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La Morte

Quod fatui contumeliant

sapientes congremiant.

La vita, nel senso pedestre della parola, è una catena ininterrotta di piccole e grandi pene; la vita morale e spirituale è in lotta perpetua con l'ambiente, tenaglia che preme le nostre elementari libertà. La vita fisica, materiale, grossolana del nostro corpo, lotta perpetuamente con necessità insoddisfatte, con piccoli e grandi malanni, contagi, epidemie, infermità costituzionali e con tutta la scala variopinta dei dolori e delle impotenze della nostra carcassa. La civiltà, con leggi, provvedimenti, consuetudini, costumi, transazioni, cerca riparare alla meglio alle necessità liberaleggianti del morale umano, costringendolo, educandolo alla ipocrisia, inverniciandolo per nascondere il colore antipatico delle anime ribelli, profumandolo per impedire che il sentore della volontà di prevalere sui propri simili si discopra. Al fisico umano cerca riparare la scienza medica, l'uomo che lotta contro la natura, per strapparle il segreto della sanità e della invulnerabilità.

Esaminato bene il bilancio delle pene e dei piaceri, delle ore di delizie, delle spiacenti, delle pacifiche, delle terribili, e ponderandolo con leggero acume pratico, il più beota tra gli uomini vedrebbe chiaro che non vai la pena di vivere e d'affannarsi a vivere. Giovani, in lotta con le necessità, le ambizioni, i desideri di godimento, con un corpo esuberante di sangue, di muscoli, di linfa, spesso affamato, eternamente in tensione per afferrare la fortuna al rapido passaggio, chiamando emulazione, per ipocrisia, ogni agguato che ci lusinga di togliere al nostro vicino il pane e la fama per assiderci al suo posto e gentilmente schiacciarlo come un insetto immondo. Vecchi, coi mezzi raccolti in vita, quando molto si potrebbe godere, per l'esperienza, la temperanza, la saggezza, i malanni fisici, l'impotenza, la debolezza, la cagionevolezza, ci riducono a ombre pie o a rassegnati, in attesa della fine. Eppure, con tal quadro, gli uomini non vorrebbero morire.

La Morte, considerata a sangue freddo, senza bollori bellici, senza esasperazione di rissanti, fa paura a tutto l'umano genere. Vi ci acconciamo perché non possiamo evitarla. Vi ci ricamiamo su un bellissimo epitaffio filosofico, per edulcorare la pillola che bisogna volenti o nolenti, ingurgitare con una smorfia di spasimo o una maschera eroica. Perché? Dagli Egizi, dai Caldei, dagli Assiri ai Cristiani, tutte le religioni si sono imperniate su questa assillante idea, paurosa, opprimente, del dopo morte. Il di là della vita, buio, ignorato, discusso con tanti vari argomenti, da chi lo dice lieto e felice e luminoso, come gli spiritualisti a tutto vapore; da chi lo vuole purificatore e ascendente verso la immensa vastità cosmica che si immedesima al Nulla; da chi lo determina al giudizio che Dio farà di noi, come dall'antico Egitto al Cattolicesimo, questo salto nell'oscurità immensa dell'ignoto è tanto universalmente temuto che assume in certi istanti l'aspetto più comico; che se non fossimo civilmente educati a stimar la morte come un istante solenne di una gravita sublime, ci metteremmo a ridere. Poiché, amico lettore, muore tanta gente a ogni minuto dell'orologio del vicino campanile, che serenamente considerata, non deve essere affatto una cosa difficile ne una azione spaventosa. Il medico Cirillo, motteggiando, soleva dire che la morte dev'essere bella, perché, dopo il suo arrivo, gli ammalati non si lamentano mai. L'epoca nostra, che per scienza e per dottrina è meravigliosa, che possiede strumenti e metodi e sale di esperienza che nessun secolo pare abbia posseduto - più di tutte le precedenti vorrebbe risolvere il problema della vita, il suo prolungamento all'infinito. Non sono atto a fare la storia di tutte le idee sbrodolate negli ultimi cinquant'anni; ma se n'è sentite di tutti i colori. Contro le abitudini della dubbia statistica, vi è chi ha sostenuto la media della vita umana a 150 anni - ma arrivare ai 200 sarebbe facile, e raggiungere i 250 una possibilità non estrema. (V. Smith, Finot e Mapp, citati dal Weber. ) Moltissimi si dettero alla ricerca del mezzo per il ringiovanimento del corpo; Brown-Séquard, nel 1889, pareva che avesse scoperto il rimedio vero, entusiasmando tutta la sua generazione, e fece fiasco. Poi arrivarono Ancol e Bonin che determinarono le glandole interstiziali (1903) e per queste si agitano e sperano Steinach in Germania e Woronoff in Francia. Altri partendo da un concreto ed esplicito risultato della filosofia biologica, sostengono che il prolungamento della vita normale è non solamente assurdo, ma inutile. Assurdo, perchè le leggi umane non si violano; dice un critico (Frumusan): «la natura determina generosamente il limite della vita umana, perché la vita normale dovrebbe sorpassare il secolo, con una maturità attiva e feconda di là dall'ottantesimo anno» (!). Insomma, le aspettative sperimentali, fino all'ora presente puntano su Woronoff con la sostituzione di una glandola viva di una scimmia a quella umana (e sono in esperimento anche le glandolo di montone e di caprone) - mentre il Lespinasse, americano, si limita alle sole glandolo umane, e altri confutano i risultati conseguiti, sostenendo che il complesso dei fenomeni biologici dimostra che non è una glandola sola che fa il buono e il cattivo tempo, ma la sinergia di un complesso di glandole che, prese singolarmente, non hanno che il valore di un elemento separato e insufficiente.

È vero? Non siamo con i tempi ne fuori la relatività dell'ora, superstiziosi della leggenda del millennio apocalittico; ma ci sentiamo lontani dalla concezione religiosa dell'immortalità dell'epoca lontanissima e più recente. La scienza moderna - il cui vanto è il disoccultamento degli antichi sogni dei credenti - ai suoi adepti lascia sperare, o almeno intravedere, una immortalità cellulare organica ed inedita, che non è quella dei mistici, e tanto meno quella degli iniziati. Lancelin asserisce che l'occultismo è uno sforzo perseverante verso a scienza, e rovescia l'ipotesi della vera via che le università si tracciano per risolvere l'enigma di Anteo: combattere il divino eroe on la forza della chimica terrena, madre di quelle stupende scoperte che nell'ultima guerra hanno divertito il genere umano. Raimondo Lullo, i Rosa Croce, i Templari, i Flamel, i Rupescissa, Trevisano, gli Illuminati, San Germano, Cagliostro, gli Orfici, i misteri Egizi, i libri dei primi alchimisti greci, le leggende religiose, paiono sepolti per sempre. La maestà del materialismo, che si diceva morto con la rinascita dello spiritualismo mistico del dopo guerra, pare che rinserri al concreto le tombe delle fiabe tramontate. Neanche i mocciosi credono più alle fiabe. Ma questo materialismo, senza virtù di temperanza, è roso da un pantano largo pochi metri, largo direi, quanto un passo d'uomo, che oggi comprende poche intelligenze umane e viventi, e che domani sarà mutato in mare. Ne sette, ne i costruttori di nuovi e piccoli tempi, ne il Sinedrio, ne il Santo Uffizio lo demoliranno rinserrando la larga platea, senza gridare e senza maledire; ne in cento anni di continue soverchierie lo hanno allargato; non le Università, antiche di dieci o dodici secoli, perpetue e inesauribili conservatrici di metodi e giudizi che non vedono fine ne lasciano, fuori la tradizione, posto alcuno a innovazioni radicali a dimensioni multiple. Ed un contro altare si erigerà dinanzi a questa università scientifica di una scienza esclusiva, e si parlerà in modo più comprensivo e più umano. Poiché questo materialismo, ne morto ne moribondo, è dilagato nella ingiustizia; ha riversato, nella mentalità contemporanea, la concezione impura di una vita con aspirazione al godimento fisico illimitato, irragionevole anche nel desiderio di prolungarla, per il piacere capronico della moltitudine. La quale, nella rapidità delle visioni turbinanti fornite dalla massima soppressione di tempo e di spazio, non trova necessaria che la sola deificazione della filosofia meccanica di controllo, come una religione dei sensi più gravi, diretti e addottrinati da una intelligenza che rinnega a sé stessa una vita dello spirito, dell'anima, e non riconosce alcun potere al pensiero dell'uomo in sé, fuori l'adattazione alla materialità della vita. Un serpente e una lingua biforcuta. La scuola nuovissima darà carattere al pensiero dell'interpretazione Pitagorica italica del magismo, e al di là, al disopra del magismo, sormontando le particolarità dei rituali, affermerà la immortalità luminosa dello spirito intelligente della materia, passando dalla concezione simbolica della sfinge umana o umanizzata al raggiungimento divino di un atomo materia e pensiero. È una profanazione dell'alchimia integrale? è un prendere con un pugno irriverente le parole tesaurizzate degli scomparsi alchimisti dei secoli vissuti per gettarle nella porcaia? Ma non esageriamo! È assolutamente inutile erigere una torre Eiffel per piedistallo al buon senso italico, il buon senso della schietta filosofia della pratica Magna Grecia, maritata a quell'occulto giudizio di inflessibile temperanza che fu dell'Etruria e di Roma.

Io credo alla risurrezione della potenzialità del pensiero pitagorico - la Pizia, il Pitone, la Spira elicoidale che prende nascenza nell'astrale dell'Italia vetusta e assurge all'imperio della coscienza universa, - e credo a questa missione pitagorica italica come il segno di un rinascimento filosofico, scientifico e artistico, impossibile nelle mani che ancora stringono le ferula scolastica del Medio evo. È un sospetto o un desiderio messianico? Chi può dirlo? Siamo vicini al duemila. Non si ripeteranno le paure catastrofiche del Mille? Non sento ancora echeggiare per le vie le apocalissi del terrore; la fine di un mondo non è sempre la frantumazione del pianeta tanto piccolo che noi abitiamo, e tanto meno può limitarsi ad un diluvio che porti le onde all'altezza del Monte Rosa e ai ventotto vulcani predetti dal solito geologo americano, che incendiano l'Europa e la riducono in cenere e carboni: la fine di un mondo può essere la morte di tutta la rancida vecchiaia, sommersa da un ringiovanimento di luce e di pensieri che, sorti dai sepolcreti fatidici, riprendono la missione già anticipata, e rinnovano, rigenerano idee e visioni nel mondo esteriore. E per la conversione e il ringiovanimento di noi stessi? La Morte! Terribile, spaurita, scheletrica immagine del tredicesimo tarocco, tu fai venire il freddo. Venti secoli Cristiani, alla visione delle tue ossa scarnificate si commuovono in noi. Ci comunicano i pensieri allegri delle antiche incisioni e calcografie, sulle pareti che riparano i nostri letti in camere arcaiche popolate di iconi, parate a festa, illuminate da lampade dall'odore di frittura, con un diavolo che ghigna per non poterci afferrare ed un angelo armato di scimitarra turca che ci difende. Ci risveglia l'amore che i buoni teologi domenicani hanno avuto per noi, per purificarci dall'eresia, dall'accusa e dal sospetto di magia diabolica, e rievocano quelle simpatiche corde che ci incoraggiavano, con sorridenti scrollatine, a confessare i nostri sabba e le orge del noce di Benevento, o gli arrosti umani di Fra Giordano o del priore dei Templari - o le processioni di penitenze e gli allegri carnevali delle abiure e delle pubbliche confessioni.

Sei Siva? Sei il tempio dei corvi che mangiano i cadaveri delle torri dei Parsi? Sei il campanello del viatico? Sei il feroce squartatore d'Osiride? Sei la bocca dentata dei mostri caldei? Sei la cenere in un'anfora inutile a cui i nepoti non pensano più? Tu, o miracoloso, tre volte santo scheletro, che raffiguri una fine temuta, hai lo sguardo sorridente; tu sei il simbolo della giovinezza. Tu, nei tre mondi dello spirito, della materia e dell'atto, sei il rinnovamento. Morte, lasciati guardare in faccia; le ossa monde come denti di sacro elefante, bianco sudario, sei come la più bella e chiomata fanciulla sorridente di voluttà nella carne adolescente; se io avessi gli occhi penetranti alla maniera dei raggi X, vedrei scheletri come te e sentirei l'alito della fragrante gioventù; se ci penso, sento di pari fragranza il tuo alito. Non puti di terra umida, di musco, di funghi, di crittogama e di muffa, perché tu, per lo spirito, non sei che la fine di un errore, d'un orgoglio, d'una schiavitù, d'una ossessione. Se lo scheletro è ancora forte, se la carne è ancora vegeta, le cellule vive, il tessuto delle vene elastico, che bisogno vi è di passare per la tomba e rifarsi? Tu, o Morte sei la soluzione dell'enigma spirituale nell'uomo vivente e nella profonda custodia della sua anima ignorata.

Sei il simbolo della grande alchimia, sei il triplo Mercurio e il Mercurio morto, sei l'Azot, sine vita, sei l'ala profondamente scura del corvo, sei il sonno preparante il risveglio, il dolore tremendo che prepara la nascita del più luminoso figliuolo, dopo l'avatar, la metempsicosi dell'antica e lorda anima nella vita nova. Così Dante iniziò il viaggio per assurgere a Beatrice, la luce in atto, nell'altezza più eccelsa che e Amore e luce. Pharmacum catholicum o elisire di lunga vita. Arcano divino degli alchimisti, tu sei la gioventù eterna, spirito raggiante sul nero Fondo del mistero dell'astrale; l'uomo cammina come il matto dei tarocchi: un cane, la necessità, gli morde i polpacci delle robuste gambe: sempre avanti, più avanti; lontano, più lontano. Il Papa, la Papessa, l'Imperatore, l'Imperatrice, i quattro Re, i cavalieri, le dame, le Stelle, gli Amanti, i colori (1), passano, ritornano; gli girano intorno, si squagliano, si azzuffano, fino a che il giuocatore di bussolotti, spinto dal Diavolo beffardo, si decide a bere nella coppa dell'Amore, che è la Morte, e si muta nel giovane Faust, abbagliante, incantatore, indifferente, che, per non mantenere il patto (la paura) cade nelle musiche degli angeli volgari, il cielo dei volghi. e si salva nel misticismo. Ed ora ritorniamo alle glandolo interstiziali. capite? dovette essere un disinganno atroce per Orfeo quando, nel voltarsi indietro, non scorse più la sua Euridice: se n'era scappata con un caporale dei cavalleggeri di Firenze. Sull'Express Paris-Marseille viaggiai una sera con l'astronomo Camillo Flammarion, bei vecchio, ottima cera, animo buono: soprattutto celebre autore di spiritualismo, credente nell'altra vita, nell'alto mondo, nel dopo e nel di là. Nella sua prosa parecchie generazioni di tutto l'occidente hanno bevuto la coppa della più grande poesia degli spazi interplanetari della fantasia. I suoi volumi sulla Morte, con la più grande venerazione per l'illustre e caro autore, letti e riletti col fascino dell'argomento e del prosatore, non danno la certezza di ciò che ci aspetta dopo la discesa della bara nella fossa mortuaria. Tanta poesia non è che lieta speranza di trovar di meglio di questo cattivo mondo a tre dimensioni, ove la vita umana è una serie di scene tragicomiche che concludono in una liberazione dalle catene terrene e in un passaggio nella zona dei felici. Beati gli uomini che hanno la missione dell'incanto e la certezza di scrivere in prosa il più alto poema di fede: l'esistenza della fine della schiavitù corporea, e la conquista di tutto ciò che - vivendo quaggiù - ci manca: la pace, la luce della mente, la cessazione del dolore e della necessità che ci costringe e sprona ad una lotta di passione e di attesa. Non so perché, tutta la notte, sonnecchiando in treno, la presenza del grande scrittore mi aveva messo innanzi il ricordo di Mardrus. Si era all'inizio della infermità di Lord Carnavon, mecenate degli scavi nelle tombe faraoniche della valle dei Re; Londra e Parigi si appassionavano sulla sorte dei violatori dei cadaveri, e si intervistavano orientalisti e professori di Scienze occulte, per sapere se l'insetto che aveva punto l'inglese fosse stato armato di veleno dai tempi del sacerdozio della Magia. In Italia è arrivata l'eco, non la febbrile curiosità londinese e parigina, di questo momento drammatico della superstizione collettiva. In Italia si è poco propensi alle commozioni di tal genere. Il «Matin» poco tempo prima aveva fatto intervenire Mardrus, l'orientalista eminente, a spiegare il soave riposo della Mummia, nella visione magica e perpetua di una vita non di oltretomba, ma della tomba.

Mardrus è stato il traduttore più artistico e originale delle «Mille e una notte»; scrittore efficace, che delle magiche novelle ha reso tutto il colore e l'armonia della loro origine; e leggendo le sue spiegazioni al giornale sul paradiso delle mummie Reali, piene di sobrie osservazioni, io pensavo come non sia differente, dopo cinquemila anni quasi, la concezione di morte, in due epoche lontanissime nelle quali ne certezza di fede, ne dimostrazione scientifica, hanno potuto determinare una idea precisa del «dopo». L'immaginazione e i ragionamento tengono luogo di scienza. L'autore di «Lumen» spiritista convinto, poeta degli spazi indefiniti, il simpatico e bianco Flammarion, coi suoi scritti sulla Morte, non prova, non dimostra, non convince. L'orientalismo, mettendo alla luce del nostro secolo i procedimenti magici di tutte le religioni ignorate da millenni, traduce e interpreta una poesia diversa non meno grandiosa, di una tale impressionante novità, che gli adulti ne sono sedotti, come i bambini al racconto di fiabe di spiriti e di orchi. Ma neanche questa seconda poesia ci trova preparati per determinare in noi la coscienza precisa di ciò che diverremo. Mardrus ha la visione orientale della magia sacerdotale, come ebbe la finezza della interpretazione del carattere occulto e strano delle novelle arabe. Questo Faraone Tout-Ankh-Amon, da tremila e più anni riposava nella sua piccola reggia sepolcrale, tra i suoi scrigni preziosi, le sue statuette e le sue dipinture della vita passata. Arriva dal nord una carovana di mercanti empi con l'idea di violare il domicilio lussuosamente funebre dell'antico monarca, di impadronirsi del suo cadavere, e frodarlo del suo doppio, il Ka, che occultamente lo serviva dall'epoca lontana. Delle tre anime, il Ka, più fedele di tutte, gli era restato accanto; l'uccello intelligenza e l’uccello luce, le altre due, erano volate al sole, ritornate alla matrice, intelligenza universale. L'ombra cosciente del sepolto, il Ka, dolorava come il suo Re offeso. Mardrus evoca l'origine, l'ora del trapasso, il giorno beato dei funerali, dopo il preciso momento in cui il pontefice rituale dalle mani pure pronunziava le magiche parole per aprire la bocca della Mummia. Dall'istante in cui queste parole del Gran Sacerdote erano dette con voce giusta e con l'intonazione che arriva (2) la Mummia inintelligente e assonnata mutava bruscamente di condizione. La Morte è in Egitto un mutamento di stato; si muore come si va a nozze, a tutto è solo necessario un buon prete officiante, un mago incantatore di forza.

Chiusa nel suo ipogeo, ove tutte le cose che vi sono raggruppate hanno vita, la mummia comincia, vivificata, a vivere, in tutta verità, servita dal suo doppio, che abita le statuette incantate. E così immagini, parole, geroglifici, statue, fanno il loro dovere. Così, dice l'orientalista, la parola «luce» diventa sole o fiamma illuminante; la parola «focaccia» diventa un vero odorante pasticcino, e ad un cenno volitivo della mummia ogni figura si anima, la ballerina danza e i musici cantano, il profumiere offre le sue essenze al Faraone adorato, l'intendente porta le sue oche imbottite, l'acrobata favorita inizia le sue movenze seducenti. . ed è una felicità perpetua, «deliziosa come il profumo del lotus, come il riposo sulle rive di un paese di ebbrezza». Pensavo a questa magia incantatrice delle tombe millenarie, pensavo a quel che scrivono i mistici dello spirito dopo venti secoli cristiani! Noi non abbiamo progredito di un decimo di milionesimo di millimetro nella scienza dei poteri dell'anima. Siamo sull'orlo di un pantano melmoso che si chiama «volgarizzazione», ed in questa pozza si affonda il piede dell'audace che va innanzi, parlando, discutendo, pubblicando i metodi per la investigazione della scienza delle anime non devono essere identici agli ordinari adoperati per un segreto di metallurgia. Diversamente, il processo della morte resterà il grande-arcano impenetrabile.

Dice la moltitudine, la plebe scientifica, quella che brevetta i ritrovati e le scoperte industriali: « se sapete e potete provare, venite, io vi poserò sul capo una corona di alloro». Ho paura che questo arboscello di lauro nobilissimo non sia stato seminato ancora, e che le sue fronde non siano spuntate per fabbricare la corona per lo scopritore di qualche verità preclusa alle masse. Il Filalete, in uno dei suoi curiosi scritti, insegna a «non vendere l'oro che riuscirai a fabbricare». Chi riesce a sapere, che bisogno ha della benedizione e di un brevetto? E se proprio le masse dovessero ignorare certe verità?

 

II.

Se Trimalcione offriva, prima dei pasti, ai suoi convitati uno scheletro d’argento per incitarli a godere la vita, bisogna intendere che i Romani del suo tempo, non avevano paura della morte.

Sublimi padri nostri, voi non eravate attaccati dalla peronospera neogiudaica che da venti secoli fa considerare la vita come una espiazione. Di che? Di quale colpa? Voi, gente eroica, equilibrata e giusta ammiratrice di ogni follia religiosa, alla Morte assegnavate un posto di persona noiosa e necessaria, come a chi governa le scodelle ingrassate della cucina. Nessun tremito e nessuna tenerezza; ne l'immagine di Caronte, ne il giudizio di Minosse vi preoccupavano; bastava l'amico Mercurio per accompagnare la vostra personalità immortale sulla via degli Elisi. E quando il simposio, tra anfore di vino odorante e donne odoranti di rose, si protraeva oltre il tramonto, gli schiavi, portatori delle faci, pronunziavano il «vivamus, pereundum est»: godiamo la vita, perché cesseremo di vivere. La notte, divinità nera, figurazione delle tenebre cosmiche, da cui procede la creazione delle forme, pei Greci e pei Latini fu madre del Sonno e della Morte. Il dormire ed il morire, figli della stessa Dea a cui si sacrificava il gallo, il nunzio della Luce (3), che fu simbolo di Esculapio che lo portava in pugno. Dunque dormire è morire, la Morte è come il Sonno. Attraverso l'ellenismo, è artistica ogni forma dell'esagerato e difficile simbolismo orientale; l'oscura Notte nelle mitologie poetiche fu qua e là madre della lunga teoria delle più buie divinità, della Paura, del Dolore, delle Parche, della concupiscenza e della Discordia, dell'Ostinazione e del Destino - ma il Sonno e la Morte restano confissi latinamente come fratelli, ignorati, tenebrosi, simiglianti.

Morire e dormire. Fui, SUm, ErO. Se, affacciandoti nell'abisso profondo dell'astrale, tu domandi chi sia il tuo Dio, la Voce ti risponde: «io sono colui che fu, che è, che sarà in eterno. Né la morte mi cangiò, ne le ceneri disperse del mio cadavere di ieri hanno menomata la potenza dell’essere.». Il mito di Orfeo, che si volse a guardare la sposa pur sapendo che l'aveva perduta, grecizza l'enigma osirideo egiziano: il mistero della tragica morte tra le baccanti innamorate, che ne facevano a brani il corpo; e il suo capo reciso, portato dai flutti dell'Egeo, cupamente se ne doleva ai piedi delle rocce di Lesbo. Osiride e Orfeo, iniziatori della civiltà. Cicli sacri personificati; sacri, perché develavano alle plebi selvaggi che, oltre la morte, una parte di noi si trasforma e vive d'una vita diversa per continuarsi. Il serpente che nel letargo muta la sua pelle. Il letargo non è forse qualche cosa più del sonno e poco meno della morte? Le leggende dei culti, la passione di Masdruk, la passione di Osiride, la passione di Cristo, sono lacrime e martiri, morti e resurrezioni. Osiride vinto da Set è assassinato, ha il corpo fatto in quattordici parti disseminate senza pietà sulla terra di Egitto. Iside le ricerca con amore, ed in ogni sito, ove una parte dispersa è ritrovata, un tempio Osirideo è costruito. Osiride rinasce nella vita vegetante e animale, e Iside, nel dolore della pia ricerca, dona agli uomini i riti della immortalità (4) .

 

III.

Dopo tanti secoli di storia dimenticata, noi ci poniamo, come sei mila anni fa i Caldei e gli Egizi, la soluzione dell'enigma della morte; e riflettiamo che fra le morti successive di miliardi di corpi umani scomparsi, la crosta del piccolo pianeta nostro deve essere impastata di residui materiali dei nostri precedessero antenati o padri. Se il fratello che ancor ieri pensava e parlava, ci muore ancor rigoglioso di vita, innanzi al suo cadavere ci domandiamo se egli è distrutto o è volato come invisibile farfalla in libertà e pace, in aura più ideale, in regioni mai sognate, in una vita nuova, agli uomini mai svelata. Resta di lui la sola cenere del corpo che si dissolse negli elementi terreni, o la più tenue essenza del suo soffio di vita vede, gode e soffre come innanzi? Se a lui rivolgiamo la parola, ci sente? Se lo pensiamo, il suo pensiero ci intende? Se, nel dolore del nostro affetto, cerchiamo le sue forme amate nelle quali egli ci ha amato, può, commosso dallo stesso amore, raccogliere gli atomi dispersi del suo corpo svanito, e apparirci e parlarci? E quando, negromante o incosciente, nel mio dolore allucinante, lo plasmo e lo ascolto e ne riconosco l'accento e ne ricordo il pensiero, sono io sull'orlo della follia, o in presenza di un intervento dell'oltre tomba? E se egli, sotto forma diversa vola o è volato libero, intelligente e felice, quale lo spazio che l'ha accolto? quale è la concezione nostra di una dimensione fuori le note della volgare geometria euclidea?

 

IV.

O filosofi, o credenti, o religiosi del pratico francescanesimo, non trepidate nei vostri ragionari e nella vostra fede. Se il ragionamento o la fede vi manca, non vi resta che la negazione. La scienza umana, la officiale (5), non vi conforta, nega. La scienza, che ha inventato le polveri onnipossenti per squassare la terra, e i fumi pestiferi per uccidere gli uomini, i velivoli per salire alla luna e il mezzo per portare agli antipodi i messaggi e i suoni, questa scienza onnipotente a cui nessun elogio è negato, non può dirci se oltre la tomba si vive e si ama; siamo ancora in piena eterodossia, se crediamo agli spiriti dei morti, ai fantasmi, alle anime del purgatorio che si manifestano ai vivi. La scienza nega e la religione proibisce; il prete celebrante la messa, recita ancora la preghiera all'arcangelo Michele affinché sconfigga e dissolva i demoni che fanno da spiriti dei morti sulla scena degli incanti e attentano alla purità dei creduli. Scienza e religione ci lasciano attoniti, fuori la fede e la ribellione.

 

V.

L'iniziatore si affaccia. Esiste il Maestro che ha risolto l'enigma della sopravvivenza? Ermete, Pitagora, Orfeo, non hanno avuto continuatori? Come lo spirito del Cristo aleggia nei tempi paolotti, il loro, che era sapienza di ricercatori, non rivive nei discepoli antichi votati alla missione pontificale? Questa iniziazione è fuori l'orbita della scienza delle università, ed è in contrasto con la tradizione religiosa cristiana. Io credo che non bisogna esser vili nella critica delle idee pseudo- iniziatiche e mistiche che ci piovono da ogni parte; e di questa viltà, per amore di pace, siamo un po' tutti praticamente intinti. Noi apriamo le braccia a tutti i mistici, e rispettiamo tutte le panzane vomitate dai più fantasiosi. Siamo teneri ammiratori dell'Oriente Indiano e del famoso Tibet; ammiriamo volentieri il Taoismo e il Confucianesimo; andiamo in brodo di giuggiole per un po' di Buddismo annacquato; i cenacoli della tedescheria ci commuovono, e romanzieri dell'ignoto ci paiono messi della Provvidenza. Ma queste cose, per chi ha piacere di essere distratto, sono passatempi gradevoli; tra una tazza di the e un biscottino zuccherato, darsi l'aria di sapere gli arcani dell'invisibile e aspirare alla sapienza onniscente degli spiriti che stanno dieci metri da padrebacco, è grazioso. Questa mancanza di opportunità e questa consuetudine di lasciar dire e lasciar fare, generano la confusione e il pasticcio delle idee nel grosso pubblico, attratto, per debolezza infantile congenita, verso il meraviglioso di ogni specie. Tanto più se ci entra come intingolo qualche parola soffiata alla giapponese, o un gargarismo indiano, otre gutturali ebraiche. Quella che si dovrebbe intendere per iniziazione è tutt'altra cosa. Non ha da veder niente con la mistica. È un materialismo di altro genere perché forma, costruisce, educandoli, gli operatori, i sacerdoti celebranti dalle mani pure e dalla parola dal tono giusto, come il dott. Mardrus traduce dai geroglifici, per incantare e vivificare le mummie. L'iniziazione magica è cosa più che aristocratica, regale. Il suo simbolo è la corona. Non quella d'alloro dei poeti. La corona che da la potestà imperatoria. La teocrazia va intesa così. Perciò Eliphas Levi, che ha una tenerezza ebraizzante spiccata, avrebbe voluto rendere le rugginose chiavi dell'ebionita Caifa, atte ad aprire le porte dei cieli. Il triregno è un simbolo giusto, una splendida etichetta dorata su di una bottiglia vuota. L'iniziazione alla Grande Magia Imperatoria comincia con la Morte, la Morte che è una purificazione incompleta, perché la rinascita porta in germe la memoria della vita vissuta anteriormente. Il Cattolicesimo è infiltrato di riti magici dall'epoca in cui elementi gnostici ne manipolavano la liturgia. Eliphas Levi strizza un'occhiatina maliziosa; quelle famose chiavi hanno bisogno di essere unte con olio di sapienza, per aprire, col Paradiso, la develazione dei misteri. Ciò che gli egittologi non hanno ancora capito.

La rivificazione della mummia laccata e fasciata è l'incanto perché, ritornando a vivere la vita umana, il Ka e gli altri due complici si riuniscano di nuovo per continuare la identica felicità della vita vissuta. Lo stesso augurio non occorre fare a chi ha menato una vita di stenti e di privazioni. Il Cristianesimo ha la assistenza ai moribondi; assistere un moribondo cristianamente, cattolicamente, significa ipotecare alla stessa lugubre fede paurosa la vita futura. Vita futura? Ma non fraintendiamo; non nei cieli, non nei campi Elisi, ma in terra, alla reincarnazione prossima.

L'iniziatore ti dice: non credere. Tra la fede e la scienza vi è un abisso. L'iniziatore non dice «credi», dice «prova». Vuoi sapere il «dopo morte»? O prova a ricordarti donde vieni, o prova a morire per ricordare. E, mostrando una statuetta di Mercurio pronto a spiccare il volo, l'iniziatore t'invita a non bere vino: regime secco alla americana; non ubriacarti, se non vuoi avere la televisione delle sante del paradiso che sono passabilmente brutte, come Simone e Paolo, due tipi bruttissimi, ingentiliti dagli artisti italiani quando crearono la bellezza mistica, luminosa, ideale, come non è stata mai concepita dopo l'arte Ellenica, plasmatrice di altra bellezza. Chi ha visitato gli scavi di Pompei, deve ricordare che sul muro adiacente alla bottega di un unguentario sono scalfite delle parole latine che suonano così: «Oziosi non vi fermate, procedete per la vostra via». In altri termini: qui non vi è miele per chi non è pronto a sfidare i veleni della Morte: questa la traduzione che l'iniziatore incise sulla porta della sua bolgia. Morire è risorgere; iniziandosi, la Morte è la visione del risveglio. Gli oziosi, gli sfaccendati, i curiosi, i grammatici e i gazzettieri, sono pregati di procedere oltre. Troveranno più avanti delle più facili e più seducenti botteghe. Una tazza di te e dei biscottini all'essenza di arancia. Un bei discorsetto per acquistare la chiaroveggenza in due sedute, o diventar magnetizzatori in otto giorni e poi avere il successo nella vita. Ideale alla maniera moderna di comprendere l'utilità di sapere qualche cosa che possa condensare il piacere di vivere. E non è una idea balorda: se il Supremo ci promette facile la conquista di un paradiso di oltretomba, potrebbe anticiparci un po' di felicità in questa valle di lacrime: Budda era tondo e grasso come un priore dei domenicani, e gli iniziati più famosi non mancarono mai di un po' di polvere di pirlimpipì per convertire i manichi delle scope in barre d'oro.

 

VI.

Queste note brevi e varie sulla Morte, che è l'alfa e l'omega di tutte le religioni e di tutte le filosofie, sono piccole luci pel lettore acuto che si avvia, come Teseo, a scovare il minotauro nel labirinto. Queste chiose sono moniti iconoclastici; le statue monumentali delle credenze superstiziose di altre fedi e di altre dottrine, denaturate dai commenti e dalla malevolenza delle religioni imperanti, cadono spezzate, in frantumi, in polvere, sguazzanti in laghi di inchiostro. Io scrivo pel mio unico lettore acuto che voglia prestarmi attenzione, purgato se è possibile, dalle idee assorbite per secoli lunghi e dolorosi nella trasformazione della sua anima cristiana. Questo unico lettore è là, in un cantuccio oscuro, pronto alla critica, curioso di apprendere, avido di teorie inaudite; fermenta nel suo animo la ribellione sorda alla nuova ricostituzione di un occultismo a base di teologia mistica, di cicli religiosi sovrapposti, mescolati a convalli scene di misticismo di ogni colore. Questo unico lettore che domani sarà purificato completamente dalla suggestione atavica e dalla più prepotente del gruppo sociale in cui è cresciuto e vive, vedrà ingrandite le fiammelle delle mie lucerne, diventate le grandi luci di tempi ignorati. La confusione delle idee, delle teorie, misticherie, mistagogie, esegesi, è tale e tanta che il campo visuale della Natura, nella sua semplicità, è ridotto a niente. Ed ora che alla partita di piacere si sono aggiunti gli orientalisti, babele trionfa. La sapienza pratica degli americani ci promette di fabbricare gli iniziati a serie, come le automobili, le calzature, i cappelli, le saponette. Il valore grammaticale di iniziato non risponde all'iniziato nel senso magico; iniziazione è cominciamento, da «iniziare», cominciare. I nostri antenati avevano la debolezza, forse necessaria, di creare parole a doppio senso; gittavano in padella un vocabolo che assomigliava e consonava con uno di senso volgare, e poi. «qui vult capere capiat». Certo, profanamente «initio» ed « initiare» volevano dire consacrare, introdurre nei misteri; ma se vi è qualcuno che voglia perdere tempo, rifletta che «initium» ed «exitium», il principio e la catastrofe o la morte, hanno la seconda parte della parola che è identica: che «ito» «itio» «it», andare con frequenza, andare, muoversi, sono voci di moto. Nell'Urbe arcana, dove l'iniziazione non appariva, e le cene delle ordinarie sedute passavano per convegni dilettevoli in pace (6), roma, orma, ramo, erano forme esteriori di reconditi significati. Ora io voglio dire che anche gli egittologi credono che la parte dei misteri non pubblica fosse riservata agli «iniziati», la parte dei misteri drammatizzati da mimi, come quelli della Grecia, come più tardi, nell'oscuro medioevo, in Italia e in altri paesi d'Europa. Ed è un errore, perché coloro che assistevano a queste celebrazioni arcane non erano iniziati alla magia sacerdotale, ma alla significazione dei misteri, delle parole analogiche che la plebe dei misti non doveva intendere. Iniziazione vera era riservata a chi doveva diventare sacerdote e non dell'ordine inferiore dei celebranti i misteri, ma della gerarchia più elevata, nella quale i facitori di miracoli erano frequenti. Ecco perché ho detto che i grammatici, i filosofi, i parolai, i mistici non sono iniziati: chi doveva arrivare, uomo o donna, era preso ed educato con un allenamento lungo, faticoso, severissimo, come il sacerdozio cristiano non ha sentito il bisogno di educare gli aspiranti agli ordini sacri. I nostri contemporanei non saprebbero concepire una educazione della magia operante: bastano i libri, i bei discorsi, le invenzioni delle parole bisbetiche, e l'orizzonte magico è conquistato; le scienze occulte, contrariamente alla indicazione che farebbe insegnarle nei luoghi più nascosti e nel silenzio più profondo, si propalano a colpi di eloquenza e di volumi rivelatori di verità e di enigmi! Oziosi, procedete oltre. Il pubblico contemporaneo comprende una educazione e una vita rigida, con sorveglianza severa e ininterrotta, per un pugilista che deve aspirare alle vittorie delle arene e guadagnarsi ricchezze; ma non intenderebbe che un tirocinio austero di trent'anni, con regole imprecise e non spiattellate nei giornali curiosi, possa mutare un uomo in un semidio. La cattedra l'ha insegnato: non vi è che la follia e la superstiziosa banda degli impostori. La scienza è onestamente franca: studiate e saprete tutto; noi diciamo lo stesso: studiate, ma soprattutto praticate, allenatevi, e sappiate tacere, rinunziando a stampar libri. Ma chi prende sul serio un invito che vale pene e fatiche di tutte le ore?

 

VII.

Più che molti santi della chiesa, Kardec, Leon Denis, D'Alveidre, Flammarion e i mistici numerosi contemporanei di seconda linea, hanno diritto alla umana gratitudine: creature bersagliate dalle tempeste della vita, dalla violenza di sciagure improvvise, da turbamenti spirituali, brancolanti nel buio da una mancanza assoluta di fede nella religione dei padri, doloranti e isolate nella vita dopo la sparizione di persone carissime, hanno attinto salvezza, oblio, speranza, fede viva, assai spesso alla letteratura della prosa poetica di questi artisti della contemplazione. Che importa se facendo ballare un tavolino a tre gambe, non si provoca un fenomeno approvato dalla scienza ufficiale e dal sacerdote? Le pene dell'anima vi trovano conforto e gli spasimi sollievo, e questo è, incoscientemente, un atto di magia consolatrice delle anime sanguinanti. Un poeta americano, Mortimer Clapp, ha scritto che «la realtà (verità) è un momento furtivamente lucido tra due sogni (7)». La concezione della vita, pensiero e visione, come un sogno, fu formulata dal Calderon (8): il vivere è un sogno, e ogni sogno è una vita. Un anonimo, preparatore della rivoluzione del '93, scrisse che l'utilità delle religioni è di sovrapporre alla crudeltà delle pene di ogni momento una speranza continuata in un sogno che fa capo alla Morte, l'ultima pena e l'ultimo sogno (9). Come ogni volta che una grande catastrofe si abbatte sugli uomini, l'immediato periodo del dopo guerra ha generato una inondazione mistica in tutta l'Europa; se ne sono avvantaggiate le religioni per quel «credo quia absurdum» che è la base della contraddizione tra la ragione critica umana e la fede. Mai una ondata di scetticismo, di ribellione, di protesta, ha invaso per un più lungo momento l'umanità, ribelle alle menzogne convenzionali sulla potente azione dei cieli misericordiosi, che hanno assistito imperterriti ai clamori delle vittime: secondo misticismo di reazione alla divinità. Dei due stati della psiche occidentale, sulla letteratura hanno fatto presa, come espressione artistica del sentimento, la Morte, la Filosofia della Morte, la psicopatia della ribellione alla Morte, il disinganno dei patimenti lunghi, la ripugnanza ad immolarsi per cause ingiuste, ove predomina la malvagità dei conduttori di popoli, asserviti alla schiavitù inutile di sfidare la morte. Vanità la vita, vanità la morte, vanità la storia e il dolore; il sogno dell'esistenza, tra un cumulo immenso di vanità, si interrompe nel momento furtivamente lucido in cui considera la verità nella rapida e folgorante luce della sua integrazione divina, la verità miserabile della vita umana, dai cieli mutissimi non protetta, tra la indifferenza di dei o di un solo dio che non intervenne che a sproposito nelle faccende terrestri; crudeltà o desolazione o spasimo. L'iniziato cerca l'elisire per vincere la morte. Prometeo? no. Prometeo, nello splendore della favola sapiente, nell'arte greca, nello scettico poetico sorriso latino, è la scienza umana, quella della società dei mortali nella convivenza della terra. L'uomo audace nella sua investigazione che monta alla conquista di un dominio in cui la divinità invisibile è sconfinata - appartiene alla boria della umanità: la concezione del Vico. L'iniziato si propone il solo problema della continuità di coscienza, sorpassare il fiume dell'oblio, il pittoresco Lete, continuando senza interruzione il sogno della integrazione nei poteri divini. Prometeo, il piccolo dio, semidio, aspirante a sostituirsi al Dio, è la grande università della scienza dei volghi che sfida l'ignoto, nella enunciazione della potestà meccanica di tutte le leggi infallibili, interrotte, della natura terrestre. La rassegnazione non è che filosofia o viltà. Il laboratorio mistico del cristianesimo cerca da secoli di inocularla nella mentalità dei popoli; come la volontà di Allah nell'Islam; come l'ineluttabilità delle fasi pel divenire, nell'oriente buddico. Ma il pecorume occidentale si rassegna all'impotenza all'atto ribelle? Nell'ora estrema, innanzi alle ingiustizie stridenti, le anime più vecchie, le più antiche, le più libere si rivoltano: il mito della ribellione degli angeli deve essere eterno, sopra il piccolo pianeta che abitiamo, e nella infinità dei mondi animati, nei sistemi solari dell'Universo inconoscibile: chi sa quali rivoluzioni spirituali nascondono le stelle scintillanti nell'azzurro cielo d'Italia che, sardonicamente, in calma apparente, osservano in eterno la nostra povertà di mente! i nostri piccoli orgogliosi dolori di cui scriviamo l'epopea pazza, addebitandoli agli iddii indifferenti che forse - chi lo sa? - ci guarderanno con la stessa annoiata curiosità con la quale noi contempliamo un formicaio o un nido di vespe arrabbiate!

Il sacerdote mago dell'Egitto operava l'incantesimo della Mummia, la risvegliava, la preparava al viaggio, talismani e immagini nelle fasciature; le insegnava le frodi per corbellare la divinità, nel lungo itinerario per montare, incolume, senza ostacoli, alla residenza delle cause. Filosofo teocratico, il pontefice doveva avere innanzi agli occhi il cammino nel regno delle ombre, la via sempre affollata che i morti di tutte le ore percorrono. Il libro dei morti è un monumento. Vale il peso e il lavoro della piramide di Cheope. Fortunato chi vi legge bene. La magia vi metteva il suo sigillo. Anime ribelli dovettero esservi a centinaia anche allora, in epoca di schiavitù forzata, ugualmente feroce quanto la schiavitù della attuale civiltà dell'occidente empio, che cova l'incendio e i massacri umani. L'iniziato deve vincere la Morte, sorpassare la schiavitù della legge inesorabile. Immortale come l'invenzione di Dio. L'enigma vivente. Vedi, o lettore acuto, come siamo lontani dal misticismo religioso, dalla filosofia della uguaglianza dei valori umani, dall'anarchico misticismo del non valore della vita dell'uomo, dalla rassegnazione, dalla fatalità islamica, dalla ineluttabilità Karmica. Credo, o acuto amico, che nessuno ti abbia mai parlato così: faccio da Lucifero, con queste noterelle che sono delle piccole luci, in attesa, se tu sei libero, che diventino fiaccole irradianti. Vincere la Morte.

 

VIII.

Religioni scomparse che hanno governata l'anima dell'uomo per millenni, credettero agli dei - e, tra gli dei, a un Dio più potente. Gli dei grandi e piccoli invadenti la vita umana. Spesso dei contrari e amici si contendevano, come in lotta invisibile, la felicità di una creatura terrestre. Guerrieri protetti dall'uno, erano avversati da un altro dio. reggete la guerra di Troia. Israele, che aveva vissuto nella servitù babilonese ed egizia, sfoderò dio unico, poi il profetismo e il messianismo. Cacciato dalla Palestina, invase il mondo, con Geova a bandiera spiegata, aspettando da venti secoli lo Stato di Sion. Monoteismo? Politeismo? Ateismo? Lucifero, sardonico come le stelle delle notti serene, tra il ribelle ed il faceto, traccia nell'aria il segno misterioso della mano: e se la concezione dell'errore fosse la deificazione dello spirito e della ricerca e delle ipotesi dell'uomo? Lucifero demolitore, Prometeo bestemmia. Questo Giove unico, prepotente, ultrapotente come una stazione marconiana, è il più ingiusto tiranno che mai fu concepito. Come Ea, come Nun, come Ieve ebreo. Negriero. Padrone di turbe di schiavi. L'umanità, una creazione sbagliata. Un aborto. Creò imperfetto l'uomo per farsene un lacchè; peggio, per poggiargli il piede sul capo e obbligarlo a respirare il dolore. La Morte, dopo una vita effimera. La cremazione del cadavere. Il pianto e la miseria dei reietti e degli impotenti. Allora come oggi, come domani, come sempre. Mutate il nome a Giove, resta il tipo del cattivo padrone e del pessimo padre. La misericordia, la rassegnazione, la viltà inventate e suggerite dai propiziatori per compiacere, calmare, impietosire il pessimo governatore. Se siamo imperfetti, malati, miseri, disordinati nei desideri, violenti, crudeli, è lui il colpevole, ci ha fabbricati lui così. Gli conveniva non avere per sudditi persone diritte e immuni dalla caducità: non toglie il figlio amato alla madre disperata? non lo sposo alla sposa? non il padre ai figli miserabili? non nega il pane all'affamato? il tetto al vagabondo? Il sacrifizio è l'azione che più gli diletta le ore oziose. Il sacrificatore veggente contemplava gli dei a frotte, a nembi, come le mosche, accorrere ad inebriarsi al sangue della vittima immolata. Il feroce piacere della morte violenta è di origine divina. Il nettare nei calici dei celesti simposi! doveva putire di sangue, e l'ebbrezza di crudeltà, e il riso balordo della ubriachezza, sapido dei dolori degli uomini.

Prometeo, il formatore dell'uomo (10) al quale Minerva (11), l'intelligenza divina della sapienza umana, portò il contributo dei doni celesti. Il piccolo dio sentì la logica rivolta orgogliosa di lotta, contro questo padre senza visceri per i lamenti della larga figliolanza - e divenne scienza, investigazione, audacia, temerità: divenne sapienza umana, pronta a scalare i più lontani olimpi.

La favola. Prometeo fabbrica l'uomo di loto. Minerva ammira la creazione da lui compiuta e vi trasfonde la timidezza del lepre, l'astuzia della volpe, l'ambizione del pavone, la crudeltà della tigre e la forza del leone. A Prometeo domandò che cosa dovesse prendere nei cieli per completare la sua fattura, e Prometeo chiese di andare egli stesso nelle divine regioni per scegliere a proposito; accompagnato dalla Dea, rubò in alto il fuoco sacro e lo portò sulla terra. Ira di Giove, che scaraventa sulle sue braccia Pandora. Giove e gli dei tutti, visto l'uomo fabbricato da Prometeo, crearono, anch'essi un essere vivente, una donna, a, cui ogni divinità fece dono di sue virtù. Bella, seducente, irresistibile, giovane, il vecchio dio la inviò a Prometeo perché se ne innamorasse, e le dette un cofano sigillato perché l'offrisse in dono di nozze al suo sposo. Prometeo, astuto, si sottrasse all'inganno, e rifiutò la seduzione, ma volle egli stesso prendere per l'inganno Giove, e costui irritato ed implacabile, comandò a Vulcano di incatenare l'incauto piccolo dio ad una rupe. Eschilo ne ha scritto la tragedia: immensa come la sanguinante poesia della scienza dell'uomo, attraverso epoche lunghissime, contro il prepotente malvolere del destino inafferrabile.

Prometeo invoca cielo, terra e mare, l'etere, il vento, il sole a testimone della ingiustizia dei numi: «Giove voleva distruggere gli uomini, per rinnovare il mondo, gli dei che gli facevano corona acconsentirono, io solo ebbi il coraggio di salvare l'umana razza: ecco il mio delitto. Gli uomini selvaggi vagavano alla ventura, io detti loro le leggi, costruii case e tempi, insegnai loro il corso degli astri, calcolai il tempo, svelai il mistero dei numeri, insegnai loro a coltivare la terra, a domesticare il cavallo, a navigare; ecco la mia colpa (12)». O simpatico Prometeo borbottone, tanto hai fatto contro padre Giove intollerante, invidioso, ingiusto; tutto hai potuto ottenere col fuoco rapito ai cieli (13) e non hai sfatato l'Olimpo; dalla sua tirannide non hai emancipato l'umanità schiava. Sei restato confisso alla montagna, scheletro della Terra, bestemmiando; ma perché non hai insegnato all'uomo come vincere la Morte? Non hai vinto il destino degli umani. Non lo potevi? Non lo puoi vincere? La tua sapienza non lo potrà mai? Dureranno in eterno i periodi di veglia e sonno, di luce e oscurità, di vita e di morte? Il sole sorgerà per infinite aurore, tramonterà in continue notti, in eterno? Ma che il tuo genio di creatore in lotta con i numi non sia uno dei paradossi del genio alla maniera del Lombroso, che precipita nel suicidio della razza umana? Che, provocata dalla temerità delle tue conquiste, incosciente non prepari una nuova Atlantide, diluvi e sparizioni di razze e di continenti (14) ? È questo il tuo delitto? sarà questo il peccato originale delle razze future nei futuri millenni? Lucifero, ironico come le eterne stelle del firmamento, traccia nella notte crepuscolare il segno della mano: ricerca, o mortale; il ponte copre il Lete; sorpassalo, non ti immergere nell'oblio. Ricorda l'ieri lontano, Osiride nel breve piano del Delta, Giove nella reggia del piccolo Olimpo, Geova minaccioso e ringhioso sulla terra di Sion, Assiriel fastoso, opulento, a Ninive, a Babilonia, a Tiro. Sorpassa l'oblio, come hai sorpassata la vilissima età della paura, profetizza alla maniera giudaica come Ezechiel, come Baruch: il lontano domani è dei volghi, delle masse, delle ambizioni; le plebi saranno rinnovate, e nuove plebi monteranno; la terra vomita i suoi semi, li fa germogliare in piante rugose e nane, in arbusti fiorenti, in alberi pomposi di foglie e di frutta. Apri la mano nel buio della notte, cerca e stringi la mano dell'iniziatore! Diventa Re. L'integrazione dei tuoi poteri sarà eterna: non piegherà innanzi al destino degli uomini e delle plebi intellettuali. Nell'oscurità densa non diventar pazzo d'orgoglio e mistico - dici e non disdire - la parola magica, il verbum, è realtà, creazione. È necessario. Il pontefice mago della magia Caldea, conta la sua mistica storia.

 

IX.

Mamo Rosar Amru, colui che mai conobbe la morte, eternamente giovane e mitrato; ortodosso e templario, commenta: o miste, profano in attesa della sapienza, ricordati che Lucifero ti parla da ribelle - il verbum è la parola del creatore - nella notte oscura e profonda non troverai la mano dell'iniziatore pronta a stringere la tua, il tuo piccolo nume è in te, e te lo vieta. Io sono la legge del nostro tempio più grande, non sperar trionfi. Quando in alto il cielo non era nominato, e la terra in basso non aveva ancora nome, le acque formavano una massa sola. L'apsu primordiale e la tumultuosa timai erano confusi in un solo amplesso (15) . I giuncheti non sapevano dove poggiavano le tenere radici, e i densi boschetti di rose non erano ancora apparsi. Allora che nessun destino era fissato, furono creati gli dei (16) . Quanti? Senza numero. Come le stelle. Fu la parola, l'aria, il soffio, il loro primo corpo. Ea, sugli abissi delle acque, fu vento, alito, respiro: così furono nominate le cose. Per allietare il soggiorno degli dei, furono creati gli uomini: Mardruk volle così. La semenza dell'umanità è Aruru; quando si propose di creare l'uomo, impastò l'argilla con le gocce del suo sangue; lo plasmò ad immagine degli dèi, e ad essi preparò il culto. La creazione si compie ogni volta che piace agli dei, e ogni dio può parteciparvi. Istar presiede. Sei perciò, o miste, avvisato, che il tuo destino è la schiavitù (17) . Gli dei invisibili, che furono gli artefici del tuo essere, amano dilettarsi di te, esser serviti ed adorati da te. Sei perfetto per questo: l'egoismo è la tua più spietata virtù, è nelle tue fibre, nei tuoi nervi, nel tuo sangue, è il tuo sigillo e il tuo valore: non ti diletti alla guerra, con schietta ferocia di belva, e non onori i guerrieri in sepolture ricoperte di fiori? Non hai il gusto raffinato dello spasimo altrui e della vendetta? Non hai avuto in dono un cervello a meandri, come opera di scultura, col quale hai trovato gli argomenti più sublimi, che Nebo, il sottilissimo tra i numi, non saprebbe rinvenire, per coronare di belle e pie ragioni tutti i misfatti del tuo orgoglio? Gli dei se ne dilettano, allegri; ti irritano di tanto in tanto, quando tu rallenti i tuoi spettacoli pazzeschi. La viltà, la volontà di prepotere, l'ambizione sfrenata, la lussuria, il tradimento, non completano la tua superba immagine? Non ti fanno vivere tragedie da ogni sorgere a ogni tramontare di luna? Migliori? Hai volontà di spogliarti della vecchia camicia insanguinata ed assurgere ad una purità che ti illude nelle calme ore di pace oziosa, quando la fame e la cupidigia non ti tormentano, quando i più vili e paurosi ti intessono deliziose fiabe filosofiche, per addormentare il ricordo della leggiadra bestia che in eterno, sotto mille forme cangianti, in te permane? La tua storia di ieri, come di oggi e di domani, non è scritta con un pennello insanguinato a larghe e profonde macchie vermiglie? Non sei superlativamente cinico nella tua filosofia dei massacri? I dispotismi violenti e voluttuosi dell'Oriente non valgono le metafisiche della libertà dell'occidente, in cui la schiavitù muta forma, e le idee, espresse con parole di convenzione, sono più gravi delle catene pesanti e rugginose degli antichi imperi? Credi che allora, attraverso i lontani millenni, non vissero i felici, i poveri, gli abbietti, i violenti, i vili pacifici, i lussuriosi, i martiri, come ora, come domani, in città più superbe e ricche delle nostre grandi metropoli, con palazzi e giardini insuperabili, con templi in cui l'oro e le gemme erano profusi? Babilonia non apriva al sole cocente la magnificenza artistica delle sue ricchezze e la seduzione dei suoi incanti? Lucifero, spirito della ribellione, allora come oggi, motteggiava; ai suoi ispirati la lingua era strappata o tagliata con tenaglie roventi; agli offensori del diritto divino del comando, il carnefice svuotava le orbite, e le carni, a brandelli, erano date a divorare ai cani feroci del tempio di Nergal.

Lucifero, ironico, crudele, batte le palpebre in segno di assenso e, parodiando, il pontefice difensore degli invisibili dei, con voce cavernosa conchiude: «O miste, il verbo della tua schiavitù è fatto sangue e carne in te, il tuo destino è scritto». Poi sogghigna e i suoi occhi scintillano come diamanti puri, di luce viva, come di folgore.

X.

Ai tempi di Roma, Caldeo voleva dire mago. Erano caldei o pretesi caldei che facevano da indovini, astrologi e incantatori. Allora il Prof. Richet non aveva ancora inventata la parola «metapsichica», che pare ai contemporanei più nobile della parola magia e di maggior valore. La Caldea era ritenuta allora la fucina di tutte le arti oscure della diavoleria mondiale. L'Egitto più sacerdotale; Babele, Ninive, Tiro, palestre di stregoni, in cui ogni persona era lo strumento imprecatorio per comandare alle schiere innumeri degli ulu, ululu, e degli altri orribili abitatori dell'oceano dei malefizi. Amatissimo lettore, quando incominciai a scrivere, trenta anni fa, di magia, per evocare l'antica arte dei tradizionali e fabulosi realizzatori di miracoli, tutti gli spiriti di Allan Kardec in Italia, tutti i lettori della propaganda di Denis, Schurè e Flammarion, si ribellarono come un sol uomo per questo nome che rimettevo in onore, a richiamare l'attenzione dell'avanguardia sui poteri integrali dell'organismo umano. Mutano i saggi col mutar dei tempi e la parola m a g i a si incontra, con le virgolette, ad ogni dieci parole di orientalisti, folcloristi, studiosi di popoli primitivi o creduti selvaggi. Me ne dissero di tanto curiose che non parevano più spiriti cristiani. Avevano dimenticato che il nostro comune amico Israele, tra Egitto e Babele, aveva anche lui imbastito la magia giudaica; che Mosè invitò i maghi egizi a dar prova del loro potere e che questi gettarono nell'arena i loro serpenti di rame che divennero vivi e voraci, e Mosè gettò il suo, che tutti gli altri serpi distrusse; che Salomone re, oltre ad avere un laboratorio alchimico nella valle di Ofir, per poco non fabbricò i diamanti a tonnellate per piacere alla bionda regina di Saba; che la Gabbala ebrea è la più sottile di tutti i garbugli per tramandare ai posteri il Grande Arcano dell'universo; che anche San Pietro ebbe competenza con l'arte di Simon Mago e lo superò. Ora, grazie alle missioni scientifiche, la magia è parola di buona lega, perché, scavando documenti che precedettero di tre millenni la gioconda apparizione dei Santi Padri, spiegano che imperi di lunghissima durata non ebbero ad impudicizia di reggere i loro popoli con commerci diabolici che tenevano luogo di minacce, di castighi e di flagelli. I Caldei vivevano, in quei tempi, di divinità e di demoni. Carmi, scongiuri, imprecazioni, maledizioni ai mille diavoli che procuravano le infermità, come i microbi, o che attaccavano il corpo di colui che aveva allontanato il suo dio, o lo aveva irritato, o lo aveva tradito. Per divertire la onorevole compagnia degli dei di Mardruk, il babilonese doveva lottare coi casi strani della vita quotidiana, alimentati dalle avversità dei sette terribili genii del male, capaci di ogni cattiveria, mascherati in mille modi contro la pace dell'uomo in peccato; e dopo una vita non allegra, quando la morte lo colpiva, doveva lui stesso imporre paura ai vivi, che lo temevano peggio di ogni male, se la sua ombra non si placava nella sepoltura e un'offerta di cibarie non era pronta là a saziarlo di profumi culinari. Sceso il morto nel regno di Nergal, l'Arallu, il luogo da cui non si fa ritorno, era costretto tra le tenebre più nere e la cenere più opprimente, a vivervi in eterno. Nergal, che alle buie regioni governava, le aveva circondate di mura altissime, e dei diavoli, più o meno caudati e cornuti, tenevano in rispetto le ombre, affinché non evadessero per tormentare i vivi.

Interpretazione profondamente dubbia e seccante, illogica, della vita, se questa è la vera idea della interpretazione religiosa dei caldei; io vi credo con approssimazione al terzo; il quadro, dato dalla moderna psicologia (18), (che d'altronde non è neanche una scienza esatta, seppure è una scienza) da noi non è comprensibile nella sua malinconia di vita eterna, nell'oscuro inferno, dopo un bruttissimo soggiorno in terra per sollazzare gli dei di Mardruk. L'uomo, creatura ad immagine degli dei, o plasmato nella terra o dalle gocce di sangue di un dio, stillate ad una ad una nell'argilla o nel loto, aveva il quadro dell'esistenza dipinto a carbonella, coi grotteschi più terrificanti.

Doveva essere carina la vita terrena d'un libero cittadino di Babele! certo, nelle preghiere che quei sovrani onnipotenti, incarnazioni di Assur, il sempre vittorioso supremo guerriero, rivolgevano al dio o alle dee, domandavano per prima cosa una vita di lunghi giorni. L'Arallu attendeva in una miscela scomposta tutti i mortali, re, sacerdoti, guerrieri, maghi, mercanti e schiavi, femmine libertine e sacerdotesse, medici e notai. Mi pare troppo! I soli guerrieri morti in guerra potevano essere serviti dalla sposa loro - qualche altro poteva bere dell' acqua fresca - il resto peggio dei più rognosi cani. Nergal feroce! Istar, l'immortale signora di bellezza e di amore, che corrispondeva un po' alla venere greca e alla Diana latina, se discende dall'Arallu per ricercarvi il suo cicisbeo, è spogliata dei suoi veli e non può rimontare ai cieli senza un'aspersione di acqua di vita (19).

Hanno un po' ragione i metafisici e i teologi a bizantineggiare su questo luogo sozzo, detto inferno, in cui i detriti in decomposizione del superbo genere umano vanno, se gli dei non fossero mutati, ad abitare in eterno. Tra tutte le cose relative dell'ineffabile Einstein, vi è una cosa assoluta che non ha niente a vedere con le sue relatività: la paura dell'ignoto dopo la morte; la paura dell'ignoto, e della morte che lo rappresenta nella forma più sintetica e più semplice; il dolore più acuto, per le nature che non hanno la disciplina filosofica di Seneca, è preferibile alla morte: nascere e morire; in latino «oriri et moriri»; io nasco, «orior»; muoio, « morior»; che «mori» possa essere sincope di «moriri»? quell'emme precede «orior» (nasco) per dire «muoio»? Misteri etimologici (20).

 

XI.

Ireneo Filalete, in uno dei suoi famosi libri, per cambiare i metalli ignobili in oro di coppella avvisa, con la sua candida carità che una volta riusciti a fare il prezioso metallo, bisogna star bene attenti a spenderlo o a mostrarlo: perché il bargello, messo in guardia dalle voci del popolo che spendi e che spandi oro di qualità finissima, verrà a domandarti se tal orefice o tal mercante di preziosi te l'ha venduto; e come tu non potrai provarlo, ti metterà tra i ladri nella prigione, perché tu non dirai che l'hai fabbricato col piombo e lo stagno e il rame e con particelle di ferro in limatura - e se tu lo dicessi ei non lo crederebbe, e, sollazzevole, il giudice ti riderebbe in viso e ti direbbe: «io non sono un contadino che si imbroglia alla fiera coi bagatti; io son filosofo e non bevo grosso come un villano incolto». La cosa è applicabile all'inferno, o al regno delle ombre in generale, che sia l'Arallu Caldeo o il purgatorio dei cristiani, o il paradiso di San Bonaventura. Il paradosso lo gitto nel pentolino di queste cose note come un idea che passa per l'anticamera della cavità cranica, come una farfalla delle notti serene intorno al calice d'un fiore in amore. Ed il lettore arguto capirà che io non parlo di Dante, se dico che qualcuno avrà potuto benissimo visitare l'inferno e poi tornare in terra con la memoria delle cose viste, e saperle, e non poterle raccontare per non dire ai quattro angoli del firmamento che ha visto Istarte, la Domina, la Signora, la Grande Dama senza velo, mentre tutti non la vedono che vestita e velata, densamente oscura, con l'occhio scintillante d'amore, perché Ella è, è stata, e sarà la madre sempiterna Vergine, la genitrice delle falangi di creature che popolano il bei pianeta, a cui il cielo fa da ceruleo coperchio, e le panzane vi spuntano, per auto seminagione, come la parietaria sui ruderi degli antichi edifizi. Voglio dire, mio acuto amico e critico, che il mondo scettico non incoraggerà mai alcuno che nell'inferno vi è stato e che ne ricorda le vicende, a confessare e dire. Come il bargello temuto dal Filalete, in un corpo solo i dottori della moderna Salamanca, riderebbero e sputerebbero: «Ma che bubbola vai almanaccando? Tu hai ricordo dell'altra vita? Del buio della spelonca infernale? Vatti a far guarire dai Morselli o dai Leonardo Bianchi, perché o sei matto o vuoi fare il matto. Chi sei tu: Mosè, o Enkidu o altro rivelatore?». Enkidu era il compagno di Ghilgamesch; in sogno aveva visto l'inferno, dove alti e potenti signori, scongiuratori, profeti, e servi, sono misti come in unica insalata russa, vestiti come gli uccelli, di piume. Quando Enkidu muore davvero, Ghilgamesch lo evoca per conoscere la «legge della terra che egli ha visto». Ed è una rivelazione tanto penosa, tanto triste pel vivente; da farlo piangere. Come è desiderabile l'immortalità! La pianta o l'erba della vita gli dei l'avevano riposta nell'Apsu, nell'abisso dei cieli e delle acque; Ghilgamesch, dopo un viaggio orribile, se ne impadronisce, ma un serpente gliela ruba. Pare un viaggio alchimico finito all'aceto; come la conquista del vello d'Oro, come le fatiche di Ercole armato di clava, come Orfeo incantatore, come Cadmo alla conquista dell'Attica. I morti stanno male, anche sotto i monumenti della grande scultura, anche se i libri di Flammarion dicono il contrario: meglio asino vivo che dottore morto. Che te ne pare, sottilissimo amico filosofo, che stai là a sorridere: non vi può essere ai giorni nostri, dopo cinquemila e più anni dalla storia di Enkidu e Ghilgamesch, qualcuno che sia tornato dal paese dei morti ed ha paura di gridarlo forte, per non rischiare un soggiorno nei manicomi della grande Enotria, cara agli dei beoni di tutte le epoche? Il progresso è una favola?

 

XII.

Apro una parentesi un po' lunga e larga. Tanto queste note non sono materia di erudizione, e le ho annunciate come semplici fiammelle per accendere qualche lucerna di Aladino. Il lettore amico sappia, che dacché lo spiritismo è creato, dacché ha fatto capolino nella società del secolo passato, avversato dalla scienza come cosa non provata (i preti qua e là l'hanno tollerato o scomunicato), come strumento di fede ha una lunga legione di credenti. Tutti hanno creduto da secoli ai morti, sotto una forma o sotto un'altra; non vi è popolo che non abbia nutrito la certezza che i morti viventi nell'ombra ci guardano, ci vedono, ci ispirano, e - all'occorrenza - ci vengono in sogno per indicarci un destino imminente o un terno al lotto; però lo spiritismo, come l'occultismo, come il teosofismo, non ha avuto un critico demolitore, polemico, a conclusioni metafisiche; - ma dopo la guerra (che cosa non ha fatto la guerra!) la musica è cambiata. Leggo « l'Erreur spirite» di Rene Guénon, autore di un altro volume, «Le Théosophisme», apparso qualche anno fa. Un libro che esce dall'ordinario, questo qua. Non so dell'autore nessuna notizia: «Le théosophisme» mi dette l'impressione di una polemica culturale, come se un allievo di una compagnia religiosa volesse riveder le bucce ad una congrega pseudo-religiosa, come il sottotitolo chiama la fondazione del Colonnello Olcott e della signora Blavatski. Ma «l'Erreur spirite» di recente uscito, ha un altro valore. Bisogna leggerlo perché è un avversario di misura rispettabile, perché, senza confessare ancora dove miri, fa un po' l'Attila, il re degli Unni, per dare addosso prima allo spiritismo, e poi all'occultismo e alla metapsichica; s'intende, spiritismo francese, occultismo francese, metapsichismo francese, con qualche notizia dell'Inghilterra: il resto del mondo non conta: in Italia si coltivano le sole carote che ci vengono seminate dai libri francesi; già ho fatto capire più sopra che quando scrissi l'«Avviamento alla Scienza dei Magi», se non avessi mostrato la più tranquilla tolleranza per tutto il diluvio di libri di spiritismo che Parigi ci faceva digerire, non avrei trovato neanche un lettore che mi avesse studiato. La libreria francese contiene ora una completa collezione di autori che hanno pubblicato volumi su tutti gli arcani, e che di più dovrebbero far testo nelle interpretazioni, nella veste romantica sotto cui sono presentati. Dopo Eliphas Levi, si parla ora della «Haute Magie», come se questa avesse dei cultori insigni a Parigi da esibire al mondo per modello del genere. Tanto carina una inchiesta sulla Haute Magie, pubblicata ultimamente dalla «Revue Mondial»! Giacché io scrivo queste note ridendo, per non appesantire il lugubre argomento della morte, devo confessare che questa Haute ecc., mi ha messo di ottimo umore; e, senza essere un psicometra, mi è parso di vedere, di là dal paravento, ridere anche il mio amico ebraizzato Elifas, serio, serio, con un moccichino che, soffiando il naso, nascondeva la bocca ridente.

Ma ritorniamo a « l'Erreur». Il Guénon, siccome io non sono all'altezza di comprendere bene tutto quello che i filosofi dicono, mi pare che qua e là si dolga che la metapsichica pura non gli consenta di rendere il suo pensiero che con difficoltà: qua e là fa intendere che la magia la conosce come io la mia saccoccia, ed infatti spesso colpisce giusto e annota, «en passant» che in oriente certe cose si fanno coi piedi; ciò che farebbe supporre che ha sorpassato il Tibet e ha raggiunto il culmine dell'Everest; l'occidente con le sue macchine, i suoi olii lubrificanti, i suoi impianti idroelettrici non valgono tre baiocchi di Pio IX. Ma come è pensato e scritto, il libro, merita di esser letto. Dimostra che gli spiriti dei morti, filosoficamente, non possono affatto comunicare coi vivi, perché, per un milione di perché, la disgregazione del morto è un affare assodato. Non esistendo il perispirito, e tanto meno il suo sinonimo: il corpo astrale degli occultisti, un granello va a nord, cinque vanno ad occidente, e diciotto ad oriente; il resto di ciccia e calcari va sotto terra, per restituire ad essa gli elementi che ci ha prestato. La dialettica, il senso critico, il buon senso di demolire per conto di non so chi, mettendo innanzi che lo spiritismo è dannoso all'appetito e all'equilibrio mentale, rappresentano una carica folta, serrata, in pagine fitte e saporose, e ammirevoli (senza celia) che trascineranno molti lettori fino all'ultima pagina del libro, anche senza arrivare a comprendere, come me, quella purissima metafisica per la quale non tutti sono costruiti secondo l'arte di Ponzio Filato. Determinata la impossibilità che uno spirito di defunto possa esistere nella sua personalità complessa e completa, tale da poter dire «io mi sento e sono il tale dei tali», e quindi precisando che non è possibile per questa ragione la comunicazione tra vivi e morti, l'autore afferma la impossibilità che una reincarnazione vi possa essere, neanche pei Messia alla maniera ebrea o di altra razza. La reincarnazione è idea moderna, come lo spiritismo: gli antichi non ne sapevano niente; perfino gli orientalisti di oggi sono suggestionati dalla idea della reincarnazione, e interpretano documenti antichissimi con idee contemporanee passate dallo spiritismo Kardekiano al teosofismo della Besant e a certi occultisti francesi; e da questi, varcata la Manica, in Inghilterra, dove le comunicazioni degli spiriti pare che dicano il contrario di quelli francesi. Il Guénon ha dimenticato che l'idea della reincarnazione è prepitagorica, e che Diogene Laerzio non è autore del secolo XIX. Insomma, acuto amico lettore, bisogna che scoviamo il messère che è ritornato dall'inferno e non ha ancora aperto bocca per dirimere questioni così allegre.

XIII.

Un guaio, se la scienza delle università si occupa dello spirito imano; più grosso guaio se se ne occupano i filosofi. Metapsichica e sperimentalismo mi paiono due cose temibili per la pace dei morti. guanto pagherei per sapere dov'è questo sornione che è stato all'inferno vedere i morti, e se è ritornato vivo in pieno cosciente ricordo, incompleta integrità mentale. Lucifero sorride ironico, come le stelle che guardano di lassù, cielo azzurro, profondamente sereno e misterioso, cielo Italico pieno del profumo dei nostri giardini, le nostre piccole metafisiche. Lucifero parla, ammiccando con l'occhio, come fanno, scintillando, gli astri del firmamento: chi vuoi che sia dal regno dei morti ornato e lo venga a dire a te che lo racconti ai porri scientifici della tua bottega? vuoi interrogare un matto? Non sono i dementi i più freschi arrivati dalla oscura valle dove gli dèi, i genii e i morti eroi giocano al poker per passare il tempo? Il pazzo dei tarocchi non ha peli alla lingua: evocalo; vuoi che ti aiuti? Lucifero agita le braccia come due mulinelli, e dirige la sua destra mano verso l'angolo più buio, come vi scagliasse un pizzico di pepe; si sente l'abbaiare di un cane; poi il matto appare, roteando anche lui il bastone da pellegrino: - Oh, vecchi amici di seminario! perché mi volete? perché mi chiamate? ero dietro a seguire un corteo funebre; una donna bellissima è morta, e la gente la piange e ne fa le lodi; stupida gente! S'ella fosse vissuta ancora qualche anno, sarebbe diventata brutta come la più affumicata pignatta; quelli che, viva, non seppero farla felice, la piangono ora che è felice. . Mentre il pazzo parlava, dall'angolo buio si staccava una massa di curiosi che lo avevano seguito: nella possente evocazione a mulinelli magnetici dell'ironico Lucifero, per poco col matto non fu attirato innanzi a noi il funebre corteo della bella: il pubblico rideva.

Lucifero interroga: - E che fa la morta? è più felice ora che da viva? vogliamo sapere che fanno i morti, che cosa è la Morte. Un matto patentato come te, se hai visto e se sai, non avrà paura dei critici e della metafisica, dell'università o del rogo! Che fanno i morti? che cosa è la Morte?

Il matto rivolse al suo seguito un risolino beota, uno dei sogghigni metafisici che non s'inventano, e si accinse alla predicazione. Tutti restarono sospesi, in silenzio, aspettando che egli dicesse. Anche il cane tacque, nell'attesa ansiosa. Solo una stella del firmamento, ironica, rifletteva il malizioso ritmo del portatore di luce.

 

 

1. Sono le tavole degli arcani maggiori dei tarocchi, figure filosofiche che servono ad aprire gli occhi ai quasi ciechi.

2. Le formule magiche, specie quelle che appartengono a riti portuali, sono quasi tutte in possesso della non breve falange degli studiosi; ma le parole potenti non hanno efficacia se non pronunciate con voce giusta e con intonazione propria, vale a dire che, nella bocca le volgari, non hanno valore.

3. Ovidio chiamò la Morte “nutrix maxima curam”, la grande nutrice di affanni; e Varrone disse “nox” proveniente da “nocere” perché nelle ore senza luce, il dolore della pena sono più acuti. Catullo chiamò la Morte “perpetua nox”; e Ovidio l'ignoranza “nox animi”.

4. Da agli uomini il secreto per diventare immortali? Ricordarsi di questo, quando parlerò della Morte nell'alchimia. Delle 14 Parti, Iside non ne trovò che 13. La quattordicesima, il fallo, era stata mangiata da un pesce.

5. Quella che giudicò Galileo e voleva impedire a Colombo di scoprire l'America, era scienza officiale, a quei tempi.

6. Magicis, etiam coeius eum initiaverat (Quintilianus).

7. Ioshua Tres-Marschall, Boston.

8. La poesia della prosaica America di oggi concepisce, con due tendenze (Davidson Ficke e gli imitatori di Whitmann), la visione della vita. «La vita è niente e i sogni sono tutto», dice il primo; «La realtà è il più bello dei sogni», cantano i secondi. Cfr. jean castel in Mercur de Franco, 1898.

9. Citato nella introduzione ad un gruppo di scrittori del XVIII secolo, da Létur.

10. La parola Prometeo, latino Prometeus, contiene la radice math, o med, che è assonante in tutti i vocaboli che contengono l'idea concreta della ragione e della misura: met-omai penso, cogito; med-eri: tener cura, curare, medicare. Mathesis; mathe-maticus; remed-ium. Era il saggio, meditante, prudente, audace: il sapiente di oggi e di tutti i tempi, non iniziato ma civilizzatore, il grande e il semidio vivente.

11. Minerva dieta quod bene moneat. Hanc enim prosapientia pagani ponebant. (Fest. De veterum, etc.).

12. Ora potrebbe aggiungere: ho insegnato loro la fabbricazione dei tossici, dei microbi applicati alla guerra, i sottomarini, il volo nei cieli. Ma è da supporsi benignamente che il male fosse mandato quaggiù dalla malizia degli dei, nello scatole portato in dono di nozze dalla signorina Pandora.

13. Anche qui vedi: Pir, il fuoco; piramide, forma della fiamma dell'olocausto che monta ai cieli. Prometeo trasformò l'olocausto (clos, intero; e kaien, bruciare) che era costituito dalla consumazione, per mezzo del fuoco, dell'intera vittima, in consumazione parziale delle sole ossa, distribuendo la carne ai sacrificatori. Questa dovette parere grande offesa a Giove che, ingannato dalle apparenze, aveva scelto per offerta agli dei la cremazione delle ossa.

14. Le due colonne del tempio nel binomio dei due contrari di luce e d'ombra, sono inamovibili. La visione non è possibile se la luce non è temperata dall'ombra. Il bene esiste in rapporto al male; il dolce, dell'amaro; l'uomo non può confondere i termini in contraddizione; non può neanche pensarli uniti; appresso ne parleremo, nella concezione d'un regno degli spiriti alla maniera dei mistici.

15. Dhorm. Choix de textes assiro babiloniens. P. 3 e 5. L'Apsu era l'abisso delle acque sulle quali Ea signoreggiava. (contenau, La civilisation ass-bab.). Il Delaporte (La mésopotamie) traduce Apsu per l'oceano delle acque dolci che circonda la terra, e il Tiatnat il mare, l'oceano delle acque salse.

16. Il lettore acuto legga bene. Il cielo, la terra e gli dei non erano nominati, cioè non avevano nome, la creazione non era avvenuta, perché la parola, che indicava la cosa, il nome, il verbo creatore, non era stata pronunziata.

17. Istar possedeva tutte le facce: bellezza, amore casto, lascivo, crudele, materno. In Assiria perfino dea guerriera, perché alla donna, fino dai più lontani tempi, fu riconosciuto quello spirito bellicoso che la rende così amabile.

18. La cavità cranica dell'uomo, in quella anatomia ineffabile dei poeti, è una grotta di stalattiti e di stalagmiti che variano in lunghezza e grossezza in ogni individuo. La psiche è una farfallina che vi abita e vi si diverte. Gli uomini sapienti spesso non vanno d'accordo perché la esuberanza stalattitica degli uni non coincide con la povertà stalagmitica degli altri. Di questa roba si è avvantaggiato il filosofo, e son venute fuori tante dottrine psicologiche che aspettano di diventare adulte e laudabili.

19. Che cosa sia quest' «acqua di vita», nessun assirologo ha potuto sapere.

20. Ma nella ricerca di etimologie di parole di senso nascosto, specie se riguardano cose attinenti ai misteri religiosi o alle antiche mitologie settarie, bisogna andar cauti. In Greco brotos è mortale e antobros è immortale. Ambrosia è bevanda che bevono gli dèi, o nettare che dà l'immortalità?

 


 

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