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Forse a qualcuno potrà sembrare che i due racconti che ho scelti si prestino meno di altri alle considerazioni che vorrei fare, ma si tratta, senza dubbio, di racconti fra i più popolari e di più facile percezione. Né d'altronde, pretendo trattare di Bibbia e di simbolismo, che è argomento su cui cimentarsi è albagia che io certo non avanzo nemmeno entro i limiti, che non sarebbero certo modesti, di citare i nomi e le opere di coloro che varrebbe la pena di consultare. E ciò anche perché credo che meglio s'addica alla Bibbia l'accostamento del termine simbolo che quello di simbolismo che implica un processo, anche se non genericamente degenerativo, o comunque una strutturazione quasi discinlinare comune a tutti i derivati da parole che indicano concetti a cui si intende voler associare studi o comportamenti. Non sono pochi coloro che ritengono che il racconto della Torre di Babele non abbia alcun valore simbolico nel senso che viene generalmente attribuito a questo aggettivo nelle scienze cosiddette tradizionali. Potrebbero, al più, comodamente catalogarlo fra le allegorie o, forse osando oltre i limiti, considerano una particolare manifestazioni onirica, se non collettiva, almeno somma di esperienze individuali, atteso che i sogni altro non siano che costruzioni di desideri più o meno inconsci. E non v'ha dubbio che la scalata al cielo è, fra i desideri, il più impellente per la collettività comunque intesa, anche se vi è certezza che non sarebbero certamente uniformi le intenzioni dei singoli individui che avessero la fortuna di raggiungere la meta. Ma, nel racconto, vien punito il desiderio in se, senza far distinzione fra le intenzioni di coloro che ambiscono realizzarlo. La punizione priva l'uomo di quella che è la sua caratteristica peculiare, cioè la parola, sia pur intesa secondo la accezione utilitaristica di modo di comunicare fra simili. Fra i commentatori più sofisticati vi è chi ha visto nella Torre di Babele una costruzione allegorica di Uomini, in possesso del mezzo per comunicare con la Divinità, cioè che conoscevano il Nome ineffabile di Dio, che avrebbero inteso servirsene per usurparne le prerogative. Da ciò il castigo di non poter, non solo più comunicare con la Divinità, ma nemmeno più fra loro. Una ulteriore perdita dello stato edenico, più o meno. La Torre di Babele, in quanto misterio, non è comune a tutte le razze ed a tutti i popoli. A voler cercarlo a tutti i costi, qualcosa si potrebbe trovare nelle teogonie e teomachie di altre civiltà, ma sarebbe, in tal caso, misterio alienato, nel senso che non riguarda gli uomini ma entità superiori, anco se antropomorficamente rappresentate. Il rapporto diretto Dio-Uomo è infatti prerogativa delle società monoteistiche e, quasi per assurdo, delle teorie antroposofiche che, seppur prive, almeno nei presupposti non inquinati, del Principale dei Protagonisti, si sviluppano considerandone l'immanenza, per quanto astratta, sino a confondersi con la fatalità, ma pur necessaria. Non così esattamente per il diluvio. Non esiste infatti etnologo che non si sia preoccupato di dimostrare che il racconto del Diluvio universale apparteneva al patrimonio culturale del popolo su cui ha indagato. Sulla storia del Diluvio è possibile consultare la sezione dedicata:
I Diluvi A dimostrazione avvenuta, le conclusioni, a volte, sono state difformi, per quanto assimilabili in due sole categorie e cioè: tutti i popoli provengono da un comune ceppo che ha subìto, in una data epoca, il Diluvio: oppure, il Diluvio è stato realmente universale e, conseguentemente, tutti ne conservano il ricordo. Per la psicoanalisi, il fatto è di relativa importanza; corrisponde, in qualche modo, al desiderio-terrore di ritorno allo stato primordiale, rappresentando le acque e l'individuale seno materno e, per il collettivo, lo stato iniziale da cui ha tratto origine la vita. Nell'uno e nell'altro caso lo stato confusionale, caotico.
In quasi tutti i cerimoniali iniziatici, compresi quelli collettivi di cui si servono le religioni organizzate, il rito è sempre preceduto da una abluzione o da una immersione o, comunque, da qualcosa che ha a che vedere con l'elemento fluido. Il simbolismo è evidente, tanto secondo l'accezione corrente del termine, quanto secondo l'interpretazione corretta. Meno evidenti sono forse le cause che determinano, in senso storico, il Diluvio Universale, anche perché esse variano da popolo a popolo, mentre vi è una certa uniformità di effetti nel senso che, dopo il Diluvio, o dal Diluvio, nasce una nuova serie di Uomini che genera l'umanità attuale. Siano essi uomini nati dalle acque o dai sassi fecondati o purificati dalle acque, oppure, secondo la più sofisticata tradizione biblica, da un unico progenitore salvato dalle acque - il discorso si ripresenterà poi sotto altro aspetto per il Mosè ed anche per il Cristo - ha poca importanza in questa sede ma enorme a proposito di altre considerazioni che si potrebbero fare. Secondo la tradizione biblica, la causa del Diluvio sarebbe da ricercarsi nella degenerazioni degli uomini che avrebbero assunto un comportamento bestiale - vedi anche il mito di Atlantide la cui scomparsa sarebbe stata provocata dalla bestialità dei suoi abitanti - e dalla conseguente necessità di purificare la razza o di punirla. Come abbiamo premesso, per quanto oggetto di elucubrazioni più o meno sofisticate, questi due elementi della tradizione, cioè la scalata al Cielo ed il Diluvio, anche per la loro popolarità, si prestano ad immediata percezione. Non sono però di immediata percezione i motivi o le cause del loro innesto - sempre che di innesto si tratti e non di identificazione di componente essenziale, come alcuni sostengono - nella simbologia muratoria, a meno di non volersi abbandonare, per quanto attiene la Torre di Babele, ad esempio, a considerazioni su presunte analogie fra la costruzione della Torre e quella del Tempio di Salomone, atteso che l'una e l'altro sono opere dell'arte edificatoria parimenti intese al contatto con la Divinità. Una tal considerazione non collimerebbe, ovviamente, altro che nei tratti essenziali, ma pur sempre meramente meccanici, con l'ipotesi che vuole la simbologia della costruzione della Torre derivata dal racconto mitologico del tentativo della scalata al Cielo dei Giganti. Si obietta anche che, mentre la Torre rappresenta un conato di aggressione violenta al Cielo, la edificazione del Tempio sarebbe invece testimonianza di devozione; ma bisogna invero far riferimento all'epoca a cui i fatti vengono attribuiti e, quindi, al carattere dei personaggi. Storicamente, non abbiamo testimonianze sicure intese a provare che tutti gli accadimenti a cui si allude non siano coevi, nel senso che, sia pur riferiti a diverse epoche precedenti della preistoria o, se vogliamo, anche della storia, non siano stati redatti unitariamente. Il quesito, in questo caso, è un altro: che cosa si è inteso produrre? Una storia di un popolo o della intiera umanità in senso evolutivo, oppure si e voluto tratteggiare, cioè descrivere, il prototipo di un uomo in cui ognuno avrebbe potuto riconoscersi e della cui storia conservasse nell'inconscio le stigmate da cui prorompono i desideri? Dirò per inciso che, per quanto attiene l'evoluzione non ha importanza, nel caso, il segno della stessa, cioè se verso il miglioramento o la degenerazione, perché non è escluso che ad ogni acquisizione faccia riscontro una perdita in altro campo o su altro piano esistenziale. Anche da questo inciso, comunque, vorrei ipotizzare che la Libera Muratoria, nell'acquisire questa ed altre narrazioni bibliche fino a considerare la Bibbia intiera la Prima Luce della Loggia, abbia inteso, non a prolungare una narrazione storica, ma rifarsi a quel simbolismo che, più che apparire dai fatti e precetti, si sviluppa nell'intima essenza degli stessi unendo il razionale al metafisico nel conscio e nell'inconscio degli individui. Ma val forse precisare ciò che dovrebbe intendersi o che intendiamo per simbolismo anche a costo di attardarci in pedantesche digressioni. Usiamo spesso, mutuandolo in certo qual modo dal linguaggio di laboratorio, del termine analisi quasi in opposizione a quello di sintesi. Sappiamo che la proposizione non è esatta e nemmeno, vorrei dire, bisticciando con le parole, proponibile; e per molti versi. Sintesi infatti è unione, ma è un concetto statico; descrive uno stato raggiunto od ipotetico; non è il processo - anche se usiamo a volte correntemente l'espressione «processo di sintesi» - atto a stabilire l'unione. Analisi invece è un concetto dinamico e, più che descrivere il processo di divisione, sottintende l'opera di identificazione dei componenti. Atteso quindi che l'opposto di sintesi non può essere analisi, notiamo che non può nemmeno essere dispersione che è ancora concetto dinamico e non stato raggiunto. Ma se sintesi è il tutto, il suo opposto potrebbe essere il nulla. Ovvio che una tal definizione sarebbe più dialettica che razionale. Gli antichi, che consideravano più la logica che la ragione, opponevano alla sintesi la diade, essendo il due infatti l'opposto dell'unità e non i successivi frazionamenti che, al limite, potrebbero ricostituirla. Ciò per quanto attiene la sintesi. Simbolo invece è un concetto dinamico. Significa, più o meno, lancio insieme. È un processo che conduce alla sintesi, all'unione. Il suo opposto è il diavolo, cioè lancio, muovo, spezzo in due. Quindi, se mi è lecito peccar di pedanteria, abbiamo sintesi in opposizione a diade e simbolo in opposizione a diavolo. La seconda proposizione è ammissibile perché, almeno secondo una interpretazione razionale, produce un gioco di forze di cui l'una, il simbolo, tende ad unire e l'altra, il diavolo, a dividere. La prima, come abbiamo visto, non è concepibile, tranne che sul piano dialettico, e quindi, più o meno, come funzione strumentale, in quanto la sintesi esclude, per definizione, qualsiasi cosa che sia al di fuori di sé medesima ed, a maggior ragione, un suo ipotetico opposto. Credo pertanto di poter escludere, per il valore che hanno le parole, la compatibilità della dialettica col lavoro simbolico. Su questo piano, la dialettica appartiene al diabolico. Notiamo, per contro, che il termine simbolo ha assunto, nel linguaggio corrente, vari e difformi ed a volte contrastanti significati. Lo troviamo inizialmente associato a quello di moneta spezzata e riunita; poi inteso a descriverne il processo. In seguito, a rappresentare altriprocessi. Si potrebbe dire che vien usato per descrivere l'unione come fase dinamica di componimento. Non credo valga la pena di considerare altri significati che, ancorché correntemente accettati, appartengono ad altri termini quali segno, distintivo, allegoria od altro. Ammettiamo, più che altro come ipotesi esemplificativa, l'accezione di simbolo quale valore di una espressione o di un concetto ineffabile. Proponendo una figura od un segno a persone di differente lingua, ognuna di queste persone chiamerà in modo differente quella figura o quel segno e tutti intenderanno la medesima cosa. Credo sia questo un esempio, sia pur al livello più basso, meccanico, vorrei dire, di lavoro simbolico. Quel segno ha, infatti, unite persone che non sarebbero riuscite ad unirsi usando il linguaggio comune. Ma varrà ritornare alla moneta spezzata: il membro del clan a cui veniva consegnata poteva trasmetterla di generazione in generazione, sicché, coloro ai quali veniva presentata, erano gli eredi di quelli che l'avevano consegnata. L'unione delle due porzioni di moneta, non era un mero tramite di riconoscimento, ma un ristabilimento dell'antico rapporto, la riunione dei due nuovi clans con tutte le loro caratteristiche peculiari e storiche, cioè quelle comuni e antecedenti la divisione e quelle particolari sviluppatesi o concretizzatesi dopo la separazione. Il valore simbolico di quei due spezzoni di moneta è evidente. Resterebbe semmai da stabilire se è stata compiuta azione diabolica nello spezzare la moneta ed io credo che, anche all'apparenza, potremmo negarlo, atteso che il fine che ci si proponeva era proprio l'opposto, cioè quello di ristabilire l'unione. Identificato comunque il valore delle parole - e per valore non alludo al solo etimo - mi sembra ozioso insistere nel produrre esempi che possono solamente sostituire il certo con l'approssimativo. Su questo piano si addice alla Bibbia, non l'aggettivo, ma l'epiteto o l'attributo, espresso dalla parola Simbolo. L'intero piano dell'opera - ci si perdoni l'espressione dissacrante - è informato infatti al concetto di Simbolo e il Simbolo è Salvezza, almeno nel caso. Il racconto si snoda in una serie di fatti ed episodi denuncianti tutti la medesima caratteristica del racconto principale. Cosi dal Sublime, cioè l'Unità che si estrinseca nella Creazione originando la Diade, fino all'aspetto, sia pur essenziale, più tattile cioè della estrazione della femmina dall'uomo. E come il maschio è destinato all'unione nella femmina, analogicamente la funzione della Creazione sarebbe il suo annullamento nella Volizione del Creatore. Se ne evincerebbe una ipoteca diabolica su tutto l'insieme, atteso che, sin dagli inizi, e costantemente, spirito e materia quasi si contrappongono o, comunque, costituiscono le corna del processo dialettico mentre la funzione simbolica, coincidente con la salvazione, appare differita nel fine escatologico. Da qui anche la giustificazione demiurgica che svincola, in certo qual modo, la Parola, o Volizione, od altro che dir si voglia, da ogni interpretazione razionale. Sarebbe il Demiurgo, infatti, il Protagonista della Bibbia, l'Urizen di William Blake, il Creatore che protende il braccio sinistro colle due enormi dita appuntite rappresentate dalle punte di un compasso. Da qui a pervenire al terzo racconto, a cui ho fatto inizialmente cenno, il passo non è poi tanto dissacrante e blasfemo come può per altro verso apparire. È l'episodio della tumulazione del Cristo, il compimento del Fine. Non è la rivincita degli Uomini sulla Divinità ma la conclusione del racconto, la riunione delle parti della moneta spezzata, la risoluzione di un enigma che la ragione non poteva aiutare a risolvere, ma che troverebbe riscontro nella logica. Atteso che i tre racconti che ci interessano, giuste le premesse iniziali, sono il Diluvio, la Torre ed il Sepolcro, conviene cercare di evidenziarne i tratti che potrebbero giustificare quella che può anche essere una assurda ipotesi; non però trascurando quanto esiste a monte del tutto e cioè la descrizione delle due Creazione dell'Uomo di cui hanno ampiamente trattato tutti gli esegeti della Bibbia, ed in ispecie coloro che si son dedicati all'antroposofia ed alla teosofia. Secondo alcuni di questi esegeti, il primo Uomo, cioè quello fatto ad immagine e somiglianza di Dio, maschio e femmina insieme e Signore di tutta la Creazione, potrebbe anche identificarsi col Demiurgo, artefice della seconda Creazione, cioè del Mondo conflittuale bisessuato. Per altri è Iddio-gli-Dei l'Autore della prima Creazione, perfetta, senza condizioni ne remore, ove «ciò che sta in Alto è come ciò che sta in basso». Sarebbe stata questa la Creazione perfetta, scevra da conflittualità. La seconda consisterebbe quindi in una realizzazione difettosa dell'Idea e sarebbe, presumibilmente, non opera diretta di Iddio-gli-Dei, ma della sua Controfigura. L'Uomo vien costruito con terra, materia bruta; col soffio divino, o comunque spirituale, entrerebbe in lui anche la conflittualità. L'idea dell'androgino si concretizza quindi su un piano inferiore con l'unione dei due sessi e, contestualmente, gli viene imposta la prima proibizione a cui l'Adamo, fiducioso del soffio che ha ricevuto, non potrà che opporre la prima disobbedienza. Sull'Androgino è possibile consultare in questa stessa sezione:
L'Androgino Ermetico La conflittualità di tutta l'opera «Bibbia», sia pur riprodotta e dispersa in tanti episodi e con tanti comprimari, si concretizza in una continua lotta fra la Divinità e gli Uomini che, costantemente subiscono la provocazione e vengono sistematicamente sconfitti e puniti. Solo allorché il Dio - Demiurgo o Satana che sia - si farà Uomo, questi potranno vincerlo e chiudere la partita per ricominciare tutto il processo interrotto dall'Errore - secondo i Cristiani dalla colpa di Adamo - e liberi da ogni ipoteca.
Questo concetto che ho cercato maldestramente di esporre, è stato, forse ancora più maldestramente sfruttato, dopo Blake, tanto dai suoi epigoni come dai loro detrattori e torse male inteso in Hegel come in Niietzsche. Si dirà, e certo a ragione, che il problema è stato però magistralmente inquadrato dai cosiddetti cristiani-radicali; ma tutto il loro assunto, per me - mi si perdoni - è viziato da intellettualismo, almeno per quanto riguarda l'opera dei teologi, più o meno kenotologi che siano. Il neo-cristianesimo-radicale, a mio avviso, denuncia lo stesso vizio iniziale del criticismo-sociologico e delle teorie marxiane in economia; parte cioè dal presupposto, non dimostrato e non dimostrabile, che tutti gli individui siano uguali, non nel senso che abbiano i medesimi diritti, ma che abbiano le medesime esigenze e vivano spiritualmente e materialmente nelle stesse condizioni; e ciò senza rendersi conto, o comunque fingendo di non rendersi conto, di tentare la più grossolana impresa di colonizzazione mai tentata e di fronte alla quale la storia delle Crociate e degli Imperi coloniali vari altro non sono che cronache di provincia. E non credo che, anche e qualora questa unità di finzioni dialettiche fosse realizzabile, svuotando di significato persino il concetto di Dio, essa avrebbe identico significato per tutti, nel senso che anche Unità ha significato diverso nel pensiero orientale rispetto a quello che consideriamo occidentale; e ciò, forse, più che per una differenza culturale, proprio per una differenza strutturale, fisica vorrei dire, degli organi di pensiero, siano essi localizzati solo nel cervello o nel cervello ed altrove. Ora, ho arditamente, e magari secondo altri anche inopinatamente, asserito che i tre racconti, al pari di tanti altri, sono stati acquisiti dalla Tradizione massonica. Ho anche premesso che ho scelto quei tre racconti perché mi sembravano di più facile accesso e di più evidente universalità. Per restare nei limiti dell'economia della trattazione, non posso abbandonarmi ad una più particolareggiata analisi e fido pertanto nella collaborazione speculativa di chi ha avuta la bontà di seguirmi. Tuttavia, pur senza concludere, cercherò di riassumere. È chiaro che, col Diluvio, l'uomo intende purificarsi di tutte le sue colpe, del suo comportamento animalesco e del resto. Il fatto, come abbiamo notato, si ripete ad ogni iniziazione, sia individuale che collettiva, tanto a livello razionale come subliminale. Ma l'uomo purificato non sarà libero. Seppur svincolato dal Passato come colpa, sarà pur sempre soggetto alla Potestà alienata, alla convinzione pregiudiziale di soggiacere ad Altri per patto non liberamente contratto. Paragonare tale stato a quello dell'Apprendista in Loggia sarebbe certo peccare di semplicismo e di faciloneria. Non altrettanto però nell'invitare a riflettere sulla possibilità che esista una analogia fra i due stati. Col tentativo di Scalata al Cielo, l'Uomo compie una azione intesa a contattare la Potestà alienata di cui ha coscienza e che, proprio perché alienata, sente ostile. Ha forse valore che si serva, per questa impresa, proprio degli istrumenti che gli fornisce la Ragione; se Iddio non è in noi ma nel Cielo, è il Cielo che bisogna raggiungere per ristabilire l'Unità. Ma l'impresa è impossibile perché non è della materia trasmutarsi in Ispirito. E la Potestà, ancora una volta, punisce il tentativo. Risultano inutili gli organi dei sensi, gli ordini architettonici, le arti e la mediazione dei Profeti. I Templi, infatti, non riescono ad imprigionare la Divinità, né i loro gradini a salire verso il Cielo. Più che della conflittualità, è il tempo della incomunicabilità. La pena infatti è la perdita, non della Parola che è già perduta o che non è mai stata recepita - il Soffio sarebbe stato vitalizzante solo in senso temporale e quindi materiale - ma di quel senso con cui gli uomini, al pari di molti altri animali, comunicavano fra loro ed a cui avrebbero anteposto il raziocinio. La posizione, lo stato, è quello di chi deve meditare ed attendere l'evento cosmico, anche sul piano individuale. Se qualcuno vuol fare illazioni sulla analogia di tale stato con un qualunque stadio - mi si perdoni l'espressione inadatta - di iniziazione, non credo sia da incoraggiare, ma nemmeno tentar di dissuadere. Ho innanzi accennato alle difformità ed alle difformi esigenze tra individuo ed individuo, tra popolo e popolo, tra razza e razza e, se pur anco della medesima razza, tra elementi maturatisi in diverse condizioni di ambiente. È facile osservare come ognuno aspiri all'immortalità, ma non è altrettanto facile rilevare in qual modo vi aspiri e, soprattutto constatare a quale stato egli aspiri, perché non varranno certo le elucubrazioni di tanti orientalisti, maturatisi all'ombra della torre Eiffel, per dimostrare che il Regno di Allah corrisponde al Nirvana. Quello che è certamente vero è che ognuno aspira a morire, anche se è convinto di anelare al differimento del realizzarsi della sua aspirazione. L'interpretazione di questo stato apparentemente contraddittorio spetta, ovviamente, alla psicologia. L'iniziazione classica si propone di ovviare a questa contraddizione, non di interpretarla. La sua funzione è quella infatti di offrire, attraverso una volontaria mortificazione, che non è morte reale, l'accesso ad una immortalità ipotetica. L'uomo permane comunque in uno stato di transizione e, solo dopo il trapasso, entrerà fra gli immortali. La prerogativa è dei pochi, siano questi Eroi, Iniziati, Sacerdoti, o, sia pur per tarda contraddizione con la paganizzazione del Cristianesimo, i Santi. Col Cristianesimo infatti, l'immortalità è alla portata di tutti coloro che la desiderano, atteso che anche il desiderio può surrogare la pratica cerimoniale. E ciò in conseguenza di un evento di portata universale. Ora, se l'evento cosmico atteso è da identificarsi con l'invenzione o rinvenimento della Parola, il discorso, ovviamente deve procedere su tutta altra strada anche se è necessariamente obbligato alla medesima meta. Ma se l'invenzione è contestuale all'incarnazione o, forse più propriamente, se deve intendersi per Invenzione della Parola, Incarnazione del Verbo e questa prodromo al Sacrificio, come si volle interpretare che fosse scritto, allora l'evento cosmico atteso è la morte di Dio e la sua tumulazione ad opera dell'Uomo. I cosiddetti teologi dell'ateismo parlano, a questo punto, di kenosi, autosvuotamento della Divinità ed avvento del Cristo dell'Uomo. A me sembra che se ne possa trarre solo un insegnamento morale nel senso che con la morte di Dio, nella veste di Demiurgo o Urizen, cessa il tempo della conflittualità. Non mi sembra però estraneo al discorso un invito a riflettere sullo aspetto perlomeno insolito, che verrebbe ad assumere, alla luce di tali considerazioni, la cerimonia di iniziazione al Grado di Maestro. Se, come qualcuno ha visto, la cerimonia altro non sarebbe che un tentativo di parodiare, sia pur con mascheramenti, il dramma della Croce, dobbiamo convenire che un tale aspetto denuncerebbe perlomeno una sconcertante originalità nei confronti della tradizione classica ed anche, ovviamente, nei confronti delle iniziazioni tribali. In questa ed in quelle è l'iniziando che viene mortificato a fine soteriologico, se non catartico; vengono uccisi in lui le passioni ed i vizi, cosa che, praticata da Cristiani, sarebbe senza alcun apparente significato e quindi da assoggettarsi a quelle censure che i massoni, come cristiani, respingevano. In quello che vien chiamato psicodramma dell'iniziazione a Maestro, i vizi e le passioni non vengono tolti al sacrificato ma sono gli agenti del sacrificio. Il sacrificato è l'innocente. Il ricondurre tutto il discorso alla predica morale, implica infatti una distorsione dell'essenza del discorso. Altrettanto semplicistico, per quanto dicemmo, ci sembra il considerare l'iniziazione massonica un tentativo di rinverdire le iniziazioni precristiane od una derivazione dalle stesse già surrogate nel cristianesimo da una semplice abluzione nel Giordano, vademecum per passare dal regno delle ombre - il limbo - a quello dell'Eternità. Ma se è la morte e tumulazione dell'innocente, per quanto identificato nel favoloso Hiram Abif, che si intende celebrare, allora il misterio non sarebbe nemmeno paragonabile alla iniziazione classica ma qualcosa di diverso che darebbe un significato alle altre ragioni a noi note di cui si parla in una delle tante scomuniche a cui tutti, chi per un verso o per l'altro, si son sempre rifatti per parlar, male o bene, della Massoneria. Considerando che la prima scomunica è seguita, non alla istituzionalizzazione dell'Ordine, ma a quella del Grado di Maestro ed alla adozione della Cerimonia della morte di Hiram, non è escluso che l'atteggiamento della Chiesa di Roma sia in parte attribuibile al sospetto balenato ad un Papa che nella terra della Albione eli Blake fosse per nascere un nuovo sistema di religione cristiana che celebrasse misteri analoghi a quelli della messa. E può anche essere che, per altro verso, analoghe considerazioni siano state fatte dai cosiddetti atei - era facile allora considerarsi atei più di quanto sia oggi considerarsi credenti - che si sono associati alla Massoneria. È comunque unanimemente ammesso che sia sempre esistita in Massoneria una componente antroposofica, almeno in senso lato, e certo prima che fosse codificata in disciplina o in setta misteriosofica. Non mancò inoltre chi, sia dagli inizi, sostenne, non smentito, che la Massoneria, pur proclamandosi cristiana, è la Scienza e la Religione dell'Uomo. L'umanizzazione del mistero del Golgota, svincolato, in omaggio alla tolleranza, da ogni ipoteca storica, esalterebbe nello psicodramma di Hiram Abif, la possibilità di universale fruizione del messaggio dell'evento cosmico, confluito nella Libera Muratoria, attraverso i secoli, dai mille rivoli delle Confraternite e delle Società tradizionali. E ciò giustificherebbe anche su un piano, che, tanto per intenderci, definiremo tattile, la partecipazione dei non-cristiani ad un mistero che storicamente è ritenuto, per definizione, materia di fede ma che i Liberi Muratori considerano peculiare dell'intiera umanità. Ritornando alle premesse, pur senza nulla voler concludere perché anche poco, e quel poco fugacemente, abbiamo esaminato, ne scaturisce, mi sembra, un impegno, specie nel grado di Maestro, a dedicare sempre più conveniente attenzione al valore dei Simboli, ed in ispecie a quelli che la consuetudine-intenzionalmente ho evitato il termine Tradizione che, nel caso, sarebbe forse più che pertinente - cataloga come Luci della Loggia, cioè la Squadra, il Compasso ed il Libro della Sacra Legge che, con poca convinzione, alcuni van ripetendo essere surrogabile con differenti testi che, pur sacri per movimenti ed organizzazioni religiose, non son ritenuti, dagli adepti alle stesse, altro che libri storici o raccolta di precetti morali, sia pur intesi a guidare alla salvazione. La Bibbia, per contro, sarebbe di per se stessa istrumento di salvazione, e ciò anche per coloro che sono maturati in ambiente estraneo alla cultura giudeo-cristiana, rappresentando, essendo, il Simbolo per eccellenza cioè la dinamica dell'integrazione dell'Unità nella Totalità. Il termine volontà rivelata esplicitamente attribuito al messaggio biblico da alcune Comunioni massoniche, non sarebbe da intendersi qual lo intendono le religioni, cioè exotericamente, ma nel suo significato esoterico. E non possiamo non ricordare Rodolfo Steiner quando parla delle traduzioni di Euclide: provate a far tradurre Euclide ad uno che pur conoscendo il greco non conosca la matematica, e vedrete quale effetto ne scaturirà. Ma le religioni organizzate, spesso, hanno fatto tradurre i loro testi dai letterati e, quando non sono riuscite ad inquinarli o pervertirli per servire a situazioni contingenti, ne hanno ottenuto dei lavori poetici. Ciò anche giustificherebbe coloro che vedono la Bibbia solo nelle sue apparenze, esaltanti presunte intenzioni dialettiche o mascheranti il fine soteriologico nella precettistica morale. Una tal limitazione priverebbe di significato la sua presenza sull'Ara del Tempio essendo la morale massonica non esattamente collimante con la precettistica di una religione particolare. La giustificazione, anzi l'essenza, della sua presenza sotto la Squadra ed il Compasso implica la considerazione di un riconoscimento, anche se non a livello percettibile, di un messaggio che alcuni chiamano esoterismo della Bibbia, quel messaggio che comporta il superamento della conflittualità anche sul piano tattile, per cui l'Uomo, chiamato Israel, chiamerà se stesso Immanuel.
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