Diavolo deriva dal greco, diabállo, divido, separo. Alla luce delle considerazioni che abbiamo fatto sin qui, ci pare chiaro che è proprio questo il male assoluto. Del resto la rappresentazione più classica del diavolo, il serpente, fa il suo debutto sulla scena della letteratura sacra, proprio sottolineando questo aspetto...
Il documento che presentiamo ai nostri visitatori esoterici, è un lavoro del carissimo Fratello della Montesion Mauro Cascio ed è ripreso dal settimo capitolo di un suo testo di prossima pubblicazione a cura della casa Editrice Bastogi: "Ut Unum Sint. L'Uno e il molteplice" - Unione, Congiunzione, Adesione nella filosofia e nel patrimonio mitico-simbolico dell'Occidente.
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Sullo stesso soggetto presenti in archivio due documenti:

 

Il Diavolo

Massoneria: Religione e Demoni

 

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«Lungo la strada, due Buddha di pietra

Ristanno eretti, l’uno di fronte all’altro,

Privi di un tetto, esposti all’aria aperta,

Sferzati ora da neve, ora da pioggia e vento.

Ma io li invidio, ché sempre insieme stando,

Dell’uomo ignorano il separarsi amaro»

(Chong Ch’ol [1], Due Buddha)

 

1. Per un nuovo orizzonte etico

 

 Diavolo deriva dal greco diabállo, divido, separo. Alla luce delle considerazioni che abbiamo fatto sin qui, ci pare chiaro che è proprio questo il male assoluto [2]. Del resto la rappresentazione più classica del diavolo, il serpente, fa il suo debutto sulla scena della letteratura sacra, proprio sottolineando questo aspetto. Leggiamo difatti nel Genesi: «Il serpente disse alla donna: “No, non morirete affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Élohïm, avendo la conoscenza del bene e del male”» [3]. Abbiamo già visto che Élohïm è considerato dai cabalisti come la parte di Dio che si nasconde all’interno dei fenomeni naturali ed ha un valore numerico di 86 pari a Ha-Teva, la natura. Conclude Luca Gavazzi [4]: «Quindi Adamo ed Eva, cibandosi del frutto proibito, diventano esperti conoscitori delle regole della natura». E cosa cambia? Cambia la loro “percezione originaria”: da quella unitaria si passa a quella “frammentaria dei fenomeni naturali”, dove il bene ed il male sono in continua contrapposizione. Dopo questo evento i due si accorgono di “essere nudi” [5]. Ne rimane traccia – di tutti questi aspetti – persino in alcuni caratteri cinesi.

È la situazione rappresentata simbolicamente, nell’aleph-beth, dalla lettera Tet: f. È una lettera che graficamente rende questa dualità assoluta, irrisolta e irrisolvibile e che ci esprime questa necessità, questa drammatica contingenza, senza apparenti vie di fuga. È la rappresentazione della condizione diabolica dopo la caduta. Del Male. La parte destra della Tet rappresenta l’elemento acqua, mentre la parte sinistra il fuoco. È la tensione, la dialettica che troviamo anche nell’Albero delle Sephiroth. Solo che nell’Albero delle Sephiroth troviamo anche la sintesi, capace di andare oltre, di integrare e risolvere le contraddizioni del duale. Così come ci indica la lettera Shin, per esempio: c. C’è sì la contrapposizione radicale dei due termini ma è anche indicata, dalla gambetta centrale, la loro unificazione. Il percorso di risalita, quello che altrove abbiamo chiamato, secondo l’appropriata espressione cabalistica, Maashe Merkavah è un passare dalla Tet alla Shin. La radice Shin Tet, l’inverso, è la radice del male. E questo è vero anche da un punto di vista strettamente linguistico. La radice ebraica fc concorda con l’etimologia greca del termine diavolo. Da cui deriva per esempio }fc, Satan (Shin, Tet, Nun Sofit). Entrambi i termini, dunque, confermano il valore simbolico del serpente: indicano divisione. In quanto divisori sono quindi la vera natura del male. Ma Seth, come è noto, è anche il nome di un antico dio egizio identificato dai greci con Tifone. Membro della famiglia osiriaca – e come tale integrato nella «Enneade di Eliopoli» – il carattere di Seth corrisponde ad un nume della turbolenza e del contrasto delle forze naturali, quindi peculiari delle regioni desertiche attorno all’Egitto e di popoli stranieri, come gli invasori hyksos. Osiride succede al padre Geb e regna al fianco della sua sorella-sposa Iside, apportando agli uomini la conoscenza dell'agricoltura e delle pratiche religiose. Geloso del regno benefico del fratello, Seth, assieme a sessantadue congiurati, richiude Osiride in un baule, nel corso di un banchetto, e lo getta nel Nilo. Iside parte alla ricerca della bara, che le onde hanno spinto fino alle sponde fenicie di Byblos dove un'erica vi ha germogliato. Il re di Byblos fa trarre dalla bella pianta un pilastro e Iside, giunta nella città, se lo fa offrire in dono insieme alla bara da cui l'erica era spuntata e lo porta con sè nelle paludi di Chemnis, presso Buto, dove dà alla luce Horo. Seth, essendo venuto al corrente dei fatti approfitta di una assenza di Iside per impossessarsi della bara, ridurre il corpo di Osiride in quattordici pezzi e spargerli per tutto l'Egitto. Iside, ricomincia il suo viaggio alla ricerca delle membra del suo sposo e ogni volta che ne trova un pezzo lo seppellisce sul posto e vi fa erigere dei santuari [6]. Insomma, nel mito troviamo la conferma di quanto stavamo dicendo. Set – così come Satana e così come il diavolo – spezzetta, divide.

È ancora Gavazzi a farci notare come il contrario di diaballw sia da ricercare nel greco sim-ballo, da cui è derivato l’italiano simbolo. Con il termine symbolon i greci indicavano ciascuna delle due parti spezzate di un oggetto che due persone si scambiavano e che, una volta ricomposte, ricreavano la condizione di unità, consentendo al contempo il riconoscimento dei due possessori. Più volte ci siamo attardati nel corso di questo nostro saggio ad analizzare e parlare di miti e simboli. Ecco che ne troviamo qui confermata la funzione. Determinante per il discorso che stiamo facendo. Sim-ballo vuol dire infatti riunire, mettere insieme. Dunque il diavolo “divide”, il simbolo “unisce”. Ancora meglio: il “simbolo” può riunire quello che il “diavolo” ha diviso. Se si rimane schiavi della divisione del diavolo, della dualità satanica, sedotti dal serpente,  si è cattivi, dal latino captivum, prigioniero [7].

La parola ebraica che significa simbolo è lms, Semel. Permutando queste tre lettere si ottengono vari significati tra cui la parola mls, Sullam. Incontriamo questa parola in Bereshit XXVIII per indicare la Scala di Giacobbe, la cui base è appoggiata sulla terra e la cui cima tocca il cielo. Un “simbolo” che “mette insieme” due classici opposti: il cielo e la terra.

 In questa prospettiva etica – così come almeno in Fichte, se non proprio in Hegel – il male non è nient'altro che l'inerzia: se la natura dell'Io è essere uno slancio infinito, un'attività libera, il peccato più grande che si possa commettere è proprio il non agire affatto, il non seguire le istanze di movimento infinito dell'Io. E in questa concezione si possono alla fine scorgere gli elementi tipici di un certo titanismo romantico (Hölderlin, in una lettera a Hegel, scrive che “Fichte è un titano che lotta per l'umanità”), ovvero di quel principio soggettivo che si espande all'infinito.

 

2. Morte, sofferenza, malattia

 

La morte, come negazione della negazione (e quindi superamento della separazione) è per Hegel quella elevazione allo Spirito che sola può portarci oltre il finito, il negativo, il “male”, il “diabolico”. La morte del mondo moderno è redentiva, trasformatrice, è il “toglimento della separazione”. Nel mondo greco, ci ricorda Paolo Vinci, anche in presenza del tragico c’è una sorta di serenità, perché la morte è solo l’altro rispetto alla condizione di naturalezza; l’affermativo c’è già: è il mondo naturale rispetto al quale la morte è soltanto il negativo.

Nella visione di Hölderlin [8] le cose non stanno in questi termini. La morte non può affatto avere questo significato di redenzione, di trasformazione – che potremmo quasi definire, in termini tutti benjaminiani, una “morte simbolica” – proprio perché è nella morte che il finito può farsi infinito. In Hölderlin la morte è l’affermazione della finitezza, il riconoscimento della finitezza. Si tratta di prender coscienza, insomma, del fatto che l’uomo non può unificarsi col divino: tra finito ed infinito si mantiene sempre una scissione insanabile, radicale.

C’è una posizione che ha ancora altre sfumature, altri accenti, nei riguardi di una filosofia della morte ed è quella di Emmanuel Lévinas. Il filosofo ebreo sostiene che c’è sempre, insita nell’uomo una Volontà di Potenza. Guardiamo alle tragedie. Per esempio il Macbeth shakespeariano. Anche nel tragico ciò che si compie non è tanto l’assunzione della morte da parte dell’eroe. L’eroe, infatti, cerca piuttosto una scappatoia, un margine, una possibilità. Macbeth, fino alla fine, cerca di non riconoscere la profezia, non vuole assumere nelle sue mani la morte e porsi, usando ancora una terminologia tutta hegeliana, come un esser-per-la-morte.

«Macbeth ha ritrovato se stesso» – scrive Antonio Gramsci in una recensione su L’Avanti! – «ma attraverso quali sanguinose esperienze! L’assassinio del re e dei suoi custodi ha fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L’abisso ha chiamato l’abisso secondo la sua tragica necessità. La pazzia sembra afferrarlo per un istante con la tortura dell’ombra di Banquo. Ma egli, nella sua forte volontà, vince questi richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un’ombra, preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta più, non esita più. Tutto gli diventa avverso, ma egli è sicuro della sua fortuna. La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti. E Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni uomo a quella degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La morte di Lady Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle sue labbra; il suo cuore è impietrito; non vive che la volontà atroce».

Lévinas afferma che la tragedia che mostra ancora di più il senso del tragico è però l’Amleto, perché il senso di quest’opera è proprio l’impossibilità del nulla. È impossibile annientarsi, all’uomo non è dato questo potere. In sostanza l’Amleto, come fondamento del tragico, è il fondamento – ancora tutto mitico e simbolico – non della morte ma della sua impossibilità. In Lévinas c’è l’esperienza del campo di concentramento in cui il nulla era presente; il nulla non era il nientificarsi, ma era l’essere, la condizione presente  nella sua dolorosa attualità. È la sofferenza umana, più della morte, che ci fa vedere l’essenza dell’esistenza. Solo la sofferenza infatti sa mostrarci l’impossibilità di fuggire, di distaccarci dal duale, ci fa vivere la fredda necessità del finito, la passività dell’esistenza. E se soffrendo noi esperiamo finitezza e passività riusciremo allora a capire che l’esistenza non è Potere, ma impotenza. La Volontà di Potenza si ha nella sofferenza, nel dolore, nella malattia. C’è nelle pagine di Lévinas una sensazione dell’esistenza come schiavitù da assumere, un esser presa nella stretta insensata dell’essere. Il senso è possibile solo come senso etico, quando riconosciamo di essere affetti dall’altro uomo e non dalla morte. È l’altro uomo che ci rende passivi, perché dobbiamo accettarlo, soccorrerlo, sostituirci a lui [9]. Nell’esser per-la-morte, invece, affermiamo noi stessi.

 

 

[1] Sicuramente uno dei maggiori poeti coreani del periodo Choson, è conosciuto anche con lo pseudonimo di Songgang. A soli nove anni fu costretto a seguire nell’esilio la propria famiglia, colpita dall’epurazione del 1545. Amnistiato nel 1551, nel 1562 passò gli esami di Stato, ma il suo rapporto con la Capitale e la politica rimase sempre ambiguo, mentre la quiete della vita di provincia esercitava su di lui una attrazione sempre più forte. Si schierò con il partito dei soin (uomini dell’ovest) dopo la divisione in fazioni dell’aristocrazia confuciana a corte, esplosa in tutta la sua drammaticità a partire dal 1575, e tale scelta, unita al suo carattere impetuoso e poco diplomatico, lo portò ad una carriera civile altalenante, divisa tra brillanti fortune e clamorosi rovesci.

[2] Detta in termini hegeliani, quando io affermo un determinato, come fa l’intelletto, io separo l’inseparabile, colgo un’autosufficienza che in effetti non c’è. Il determinato è una mediazione presa come immediato e solo l’Assoluto rende trasparente questa dialettica, questo movimento di negazioni.

[3] Nel mondo classico il serpente ha anche una connotazione positiva, identificandosi spesso con gli spiriti ctonii in quanto genius loci. Serpenti accoppiati nel caduceo sono l’ideogramma medico nel culto salvifico di Esculapio.

[4] In “Oltre il Fiume” n.18, pubblicazione semestrale dell’Associazione Culturale Chokhmat Ha-Emet

[5] Lasciamo al lettore il compito di riflettere sul fatto che la “tentazione” avvenne attraverso la “donna” – Eva la “vivente” – la quale originariamente era parte di Adamo.

[6] «Fino all’epoca della XII dinastia, si celebrava ad Abydos ed altrove una rappresentazione sacra, analoga ai misteri del medioevo, che riproduceva le peripezie della passione e della resurrezione di Osiride. Ce ne è stato conservato il rituale: il dio, uscendo dal tempio, cadeva sotto i colpi di Seth. Intorno al suo colpo si simulavano delle lamentazioni funebri, lo si seppelliva secondo i riti; poi Seth veniva vinto da Horus, ed Osiride, al quale la vita veniva restituita, rientrava nel suo tempio, dopo aver trionfato della morte. Era lo stesso mito che, ogni anno, al principio di novembre era rappresentato a Roma quasi nello stesso modo. Iside, accasciata per dolore, cercava, fra i desolati lamenti dei sacerdoti e dei fedeli, il corpo divino di Osiride, le cui membra erano state disperse da Tifone. Poi, ritrovato il cadavere, ricostituito, rianimato, v’era una grande esplosione di gioia, un giubilo esuberante di cui risuonavano i templi e le vie, al punto di importunare i passanti». Franz Cumont, «Les Religions orientales dans le paganisme romain». Commenta Eugenio Goblet d’Alviella, citando Daremberg, Saglio e soprattutto Frazer: «Nei Misteri dei Cabiri, a Samotracia, si metteva in scena la storia tragica di tre fratelli, Axieros, Axiokersos ed Axiokersa. Secondo la versione della leggenda che riferisce Firmico Materno, due dei Cabiri uccidevano il terzo e lo seppellivano alle falde del Monte Olimpo; egli era poi ricondotto in vita da Hermes. La decorazione di taluni specchi etruschi rappresenta le scene successive di questo dramma. In una si vede Axieros preso dai suoi fratelli, davanti due colonne dal capitello corinzio. In un’altra, Hermes, accompagnato da due satiri che gli servono da accoliti, s’avvicina al corpo e cerca di resuscitarlo con la sua bacchetta magica. La somiglianza di questa scena con un preciso episodio dello svolgimento del rituale massonico non può mancare di colpire tutti coloro che sono stati iniziati al terzo grado della loggia simbolica. Non so se si è già fatto risaltare questa curiosa coincidenza: che i Cabiri sono, come Hiram, di origine fenicia.[…] I Misteri dionisiaci, che si celebrarono anch’essi fino al trionfo del cristianesimo, mettevano in scena Dioniso-Zagreo, il Bacco cretese, ucciso e dilaniato dai Titani, poi ricomposto e rianimato da Zeus. […] I cristiani non mancarono di denunciare e di proscrivere questi riti come abominevoli superstizioni dell’idolatria: “Habet ergo diabolus christos suos”, esclama a questo proposito il buon Materno. I pagani avrebbero potuto ricambiare il complimento e dire: il cristianesimo possiede, anche lui, il suo Attis, il suo Dionisio ed il suo Osiride, che si dipinge come immolato, sepolto, disceso nel limbo e risuscitato al termine di tre giorni».

[7] Tertulliano (De Cultu Fem., I, 2b) scrisse che le opere della natura “maledette ed inutili”, i segreti dei metalli, le “strane dottrine” (cioè il corpus dell’ermetismo) fu rivelato agli uomini dagli “angeli caduti”. Ancora Hegel scrive a chiare lettere: «Esser cattivo vuol dire esattamente individualizzarmi; è l’individuazione che mi separa dall’universale e dal razionale». Ciò significa che, se Dio è spirito solo nel momento in cui si differenzia e se il differenziarsi di Dio vuol dire farsi uomo di Dio, l’uomo è se stesso solo nel momento in cui si pone per sé, in cui si separa, in cui accetta il male. La soggettività implica la separazione e il moderno è proprio questo: il diritto infinito della soggettività particolare, dell’individualità. Così continua Hegel: «La sorgente del male è anche l’origine della conciliazione, è l’origine della malattia, ma anche la sorgente della salute, è la coppa avvelenata nella quale l’uomo beve la morte e la putrefazione e nello stesso è il punto sorgivo della rinconciliazione, perché porsi come cattivo è in sé il superamento del male». È utile confrontare anche Aleister Crowley, «Liber Chet vel Vallum Abiegni. Sub Figura CLVI», op.cit.

[8] Friedrich Hölderlin, «Sul tragico», Feltrinelli, Milano 1994.

[9] Emmanuel Lévinas, «Dall’altro all’io», Meltemi editore, Roma 2002.