Se noi consideriamo le testimonianze scritte dello sviluppo storico dell’alchimia araba, constatiamo che l’influenza della scienza delle lettere vi si palesa sotto due aspetti: preponderanza, da una parte, dell’orientamento cosmologico all’epoca dell’assimilazione dell’eredità greco-ermetica nell’opera di Jabir e nell’enciclopedia dei “Fratelli della Purezza”; valorizzazione, dall’altra, dell’ispirazione coranica che sviluppa di preferenza gli aspetti metafisici e profetici, soprattutto presso Ibn’Arabi e negli scritti provenienti dai circoli del “taçawwuf”. Per ciò che concerne il ruolo della scienza semitica delle lettere e dei numeri nel mondo occidentale, noi dobbiamo rilevare che l’impiego fondamentale della scienza delle lettere è quello di rendere accessibile il senso profondo, intellettuale e spirituale, della lingua sacra di una tradizione. Per il mondo occidentale cristiano, la lingua sacra è l’ebraico biblico, così come è conservato nei libri canonici, associato all’aramaico. In effetti, questi libri canonici riportano frammenti in aramaico: una espressione in Gen 31,46 una frase nella profezia di Geremia (10,11) e alcuni capitoli nel libro di Daniele. La qabalah medievale considera l’aramaico del Targum d’Onqelos come la continuazione di questi semi biblici, e da questo fatto le espressioni e il vocabolario di questo Targum acquisirono un carattere sacro. Nello stesso modo, il testo greco del Nuovo Testamento riporta delle espressioni in aramaico la cui continuazione organica è la "Pishitto", la traduzione siriaca dei due Testamenti - è almeno in questo modo che il problema si ripresenta per la qabalah cristiana del diciassettesimo secolo. Inoltre, presso i legittimi eredi di questa tradizione, all’epoca dell’incontro della scienza delle lettere con le dottrine cosmologiche greco-ermetiche ed orientali, due racconti biblici custodiscono un valore normativo: la cosmogonia del libro della Genesi e la visione metafisica e profetica del primo capitolo del libro di Ezechiele. Dire, come fa' Maimonide, che la Genesi è la fisica e il libro di Ezechiele la metafisica, implica di fatto un raccordo tra la scienza ereditata dai Greci con la scienza biblica, che si realizza sotto la protezione inviolabile della gerarchia dei nomi divini biblici. In questa scienza semitica l’assimilazione dei nomi di origine straniera si fa' in funzione della loro traslitterazione per mezzo delle ventidue lettere ebraiche, o detto altrimenti, rapportando gli alfabeti stranieri ai ventidue segni e vocaboli fondamentali degli Ebrei. Relativamente all’incontro storico tra l’alchimia e la scienza delle lettere semitica nel mondo occidentale latino, bisogna notare che oltre la tradizione alchemica che gli è propria, antichi trattati tramandati dagli Arabi e dei trattati arabi di alchimia vi circolavano nelle versioni latine a partire dal tredicesimo secolo. Sin dalla metà del decimo secolo apparivano, prima in arabo poi in ebraico, i primi commentari sul “Sepher Yetzirah”, che è il riassunto fondamentale per la scienza ebraica delle lettere e dei numeri. Nelle comunità giudaiche d’Occidente, nella silloge di questi commentari, questi sono, da una parte, le rivelazioni del profeta Elia, che sono attestate negli scritti delle più eminenti autorità dell’epoca, e dall’altra parte i fogli del “Libro Bahir”, pervenuti in Occidente verso la fine del dodicesimo secolo, che provocano l’emergere di un movimento spirituale ed intellettuale il cui coronamento è la redazione del “Sepher ha - Zohar”, durante gli ultimi decenni del tredicesimo secolo. Questa corrente ha dato alla scienza sacra delle lettere due manuali ritenuti indispensabili: il “Ghinat’Egoz” di Giuseppe Gikatilla, che fu redatto verso il 1270 e sviluppa i principi del metodo del “Sepher Yetzirah” secondo lo spirito dei racconti profetici di Abramo Abulafia, e il “Pardes Rimonim” di Mosè Cordevero, apparso nel 1548, che contiene un’analisi metodica della qabalah zohariana. La questione che si pone allo storico quando paragona le tappe successive della traduzione dei trattati alchemici arabi con quelli della nascita spirituale della qabalah, potrebbe essere formulata nella maniera seguente: Abbiamo noi tracce di un accostamento concertato o almeno di una volontà deliberata di sviluppo organico riguardante congiuntamente l’eredità dell’alchimia e di questa rinnovata scienza giudaica delle lettere e dei numeri? Certo, esistono indicazioni a proposito della presenza di una cosmologia vicina a quella dei neo-platonici e degli alchimisti, soprattutto nello “Zohar", ed essi sono più numerosi di quanto si creda abitualmente. Una maggiore attenzione di questi aspetti permetterebbe forse di avere un nuovo capitolo nella storia della cosmologia medievale occidentale. Tuttavia nel sedicesimo secolo, l’atteggiamento dei cabalisti più ferventi, tanto dal punto di vista religioso che da quello delle scienze cosmologiche, si inasprisce e conduce alla fine ad un rifiuto categorico di tutte le scienze insegnate dai Greci e dai Latini. Questo rifiuto è esplicitamente proclamato da uno dei più celebri tra essi, Meir Ibn Gabbai, che afferma che la tradizione esoterica fu trasmessa senza interruzione dall’epoca del primo e del secondo tempio e che ad ogni generazione i saggi la trasmisero ai loro discepoli senza che nulla trasparisse al di fuori. Questa posizione contrastava con le affermazioni dei discepoli che si richiamavano a Maimonide sostenendo che le scienze possedute dai Giudei si erano disperse in ragione delle loro tribolazioni. Per Meir Ibn Gabbai, non è l’esilio che ha trascinato alla decadenza il popolo di Israele, ma il fatto “che ci si sia allontanati dagli autentici maestri della tradizione e che si sia creduto bene di accogliere lo spirito delle menzogne dei Greci (di fare dello spirito con le menzogne dei Greci) rifugiandosi nei torrioni della letteratura musulmana". Era dunque inconcepibile che i cabalisti perdessero il proprio tempo e le loro energie ingegnandosi a rianimare le nozioni di una scienza straniera - all’occorrenza l’eredità dell’alchimia greco-ermetica - grazie al soffio vivificante della rivelazione venuta dalla montagna del Sinai. Sarebbe errato supporre che nel pensiero di Meir Ibn Gabbai e in quello dei suoi pari questa scienza segretamente conservata dai cabalisti potrebbe essere stata confusa con la scienza maledetta degli angeli decaduti Uza ed Azael, anche se, per ciò che concerne il risveglio messianico delle scienze occulte, bisogna segnalare che durante gli ultimi anni del quindicesimo secolo, alcuni esiliati dalla Spagna, probabilmente i più disperati di tutti, avevano proclamato che il tempo messianico era già arrivato e, di conseguenza, che gli angeli decaduti Uza e Azael, i maestri e i detentori delle scienze occulte, dovevano essere liberati dal loro incatenamento nelle valli profonde e tenebrose dell’Oriente. Muniti di argomenti escatologici, essi pretesero che questi angeli dovessero pentirsi e ritrovare la loro dignità angelica al fine di aiutare con le loro scienze e i loro insegnamenti gli Israeliti nella loro lotta messianica. Ma si poteva supporre veramente che i cabalisti autentici attendessero il risveglio e la pretesa conversione degli angeli maledetti per ristabilire la scienza ritenuta necessaria all'azione dei “fabbri" messianici? Scholem aveva attirato l’attenzione sull’interesse per l’alchimia che noi possiamo osservare presso i Giudei d’Italia durante la seconda metà del sedicesimo secolo. Tra le testimonianze che egli aveva raccolte, la più interessante per il nostro punto di vista sarebbe senz’altro il fatto che Abramo Portaleone da Mantova, “un’autore la cui esistenza storica non è discussa, scrisse nel 1583 in latino i suoi “Tre dialoghi sull’oro" che egli fece stampare l’anno successivo a Venezia. Egli distingueva tra tre tipi d’oro: 1) l’oro volgare, 2) l’oro chimico, 3) l’oro divino di cui hanno parlato i cabalisti". Per questa terza categoria, la qualificazione “divino" lascia pensare che non si tratta dell’oro rosso congiunto alla sephirâ Guebourâ ed inferiore all’argento della sephirâ H'esed, ma di un oro superiore la cui esistenza è affermata, benché assai implicitamente, nello Zohar. Quanto alla fabbricazione dell’oro chimico, sappiamo in questa stessa epoca tre rappresentanti di un’illustre famiglia d’Italia si dedicarono alla pratica dell’alchimia con rimarchevole perseveranza per tre generazioni: Juda Ariyeh da Modena, conosciuto nei suoi scritti sotto il nome di Leone Modena, avversario della qabalah, bisogna precisarlo, suo zio Shemaya, che aveva un monte di pietà a Modena, e il figlio primogenito di Leone, Mordekhai, che verso la fine dell’anno 1614 decise di consacrarsi totalmente alla pratica alchemica in compagnia di un prete cattolico erudito di nome Giuseppe Grillo. Secondo la testimonianza di suo padre, egli allestì un laboratorio nel vecchio ghetto della loro città nel 1615 e vi praticò l’arte dei “soffiatori" che egli aveva appreso nella casa del prete cattolico. Queste ricerche miravano alla produzione chimica dell’oro e niente consente di escludere che Mordekhai Modena ricercasse l’alchimia della felicità appoggiandosi sulla metafisica delle sephiroth. |