Col
Solstizio d’estate - Pitr-yana, porta o via degli uomini - l’iniziato
celebra la discesa dell’anima sulla terra - mentre, col Solstizio d’inverno
- Deva-vana, porta o via degli dei - ne celebra la risalita al cielo.
Il simbolismo solstiziale, come quello equinoziale, è pregnante di
significato e si perde nella notte dei tempi. Custode delle due porte, oltre
che dei templi e delle Domus, come imagines mundi, era, in Roma, Giano
bifronte, che teneva nella mano destra una chiave d’oro e nella sinistra una
d’argento. Egli era, ancora, l’iniziatore ai Misteri e il patrono del
Collegia Fabrorum.
Nel Cristianesimo, che, non a caso, celebra il Natale il 25 dicembre, è
Cristo raffigurato con una chiave nella destra e uno scettro nella sinistra,
oltre che col simbolo alchemico o, per significare il potere spirituale
l’una e il potere temporale l’altro. Anche i due San Giovanni, pur se
leggermente spostati rispetto ai solstizi, il Battista, janua terrae, il 24
giugno e l’Evangelista, janua coeli, il 27 dicembre, indicanti,
rispettivamente, il sole decrescente e il sole crescente, prendono il posto
di Giano. Il Battista, inoltre, indica l’ingresso ai Piccoli Misteri e
l’Evangelista, ai Grandi Misteri.
L’iniziato non è smarrito, né sgomento, per un ciclo che si chiude e per un
ignoto che si apre, perché è sorretto dalla ragione, dalla volontà e dalla
fede e, certo della sua capacità di riscatto, mutua dalla natura l’umiltà,
la tolleranza e la benevolenza e le veicola in luce, amore e vita. Anche la
stessa morte, come qualsiasi cosa contingente, non gli fa paura, perché ha
la coscienza della liberazione e della rinascita.
Il suo Lavoro mira a scavare oscure e profonde prigioni al vizio attraverso
un’intensa pratica magico-alchemica, che lo porta a capire e a vivere il
mistero della vita nei suoi rapporti col Cosmo e con Dio, ed è estremamente
significativo che i suoi Lavori inizino o riprendano a mezzogiorno e
finiscano o siano sospesi a mezzanotte, mentre quelli funebri iniziano a
mezzanotte e finiscono a mezzogiorno. La mezzanotte, oltre che l’estrema
vecchiaia o la morte fisica, simboleggia la Suprema Iniziazione alla vera
libertà e alla vera vita o via degli dei per nuovi e più profondi destini.
Nel rito funebre dei Veda era costume cancellare le orme affinché il morto
non tornasse tra i vivi. È un atto che dovrebbe essere compiuto al Rito
dell’Iniziazione, se lo intendiamo secondo le civiltà tradizionali,
un’operazione dagli effetti reali capace tanto di ravvivare i contatti col
mondo trascendente quanto d’imporsi alle forze sovrasensibili per
determinare effetti su quelli naturali. Il rito, infatti, presuppone sia la
conoscenza di certe leggi segrete quanto il possesso di un’energia, un
fluido, una forza magica non umana. Nei testi brahmana è, infatti detto:
“Chi conosce e pratica l’azione rituale risorge in vita ed ottiene vita
immortale: gli altri che non conoscono e non praticano l’azione rituale
rinasceranno sempre di nuovo, come nutrimento della morte”.
Bisogna convenire che l’iniziato ha subìto, non vissuto il Rito
dell’Iniziazione.
Al Solstizio d’inverno egli deve richiamare quel V.I.T.R.I.O.L., letto
inconsciamente nel Gabinetto di Riflessione, scendere nel profondo di se
stesso ed operare una catarsi preliminare, un opus purgationis, per accedere
ad una certezza, che sia radicata su una reale conoscenza ed assimilata
analogicamente ad un vedere. Il saggio non segue sistemi, non conosce dogmi,
ma, avendo penetrato la Vita oltre la vita, realizza la sua impassibilità
dinanzi agli eventi che scorrono davanti a lui.
Egli sa benissimo che è impossibile o, almeno, estremamente pericoloso
approdare al Palazzo del Re saltando i quattro yuga, ma non deve essere
travolto il mondo del divenire, il panta rei deve lasciarlo ad Eraclito e
cogliere l’Incondizionato che è oltre i fenomeni, oltre il nome e forma in
cui ritiene di essere: “Chi beve di quest’acqua, è detto, infatti, nel
Vangelo di Giovanni, avrà sempre di nuovo sete. Ma chi beve l’acqua che io
gli darò, quegli non avrà più sete, anzi quest’acqua si trasformerà in una
sorgente saliente in vita eterna”.
L’arsura cresce tanto quanto sembra placarla il soddisfacimento, così come
il fuoco, che la brama della volontà fa sprigionare in questo o in quel
contatto, divampa sempre più mentre si appaga e si consuma. L’iniziato si
libera dell’ignoranza e imbocca la via che conduce all’ulteriore sviluppo
fino ad acquistare piena coscienza dell’Io, superando gli elementi quae
fingit animus. E la mente, infatti, che inganna l’uomo, indirizza,
dirige e determina la sua sorte a seconda dello stato coscienziale, perché
proprio nell’uomo, munito di percezione e di coscienza, è compreso il mondo,
il suo sorgere. la sua vita, la sua fine e la via che conduce a questa, dove
non vi è nascita, né decadenza, né morte, né sorgere, né perire. Il nostro
stato, infatti, è il risultato dei nostri pensieri e ne sono essi il
fondamento e la materia.
Il tempo è propizio. In questo periodo, il seme interrato si prepara a
germogliare, a crescere ed a fruttificare. Il seme, infatti, è la coscienza,
la terra il karma e l’acqua, che sviluppa il seme in pianta. la sete della
verità.
Egli, pur non incarnando discese eccezionali, fatidiche, può e deve
distruggere la nascita. la decadenza e la morte; omnia orta, infatti,
occidunt et aucta senescunt. Non deve, però, percorrere la via orizzontale,
piana, ma quella verticale, dopo aver individuato qual è la sua vocazione e
misurato le sue forze: no milk for babies, è detto.
Deve fare come il loto, che, germogliato nella putrida terra del pantano ne
attraversa le acque limacciose e, pervenuto all’aria pura, apre la sua
corolla al sole. Deve percorrere la strada articolandosi nei quattro yuga;
solo allora potrà dire col principe Siddharta: “Ho visto la via antica,
la vecchia via calcata da tutti i Perfetti di un tempo; questo è il sentiero
che io seguo”.
L’iniziato non deve essere attratto dallo spirito tellurico che considera
naturale una cupa immedesimazione nel divenire e nelle sue forze senza
avvertirne la tragicità; non deve essere attratto dallo spirito dionisiaco
che, considerando l’impermanenza universale, afferma il carpe diem, la
gioia, l’ebbrezza legata all’attimo fuggente in quanto di doman non v’è
certezza; non deve essere attratto dallo spinto lunare che, travagliato
dalla contingenza dell’esistenza, la vede come espiazione o prova da vivere
con rassegnazione pur con la fiducia nell’impenetrabile volontà divina, ma
deve essere attratto dallo spirito faustiano, titanico, nietzschiano, la
razza eroica, che, pur auspicando l’eterno ritorno, lo considera un dovere
che va compiuto, come Cristo in Croce sul Golgota, ed esclamare con Plotino:
“Non essere un uomo dabbene, ma divenire un dio, questo è lo scopo”.
La sua non è non può essere un’ascesi mistica, legata all’idea di
mortificazione della carne o di rinuncia al mondo, ma, piuttosto, una
disciplina, un esercizio, teso a dominare tutte le forze dell’essere umano
ed indirizzarle, più che alla realizzazione spirituale, alla trasmutazione.
L’ascesi, da non confondere con la moralità, è, dunque, un insieme di metodi
volti alla produzione di quella forza interiore, che, associata alla
conoscenza, conduce alla Grande Liberazione, partendo dal presupposto che “una
è l’arte, una la materia, uno il crogiuolo”, l’athanor. Essa, imperniata
sulla rettitudine, si articola dalla concentrazione spirituale e dalla
contemplazione e controllo dei suoi modi di essere alla conoscenza
trascendente o illuminazione, propria dell’Arte regale, che conduce alla
libertà assoluta dello spirito, svincolato dai condizionamenti dei
sentimenti, anche dell’amore, ormai profondamente realizzato a livello
intellettuale.
All’iniziato è indispensabile, nel suo Lavoro, avere fiducia nelle sue forze
ed essere saldo e tenace nei suoi propositi che lo spingono ad acquisire
quella conoscenza, che gli fa vedere il sorgere e il tramonto, dopo averlo
liberato da tutti i pregiudizi. Deve impadronirsi di quella energia
veramente virile, virya, che fa manifesta la forza del suo volere che lo
rende padrone di se stesso e gli fa conquistare la felicità eroica, propria
dell’antica apatheia, la quale, eliminata ogni possibilità di turbamento
dell’animo causato da passioni e da contingenze esterne, proietta al dominio
della non-esistenza con la rinuncia alla vita per la più che vita ed
olimpicizza ogni superiore stato di coscienza per cancellare ogni residuo
orgoglio e volontà di potenza legati al nome e forma, alla persona umana.
Essa è la realizzazione d’una forza assoluta che promana da una coscienza
cosmica capace di sublimare ogni sofferenza ed ogni reazione dell’animo fino
a limiti inconcepibili.
Proprio questa apatheia riconosce Dante nel suicida Catone, che pone non
tanto a guardia del Purgatorio, quanto a fugare le anime alla totale
realizzazione attraverso l’opus purifico-tramutante.
Non gli riconosce la patientia, che non riconosce nemmeno a se stesso, la
capacità, cioè, di sopportare incrollabilmente ogni cosa che possa derivare
dagli eventi umani o naturali.
Questa è, dunque, nel Lavoro iniziatico, la meta dell’Arte regia del
massone, se, dopo aver compiuto i quattro viaggi, la terra non lo condiziona
più con la sua materialità, se l’acqua lo ha lavato e non semplicemente
bagnato, se l’aria lo ha purificato e non annebbiato la sua mente, se il
fuoco lo ha rigenerato e non solo sfiorato e se il simbolismo lo coinvolge e
gli apre l’orizzonte della vita senza solo suggestionarlo.
L’iniziato non deve mai dimenticare, per concludere, l’insegnamento brahmana:
quando il discepolo è pronto, pure il Maestro è pronto, anche invisibile,
spiritus per spiritum infunditur, perché uno spirito veramente nobile ha
grande rispetto per l’altrui persona e troppo spiccato il senso della
propria dignità per cercare d’imporre ad altri le proprie idee e conoscenze,
anche quando ritiene che esse rappresentino il viatico anche per loro.