1. Per un nuovo orizzonte etico
Diavolo
deriva dal greco diabállo, divido, separo. Alla luce delle
considerazioni che abbiamo fatto sin qui, ci pare chiaro che è proprio
questo il male assoluto. Del resto la
rappresentazione più classica del diavolo, il serpente, fa il suo
debutto sulla scena della letteratura sacra, proprio sottolineando
questo aspetto. Leggiamo difatti nel Genesi: «Il serpente disse alla
donna: “No, non morirete affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne
mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Élohïm, avendo la
conoscenza del bene e del male”». Abbiamo già visto
che Élohïm è considerato dai cabalisti come la parte di Dio che si
nasconde all’interno dei fenomeni naturali ed ha un valore numerico di
86 pari a Ha-Teva, la natura. Conclude Luca Gavazzi
: «Quindi Adamo ed
Eva, cibandosi del frutto proibito, diventano esperti conoscitori delle
regole della natura». E cosa cambia? Cambia la loro “percezione
originaria”: da quella unitaria si passa a quella “frammentaria dei
fenomeni naturali”, dove il bene ed il male sono in continua
contrapposizione. Dopo questo evento i due si accorgono di “essere nudi”. Ne rimane traccia
– di tutti questi aspetti – persino in alcuni caratteri cinesi.
È la situazione rappresentata simbolicamente, nell’aleph-beth, dalla
lettera Tet:
f.
È una lettera che graficamente rende questa dualità assoluta, irrisolta
e irrisolvibile e che ci esprime questa necessità, questa drammatica
contingenza, senza apparenti vie di fuga. È la rappresentazione della
condizione diabolica dopo la caduta. Del Male. La parte destra della Tet
rappresenta l’elemento acqua, mentre la parte sinistra il fuoco. È la
tensione, la dialettica che troviamo anche nell’Albero delle Sephiroth.
Solo che nell’Albero delle Sephiroth troviamo anche la sintesi, capace
di andare oltre, di integrare e risolvere le contraddizioni del duale.
Così come ci indica la lettera Shin, per esempio:
c.
C’è sì la contrapposizione radicale dei due termini ma è anche indicata,
dalla gambetta centrale, la loro unificazione. Il percorso di risalita,
quello che altrove abbiamo chiamato, secondo l’appropriata espressione
cabalistica, Maashe Merkavah è un passare dalla Tet alla Shin. La radice
Shin Tet, l’inverso, è la radice del male. E questo è vero anche da un
punto di vista strettamente linguistico. La radice ebraica
fc
concorda con l’etimologia greca del termine diavolo. Da cui deriva per
esempio
}fc,
Satan (Shin, Tet, Nun Sofit). Entrambi i termini, dunque, confermano il
valore simbolico del serpente: indicano divisione. In quanto divisori
sono quindi la vera natura del male. Ma Seth, come è noto, è anche il
nome di un antico dio egizio identificato dai greci con Tifone. Membro
della famiglia osiriaca – e come tale integrato nella «Enneade di
Eliopoli» – il carattere di Seth corrisponde ad un nume della turbolenza
e del contrasto delle forze naturali, quindi peculiari delle regioni
desertiche attorno all’Egitto e di popoli stranieri, come gli invasori
hyksos. Osiride succede al padre Geb e regna al fianco della sua
sorella-sposa Iside, apportando agli uomini la conoscenza
dell'agricoltura e delle pratiche religiose. Geloso del regno benefico
del fratello, Seth, assieme a sessantadue congiurati, richiude Osiride
in un baule, nel corso di un banchetto, e lo getta nel Nilo. Iside parte
alla ricerca della bara, che le onde hanno spinto fino alle sponde
fenicie di Byblos dove un'erica vi ha germogliato. Il re di Byblos fa
trarre dalla bella pianta un pilastro e Iside, giunta nella città, se lo
fa offrire in dono insieme alla bara da cui l'erica era spuntata e lo
porta con sè nelle paludi di Chemnis, presso Buto, dove dà alla luce
Horo. Seth, essendo venuto al corrente dei fatti approfitta di una
assenza di Iside per impossessarsi della bara, ridurre il corpo di
Osiride in quattordici pezzi e spargerli per tutto l'Egitto. Iside,
ricomincia il suo viaggio alla ricerca delle membra del suo sposo e ogni
volta che ne trova un pezzo lo seppellisce sul posto e vi fa erigere dei
santuari
. Insomma, nel mito
troviamo la conferma di quanto stavamo dicendo. Set – così come Satana e
così come il diavolo – spezzetta, divide.
È ancora Gavazzi a farci notare come il contrario di
diaballw
sia
da ricercare nel greco sim-ballo, da cui è derivato l’italiano simbolo.
Con il termine symbolon i greci indicavano ciascuna delle due parti
spezzate di un oggetto che due persone si scambiavano e che, una volta
ricomposte, ricreavano la condizione di unità, consentendo al contempo
il riconoscimento dei due possessori. Più volte ci siamo attardati nel
corso di questo nostro saggio ad analizzare e parlare di miti e simboli.
Ecco che ne troviamo qui confermata la funzione. Determinante per il
discorso che stiamo facendo. Sim-ballo vuol dire infatti riunire,
mettere insieme. Dunque il diavolo “divide”, il simbolo “unisce”. Ancora
meglio: il “simbolo” può riunire quello che il “diavolo” ha diviso. Se
si rimane schiavi della divisione del diavolo, della dualità satanica,
sedotti dal serpente, si è cattivi, dal latino captivum,
prigioniero.
La parola ebraica che significa simbolo è
lms,
Semel. Permutando queste tre lettere si ottengono vari significati tra
cui la parola
mls,
Sullam. Incontriamo questa parola in Bereshit XXVIII per indicare la
Scala di Giacobbe, la cui base è appoggiata sulla terra e la cui cima
tocca il cielo. Un “simbolo” che “mette insieme” due classici opposti:
il cielo e la terra.
In questa prospettiva etica – così come almeno in Fichte, se non
proprio in Hegel – il male non è nient'altro che l'inerzia: se la natura
dell'Io è essere uno slancio infinito, un'attività libera, il peccato
più grande che si possa commettere è proprio il non agire affatto, il
non seguire le istanze di movimento infinito dell'Io. E in questa
concezione si possono alla fine scorgere gli elementi tipici di un certo
titanismo romantico (Hölderlin, in una lettera a Hegel, scrive che
“Fichte è un titano che lotta per l'umanità”), ovvero di quel principio
soggettivo che si espande all'infinito.
2. Morte, sofferenza, malattia
La morte, come negazione della negazione (e quindi superamento della
separazione) è per Hegel quella elevazione allo Spirito che sola può
portarci oltre il finito, il negativo, il “male”, il “diabolico”. La
morte del mondo moderno è redentiva, trasformatrice, è il “toglimento
della separazione”. Nel mondo greco, ci ricorda Paolo Vinci, anche in
presenza del tragico c’è una sorta di serenità, perché la morte è solo
l’altro rispetto alla condizione di naturalezza; l’affermativo c’è già:
è il mondo naturale rispetto al quale la morte è soltanto il negativo.
Nella visione di Hölderlin le cose non stanno
in questi termini. La morte non può affatto avere questo significato di
redenzione, di trasformazione – che potremmo quasi definire, in termini
tutti benjaminiani, una “morte simbolica” – proprio perché è nella morte
che il finito può farsi infinito. In Hölderlin la morte è l’affermazione
della finitezza, il riconoscimento della finitezza. Si tratta di prender
coscienza, insomma, del fatto che l’uomo non può unificarsi col divino:
tra finito ed infinito si mantiene sempre una scissione insanabile,
radicale.
C’è una posizione che ha ancora altre sfumature, altri accenti, nei
riguardi di una filosofia della morte ed è quella di Emmanuel Lévinas.
Il filosofo ebreo sostiene che c’è sempre, insita nell’uomo una Volontà
di Potenza. Guardiamo alle tragedie. Per esempio il Macbeth
shakespeariano. Anche nel tragico ciò che si compie non è tanto
l’assunzione della morte da parte dell’eroe. L’eroe, infatti, cerca
piuttosto una scappatoia, un margine, una possibilità. Macbeth, fino
alla fine, cerca di non riconoscere la profezia, non vuole assumere
nelle sue mani la morte e porsi, usando ancora una terminologia tutta
hegeliana, come un esser-per-la-morte.
«Macbeth ha ritrovato se stesso» – scrive Antonio Gramsci in una
recensione su L’Avanti! – «ma attraverso quali sanguinose esperienze!
L’assassinio del re e dei suoi custodi ha fatto cadere il primo
involucro della sua umanità. L’abisso ha chiamato l’abisso secondo la
sua tragica necessità. La pazzia sembra afferrarlo per un istante con la
tortura dell’ombra di Banquo. Ma egli, nella sua forte volontà, vince
questi richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un’ombra,
preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta più,
non esita più. Tutto gli diventa avverso, ma egli è sicuro della sua
fortuna. La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa
sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti. E
Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni uomo a quella
degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La morte di Lady
Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle sue labbra; il suo
cuore è impietrito; non vive che la volontà atroce».
Lévinas afferma che la tragedia che mostra ancora di più il senso del
tragico è però l’Amleto, perché il senso di quest’opera è proprio
l’impossibilità del nulla. È impossibile annientarsi, all’uomo non è
dato questo potere. In sostanza l’Amleto, come fondamento del tragico, è
il fondamento – ancora tutto mitico e simbolico – non della morte ma
della sua impossibilità. In Lévinas c’è l’esperienza del campo di
concentramento in cui il nulla era presente; il nulla non era il
nientificarsi, ma era l’essere, la condizione presente nella sua
dolorosa attualità. È la sofferenza umana, più della morte, che ci fa
vedere l’essenza dell’esistenza. Solo la sofferenza infatti sa mostrarci
l’impossibilità di fuggire, di distaccarci dal duale, ci fa vivere la
fredda necessità del finito, la passività dell’esistenza. E se soffrendo
noi esperiamo finitezza e passività riusciremo allora a capire che
l’esistenza non è Potere, ma impotenza. La Volontà di Potenza si ha
nella sofferenza, nel dolore, nella malattia. C’è nelle pagine di
Lévinas una sensazione dell’esistenza come schiavitù da assumere, un
esser presa nella stretta insensata dell’essere. Il senso è possibile
solo come senso etico, quando riconosciamo di essere affetti dall’altro
uomo e non dalla morte. È l’altro uomo che ci rende passivi, perché
dobbiamo accettarlo, soccorrerlo, sostituirci a lui. Nell’esser per-la-morte, invece, affermiamo noi
stessi.
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