne l'eucarestia, che consiste nello spezzare il pane recitando il Pater, unica preghiera da essi ammessa. Non solo, ma il loro credo è tale che, condannati al rogo, sopportano il martirio stoicamente e una loro giovane compagna, cui si voleva risparmiare tale fine, preferisce addirittura gettarsi spontaneamente nelle fiamme piuttosto che rinnegare la propria fede. Evervino, poi, riferendo che gli eretici coloniesi «affermano che la loro eresia è rimasta nascosta dal tempo dei martiri fino ai nostri giorni in Grecia e in altre regioni» donde sarebbe trasmigrata in Germania, conferma quei legami con la chiesa orientale che la presenza di un «papa» Niceta a St Félix lascia intuire. Il prevosto tedesco, tuttavia, non coglie nei temi propri del movimento quella che ne è la peculiarità, l'adesione cioè ad un dualismo di tipo mitigato, riconducibile ai Bogomili della Tracia e della Macedonia, ben diverso dal dualismo radicale che a St Félix sarà predicato da Niceta e che, d'ispirazione chiaramente pauliciana, si affiancherà al primo e determinerà non poco lo sviluppo e la storia dell'eresia occidentale.
L'ideologia dei Bogomili Ma chi erano i Bogomili e i Pauliciani? I primi derivano il loro nome da Bogomil, un prete portavoce del mondo contadino slavo contro l'opprimente tirannide dello zar Pietro (morto nel 969). Per Bogomil Dio è sovrano del mondo invisibile e spirituale, mentre sul mondo terreno e materiale regna Satana «il principe di questo mondo». Questi, espulso dal cielo per la sua ribellione, ottiene da Dio sette giorni, in cui riesce a dare assetto alla materia e a dar vita all'uomo che vuole suo schiavo; e questo impero di Satana sul mondo si perpetuerà mediante la lussuria accesa nel primo uomo e nella sua compagna. Da siffatta concezione della materia, intesa quale opera diabolica, derivano diverse singolari tematiche, alcune delle quali coincidenti con quelle segnalate da Evervino per gli eretici scoperti a Colonia. Tra esse vi è quella del battesimo insegnato da Cristo, diverso da quello acqueo del Battista, considerato messaggero di Satana: quella di Maria, angelo inviato da Dio per accogliere Cristo; l'interpretazione esclusivamente allegorica dei miracoli evangelici e del sacramento dell'eucarestia; il rifiuto della venerazione della croce, strumento della passione di Cristo; la rigida condanna dei contatti sessuali e l'astensione dai cibi carnei o comunque originati dal coito. L'unica preghiera consentita è il Pater perché direttamente insegnata da Gesù e molteplici sono i riti iniziatici - dall'imposizione dei vangeli sul capo dell'adepto alla finale imposizione delle mani - che permettono al fedele, liberato da ogni contatto con la materia, d'essere illuminato dallo Spirito Santo. Forte era nei Bogomili il disprezzo per la chiesa ufficiale, della quale condannavano la ricchezza in stridente contrasto con la loro povertà, rifiutavano il riposo domenicale e la vita coniugale e tenevano in scarsa considerazione il lavoro, giudicandolo sintomo d'eccessivo interesse per le necessità temporali. Da questa esaltante autocoscienza e da questo disprezzo avrebbe potuto probabilmente sortire una carica d'odio sociale, il presbitero Cosma, perlomeno, afferma che i Bogomili disprezzavano i ricchi ed esortavano i servi a ribellarsi ai padroni. Pur tuttavia non possediamo testimonianze su veri e propri moti bogomili a sfondo sociale e l'affermazione di Cosma può essere solo la spia di quel timore - nella storia ereticale sempre riaffiorante - di cui risulta pervasa la letteratura polemistica; timore che farà accusare di sovvertimento sociale, d'incitamento al disordine, di attentato preordinato al potere legittimo da parte di gruppi eterodossi o comunque «diversi», in tempi e luoghi differenti, dai lebbrosi agli Ebrei, dagli eretici alle streghe. Nel 1096 i primi crociati avevano trovato numerose comunità bogomile pacificamente stanziate in Macedonia e s'eran affrettati a massacrarle, rendendo un non piccolo servigio all'imperatore Alessio, assai turbato dalla scoperta nella stessa Bisanzio di un fortissimo nucleo bogomilo. Nonostante i massacri, i processi, le condanne, di Bogomili si continuerà a parlare fin dopo la metà del XII secolo, quando assisteremo al progressivo avvicinamento di essi ad un'altra antica corrente ereticale, che per il pessimismo cosmogonico che la caratterizza, dovuto alla esasperazione di tematiche di deciso carattere dualistico, sembrava più adatta a spiegare e fornire un significato alle persecuzioni stesse: l'eresia pauliciana.
L'ideologia dei Pauliciani Movimento etichettato come manicheo, derivante presumibilmente il nome da san Paolo, di cui i fedeli si ritenevano eredi e discepoli, il Paulicianesimo, ricordato per la prima volta nel 702, già nel settimo secolo era costituito da un gruppo ben definito, stanziatosi in Armenia e da qui scacciato sulle rive del Mar Nero. Caratterizzati dalla fama di valorosi combattenti, i Pauliciani si erano trovati ad agire nel pieno della lotta iconoclastica; ben accetti dai Musulmani, avevano combattuto con essi contro Bisanzio finché l'imperatore Basilio I ( + 886) non aveva inviato presso di loro, per intavolare trattative, il suo funzionario Pietro di Sicilia - cui dobbiamo la testimonianza più ricca su questo movimento. Dopo varie vicende si erano finalmente stanziati in Tracia. Se il vescovo armeno Giovanni di Ozun li accusa di essere adoratori del Sole e di praticare, per l'elezione del loro capo, il rito nefando del passaggio di un neonato di mano in mano, fino alla morte del bimbo e alla nomina di colui nelle cui mani l'infante è spirato - altro topos che ritroveremo frequentissimo nelle descrizioni dei barilotti ereticali e stregonici - da Pietro di Sicilia apprendiamo invece che i Pauliciani avevano una perfetta conoscenza del Nuovo Testamento, mentre rifiutavano l'Antico, le lettere di San Pietro e l'Apocalisse. Alla base del pensiero pauliciano è il concetto della compresenza di un Dio cattivo e di un Dio buono: il primo padrone del mondo, il secondo del futuro. Da qui la negazione dell'incarnazione di Cristo, natura angelica scesa tra gli uomini passando attraverso Maria e assumendo solo in apparenza l'aspetto corporeo. Dall'odio per la materia nasceva poi di conseguenza il rifiuto dei sacramenti e il disprezzo per la croce, strumento di tortura dell'angelo inviato da Dio. Anche se non ci sono pervenute particolari mitologie riconducibili al pensiero dei Pauliciani è indubbio che sia essi sia i Bogomili esercitarono una notevole influenza sul pensiero eterodosso europeo. Ci troviamo, infatti, di fronte ad ideologie assai più organicamente strutturate di quelle dei movimenti evangelici e pauperistici dell'XI secolo e della prima metà del XII. Ed è dalla influenza di siffatte ideologie, variamente combinate tra loro ed arricchite di tematiche proprie del mondo occidentale, che nasce quell'eresia conosciuta come Catarismo, il cui nome si pensava derivare dal greco catharos = puro, e non è un caso se la maggior diffusione dell'eresia catara viene registrata nella Francia meridionale, nelle Fiandre, nella Germania e nell'Italia centro-settentrionale, le zone più vive dal punto di vista culturale e dove con particolare sensibilità si avvertiva la discrepanza tra il dettato evangelico e la prassi comportamentale della gerarchia, tra l'attivismo economico tutto teso all'accumulo e alla concentrazione della ricchezza e l'invito evangelico ad un distacco da essa. La discrasia tra i due momenti veniva pertanto vissuta in modo lacerante e faceva sì che il dualismo - fosse esso di tipo moderato come quello bogomilo o radicale come il pauliciano - si potesse proporre quale ideale chiave interpretativa delle incongruità proprie della società. A questo aspetto significativo se ne aggiungeva un altro altrettanto sintomatico e rispondente alle istanze culturali proprie dell'ambiente in cui vediamo maggiormente svilupparsi il Catarismo: il rifiuto della quasi totalità del Vecchio Testamento quale espressione del Dio malvagio e del ribelle Satana e l'accettazione pressoché esclusiva del Nuovo erano scelte motivate e soprattutto sostanziate da una lettura e da una preparazione sui testi, tali da consentire ad un tempo sia di affrontare la gerarchia in aperto dibattito sia di fornire uno strumento culturalmente appagante e rispondente alle aspettative delle masse e dei singoli. A favore di una rapida diffusione del Catarismo v'erano ulteriori elementi etici e socio-politici: il disinteresse per il mondo del lavoro e l'aperto disprezzo per le ricchezze facevan sì che i Catari non aspirassero ad assumere un ruolo egemone all'interno della società, cosicché quello che spesso sarà bollato dalla Chiesa come atteggiamento filoereticale delle classi dirigenti comunali era in realtà solo un disinteresse per un fenomeno che non mirava a sovvertimenti politici. I «buoni cristiani», com'eran chiamati ed amavano essere chiamati i Catari, non interferivano, infatti, nella vita pubblica e a rendere ancor più appetibile il Catarismo era anche la polifunzionalità di approccio e di adesione che esso prevedeva. Il più crudo ascetismo, fatto di disprezzo della ricchezza e di completa astensione dai rapporti sessuali, era infatti riservato ad una strettissima minoranza; a tutti gli altri credentes veniva riconosciuto un ruolo di supporto ma non per questo di scarso valore, ed in tale ruolo erano perciò lasciati liberi di avere famiglia, di lavorare e partecipare alla vita sociale senza che il loro credo interferisse. Una morale, quindi, quella catara, che dava largo spazio e concedeva ampi margini di libertà ed azione senza impedire al credente di sentirsi parte attiva del processo salvifico. A tutti questi elementi che spiegano il successo del Catarismo se ne aggiungono altri due altrettanto essenziali e forieri di conseguenze di notevole rilevanza esterna. Di uno di essi si è già avuto sentore ricordando il concilio di St Félix de Caraman, l'esistenza cioè di una vera e propria gerarchia decisamente alternativa e contrapposta a quella cattolica; e strettamente connessa a questa l'adozione di una liturgia e di una ritualità che rendevano i fedeli pienamente partecipi, sia pure a livelli e con modalità differenziate.
La gerarchia A capo di ogni chiesa stava il vescovo coadiuvato nelle sue funzioni da un «figlio maggiore» e un «figlio minore»; costoro costituivano la dignità episcopale in forma collegiale in quanto, oltre a funzioni di carattere amministrativo, garantivano, con la consacrazione del vescovo, la successione e la continuità ai vertici della chiesa stessa. In caso infatti di morte del vescovo, il figlio minore provvedeva alla consacrazione vescovile del figlio maggiore e questi, a sua volta, consacrava il nuovo figlio minore eletto dalla comunità. Anche se si è a lungo fantasticato sull'esistenza di un «papa» cataro, sappiamo che al di sopra del vescovo non esisteva un'autorità atta a garantire il coordinamento delle varie chiese. E questo fu sempre un motivo di debolezza per il Catarismo, sostanzialmente compatto nell'opposizione alla gerarchia cattolica ma diviso, anche se non lacerato, da una pluralità di «chiese». Accanto al vescovo e ai due figli troviamo poi i diaconi, che svolgevano quelle funzioni che in ambito cattolico sono proprie del sacerdote o del parroco, ed i «perfetti». Erano, costoro, l'anima della chiesa catara. Inizialmente si distinguevano per un abito particolare, che fu ben presto ridotto ad un semplice scapolare onde evitare il riconoscimento in tempo di persecuzione. Essi costituivano il nucleo da cui venivano prescelti coloro che erano destinati alle più alte cariche ed erano accompagnati da un alone di santità e di devota ammirazione dei loro fautori. Viaggiavano generalmente in coppia e tenevano le riunioni dei fedeli di notte, nella casa di qualche adepto. Qui davano corso al loro proselitismo contraddistinto da una vera e propria gradualità pedagogica: si partiva dall'esegesi letterale dei testi evangelici, con riferimento a quei precetti di valore morale che eran particolarmente sentiti ed accessibili alle masse; si passava poi ad esaltare la necessità di dar vita ad una nuova chiesa, diversa e contrapposta a quella cattolica. Vi era infine un terzo momento, riservato a coloro ch'eran destinati a divenire «perfetti» o quanto meno ad elevarsi ad un grado superiore di compromissione, in cui si introduceva il dualismo con tutta la sua mitologia. Queste diversità di approccio tuttavia rappresentavano significativi momenti di un unico processo ordinato ed ideologicamente coerente che si offriva «come una rivelazione superiore e aggiunta al Nuovo Testamento, che ne era perciò, anche ed insieme, il garante» (Manselli).
La ritualità Per comprendere il significato di tutta una ritualità, diversa e contrapposta a quella ortodossa, occorre ricordare che il Cataro, fosse egli dualista radicale o moderato, si sentiva gettato sulla terra per una colpa non sua, di cui però era partecipe e pagava di persona le conseguenze. Solo una visione sostanzialmente negativa della realtà fenomenica della quotidianità può infatti spiegare la crudezza - o crudeltà - di certi riti e l'ascetico rigorismo di certi precetti. Strettamente dipendente e connessa con una siffatta visione è senz'altro l'astensione già ricordata dai cibi carnei, cui si affianca il digiuno attuato tre giorni alla settimana e per tre quaresime all'anno (prima di Natale, di Pasqua e dopo Pentecoste). Venivano inoltre praticate la salutatio o abbraccio che credenti e perfetti si scambiavano incontrandosi, spesso accompagnato dal meliorameutunt, vero e proprio omaggio che il credente rivolgeva con una riverenza o un inchino al perfetto; la frazione del pane, accompagnata dalla recita del Pater, dove al «dacci oggi il nostro pane quotidiano» si sostituiva l'espressione «dacci oggi il nostro pane soprasostanziale», con la quale s'intendeva non tanto rievocare l'Ultima Cena o procedere alla consacrazione del pane stesso ma invocare sui presenti la luce della parola divina. Ma ciò che sacralizzava il perfetto e lo rendeva colonna portante nel Catarismo era il consolamentum, vera e propria consacrazione sacerdotale. Esso era riservato ad un ristretto numero di eletti, mentre alla massa dei credenti veniva generalmente impartito soltanto in punto di morte, quando cioè l'imminente dipartita garantiva, per così dire, l'impeccabilità del «consolato». Altrimenti chi aspirava ad essere perfetto doveva aver compiuto diciotto anni e per un periodo più o meno lungo - in genere un anno - veniva istruito per essere in grado di predicare e di confrontarsi in dibattito coi cattolici. Terminato quest'apprendistato aveva luogo il vero e proprio rito di fronte alla comunità dei fedeli e alla presenza di almeno due perfetti, con la consegna del Vangelo e la recita del Pater. Il consolamentum ritraeva tuttavia, nella perfezione, un momento di equilibrio instabile, suscettibile cioè di venire compromesso dal minimo peccato. Di qui la necessità da una parte di reiterarlo ogni qualvolta la presenza di più perfetti lo consentisse, dall'altra lo stretto legame con due altri riti conosciuti come martirium ed endura. Riservati entrambi generalmente a coloro che venivano consolati in punto di morte, il primo consisteva nel soffocamento del morente, l'altro nel digiuno totale fino alla morte per inedia. Entrambe le pratiche sottendevano una duplice motivazione: «la consapevolezza catara che solo nel dolore e nella morte poteva esserci la liberazione più completa, perfetta ed immediata dal male» (Manselli) e la paura che un'eventuale guarigione potesse indurre nuovamente al peccato.
Una pericolosa espansione Al di là di ogni possibile considerazione d'ordine etico non v'è dubbio che un'ideologia capace di giungere a tali estremi, di dar vita ad un movimento non più spontaneistico e velleitario ma organicamente strutturato e dotato di una propria gerarchia e liturgia, nonché in grado di rispondere a quelle esigenze di coerenza evangelica già presenti nell'XI secolo, rendono comprensibile l'ampio consenso da essa ottenuto presso un largo strato di popolazione e a tutti i livelli sociali. E se ciò spiega il successo del Catarismo, di cui troveremo testimonianze ancora dopo quasi due secoli, spiega altresì la paura, per non dire la psicosi, con cui la Chiesa visse l'esperienza catara tanto che cataro divenne via via sinonimo per eccellenza di eretico: un fenomeno, quello cataro, che per il periodo compreso tra la seconda metà del millecento e la prima metà del milledue fu in costante e pericolosa espansione e destinato a colorarsi di tematiche che avrebbero esorbitato dall'ambito religioso. In Francia il concilio di St Félix altro non era stato che la punta di un iceberg di ben più ampie dimensioni. Alla metà del XII secolo san Bernardo di Clairvaux, strenuo assertore dell'opportunità di perseguire il recupero degli eretici attraverso la discussione ed il dibattito, riesce ad ottenere con la sua predicazione un discreto, seppur precario, successo ad Albi; ma a Verfeil nessuno lo ascolta ed un eretico gli rinfaccia apertamente la grassezza del suo mulo. A sua volta, l'abate Enrico di Marcy, parlando di Tolosa, ne fornisce un quadro a fosche tinte e preconizza che mancando gli opportuni interventi nella regione non vi sarebbe stato più alcun cattolico nel giro di tre anni. Lo stesso vale per la città di Béziers, dove il signore locale, Ruggero II Trencavel, con tutta la sua famiglia, risulta fortemente compromesso; la moglie Adelaide tiene addirittura presso di sé Bernardo Raymond, consacrato a St Félix vescovo cataro di Tolosa, e Raimondo di Barniac, uno dei saggi cui era stato affidato il compito, sempre nel concilio di St Félix, di definire i confini dell'erigenda diocesi catara di Carcassona. Costoro, grazie ad un salvacondotto, possono recarsi a Tolosa, dibattere in pubblico con Enrico di Marcy e ritornarsene incolumi presso Adelaide, senza aver peraltro rinunciato ad alcuna loro posizione dogmatica. La situazione si stava deteriorando anche perché le adesioni, come ci dimostrano Ruggero II e Adelaide, non si limitavano ai bassi ceti ma toccavano anche la nobiltà locale, tanto che il conte di Tolosa, Raimondo V, si vide costretto a richiedere contro i Catari l'aiuto del cognato Luigi VII di Francia e di Enrico II Plantageneto re d'Inghilterra. Ma ancora per tutta la seconda metà del XII secolo la gerarchia ortodossa sembra non dare gran peso a questa realtà e comunque preferisce un'azione di apostolato a qualcosa di più efficacemente incisivo.
La crociata albigese La svolta vera e propria la si avrà nel 1208 con l'assassinio del legato pontificio Pietro di Castelnau. Innocenzo III, che fino ad allora aveva preferito adottare una linea morbida, fatta di missioni, d'interventi in ambito locale con la rimozione di quei prelati la cui azione risultava inefficace e la cui vita destava scandalo, adesso opta per un'azione risoluta e bandisce la crociata che prenderà il nome di albigese da Albi, anche se in questa città i Catari non erano più numerosi che altrove. Quella che nelle intenzioni del re di Francia Filippo Augusto doveva risolversi in una rapida - quaranta i giorni preventivati - spedizione punitiva, si trasformò in una vera e propria guerra di conquista ad opera di Simone di Montfort e della nobiltà francese del Nord, favorendo per contrasto la nascita del nazionalismo occitanico. Perché se vero era che molti signori locali non avevano nascosto le loro simpatie per l'eresia, ciò non significava necessariamente che tutta l'Occitania, colpita dalla crociata, fosse catara. La prima città ad essere conquistata fu Béziers e ancora sconvolge l'esultante trionfalismo con cui i legati pontifici comunicano a Innocenzo III, conquistata la città, «poiché i nostri non guardarono a dignità o al sesso all'età, in quasi ventimila furono passati per le armi», mettendo così tragicamente in atto il consiglio del monaco Amalrico di Clairvaux: «Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi». La crociata, o meglio la conquista, si protrasse ben oltre la pace di Parigi del 1229 con la quale il conte di Tolosa, Raimondo VII, s'impegnava a garantire la libera lotta all'eresia nei suoi territori per altro notevolmente ridimensionati. L'assedio di Montségur del 1243, proclamato dopo l'assassinio ad Avignonet di due inquisitori domenicani e del loro seguito, segnò la fine del Catarismo francese. Nella rocca si erano infatti rifugiati gli autori del complotto e la resistenza che seppero opporre alle forze assedianti venne meno soltanto dopo quasi un anno. In quella occasione, guidati dal vescovo cataro Bernard Marty, salirono sul rogo ben duecento persone e la località dell'esecuzione ancora oggi evoca il ricordo di quella tragica ed eroica testimonianza: Pratz dels crematz (prato dei bruciati). Il Catarismo non scomparve del tutto; in parte si salvò occultandosi e mimetizzandosi, in parte trasmigrò nell'Italia del centro-nord, dove diverse e di diversa natura erano state le sorti dei Catari locali. Ma nella seconda metà del milleduecento l'eresia in modo sostanziale sopravvisse a se stessa, sia per una propria incapacità di rinnovamento sia soprattutto perché la Chiesa cattolica, dopo un lungo periodo di tentennamenti alternati alla più cruda violenza, seppe dotarsi di strumenti che le consentirono di confrontarsi con gli eretici sul piano ideologico e su quello comportamentale.
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