La questione si pone molto logicamente: come spiegare l’intrusione del colore verde, verde giallastro, nel procedimento di trasformazione dell’oro ove esso assume infine il posto del rosso e di tutti i derivati del rosso? Per farsene un’idea, abbiamo un bel racconto di un eroe solare. L’evocazione del versetto Jug 14,19, che l’alchimista compie furtivamente a proposito dei trenta valorosi vinti e spogliati da Sansone, ci obbliga a rileggere l’episodio del matrimoni del figlio di Manoah e di cercarvi delle allusioni "chimiche”. I figli di Israele avevano fatto di nuovo ciò che è male agli occhi di Tetragramma ed essi furono consegnati nelle mani dei Filistei per quarant’anni (Jug 13,1). La salvezza di Israele cominciò quando l’angelo di Tetragramma apparve alla moglie, sterile da quarant’anni, di Manoah, della tribù di Dan, e le annunciò la nascita di un figlio che sarebbe stato nazareno già dal seno di sua madre. La donna partorì un figlio e gli diede il nome di Sansone (Jug 13,24). Per l’agadah talmudica (b. Sota 10a), questo nome racchiude la parola shemesh, che significa "sole”, che designa non solo il grande luminare del cielo, ma che è anche un soprannome divino positivo, come afferma la formula del Ps 84,12: Tetragramma è un sole ed uno scudo (shemesh u-maghén). La stessa fonte talmudica afferma che Sansone è un eroe solare: come il sole illumina il mondo, così Sansone illumina la sua generazione; come il Santo, benedetto Egli sia, protegge come uno scudo il suo mondo, così Sansone era uno scudo per Israele nella sua generazione. Sansone lottava solo, come fa' l’Inico del mondo che nel combattimento non ha bisogno di chicchessia; come è scritto (Is 63,3): Nel frantoio ho pestato da solo, e tra i popoli, nessuno è stato con Me! Nello stesso modo, Sansone non ha bisogno della compagnia di altri, neppure di una spada, se non della mascella di un asino. Sansone è per la sua generazione "l’uomo di guerra" solare, l’immagine e l’imitatore del Tetragramma che Mosè aveva celebrato nel cantico del mar Rosso come un "uomo di guerra". Sansone è il sole che si alza a mezzanotte per liberare Israele (Jug 16, 3): Sansone restò coricato sino a mezzanotte, si alzò, e colpendo i battenti della porta della città e i due pali, egli li sradicò con la spranga, li mise sulle sue spalle e li portò sulla cima della montagea che guarda Hebron. Secondo lo pseudo-Filone (43,4), Sansone portò uno dei battenti della porta come uno scudo, con l’altro egli colpì come con una spada, proprio come il sole in pieno mezzogiorno colpisce con i suoi raggi. Sansone è anche l’immagine della statua che Nabucodonosor vide in sogno. Era un gigante, l’agadah afferma che le sue spalle misuravano sessanta cubiti. Tutta la sua forza era nella sua testa ed egli si teneva su due piedi fragili. I suoi due piedi erano paralizzati ed egli si trascinava zoppicando. L’antico midrash paragona Sansone il Danita al serpente. È questo che è visto personalmente nella profezia del patriarca Giobbe, quando questi dice: Dan sarà un serpente sulla via, un aspide sul sentiero …Il serpente è vendicatore, così Sansone è un terribile giustiziere (Jug 16,28): Che di un sol colpo io mi vendico sui Filistei per i miei occhi. Tutta la forza del serpente si trova nella sua testa, così Sansone aveva tutta la sua forza nei suoi capelli (Jug 16,17): Se mi si radesse, allora la mia forza mi abbandonerebbe, io perderei il mio vigore. Il serpente spruzza il suo veleno quando la sua fine è inevitabile, così Sansone (Jug 16,30): Coloro che egli fece perire morendo furono più numerosi di quelli che aveva fatto morire in tutta la sua vita. Lo stadio della crisopea di cui Sansone è l’eroe solare comincia invero vicino le vigne di Timma, quando egli è sulla via per presentare la Filistea, l’eletta del suo cuore, ai suoi parenti (Jug 14,5-7): 5. Sansone si portò dunque, con suo padre e sua madre, a Timma. Come essi raggiungevano le vigne di Timma, ecco che un leoncino, figlio di leoni, venne verso di lui. 6. Colto subito dallo spirito (ruah) di Tetragramma, Sansone lo fece a pezzi lacerandolo come si farebbe di un capretto, e non rimase nulla nella sua mano. Egli non disse a suo padre e a sua madre quel che aveva compiuto. 7. Egli quindi scese per fare la sua dichiarazione di matrimonio alla donna. Costei incantava gli occhi di Sansone. Come è stato spesso sottolineato, tutta la ambigua fatalità che accompagna sulla sua via un eroe solare si trova illustrata in queste righe. Egli fa un incontro pericoloso, apparentemente per puro caso. Egli agisce sotto l’azione palesemente affermata dello Spirito divino. Ma in quanto mortale, si impegna a realizzare il suo desiderio, il cui strumento, i suoi occhi, causerà la sua rovina. Quel che i commentatori non ci dicono, ma che il redattore alchimista dell’Esh mesareph ci segnala, è che "per mezzo dei numeri concordanti, le parole kephir, giovane leone, e yaroq, viridità, si trovano riunite; ognuna di esse infatti vale 310". La storia continua (Jug 14, 8-9): 8. Qualche tempo dopo, essendo ritornato per sposarla, egli sviò un poco al fine di vedere il cadavere del leone (ariyeh), e trovò nel suo tronco uno sciame di api e del miele. 9. Egli lo prese con le sue stesse mani, ne mangiò cammin facendo, e, avendo raggiunto suo padre e sua madre, ne diede loro da mangiare, senza rivelare loro che aveva tratto il miele dal tronco del leone (ariyeh). Come costatiamo con stupore, il testo biblico non parla più di "leoncino" (kephir) ma di "leone" (ariyeh). Come se la putrefazione del cadavere avesse trasformato il leoncino in leone. Secondo l’autore dell’Esh mesareph,"si sa adesso che nei misteri metallici, sin dal principio si presenta l’enigma del leone della virilità che noi chiamiamo Leone verde, che non bisogna credere, essere stato così definito se non per il suo colore; infatti se la tua materia non è stata verde non solamente nello stato immediato prima di essere ridotta in acqua, ma ancora dopo che l’acqua d’oro ne è venuta, ricordati che bisogna correggere la tua secca via universale". Sembra che in seguito all’atto di Sansone, la materia non sia restata verde; l’acqua d’oro solare delle api non si è fusa con la materia. Inoltre, Sansone ha estratto il miele dall’interno del corpo del cadavere e se ne è rimpinzato. Egli non ha corretto la sua condotta, egli ha sposato la straniera. Sentendo il suo insuccesso, egli fece ricorso all’astuzia, compose degli enigmi, fece delle scommesse, fece il buffone. La sua opera che lo spirito di Dio volle provocare facendo andare verso di lui sulla strada un leoncino verde era completamente fallita. È in questo momento critico che il numero 30 entra in gioco nello svolgimento della crisopea. Durante il suo matrimonio, si indicano a Sansone trenta dei suoi compagni per tenergli compagnia (Jug 15,11). È a questi valorosi filistei che egli propone l’enigma sul leone ed il miele (Jug 15,18). Il prezzo della sua sfida è fissato in trenta camicie e trenta abiti. I suoi compagni non trovano la soluzione, ma "arano con la sua giovenca". Colmo di derisione, egli finisce per dare la chiave dell’enigma a sua moglie che lo tradisce. Egli si trova nell’obbligo di procurarsi dei vestiti per pagare il prezzo della sua astuzia. È in questo momento critico che si situa un secondo intervento dello spirito divino (Jug 15,19): Allora lo spirito di Tetragramma si posò su di lui, egli discese ad Ashquelon, vi uccise trenta uomini, si impossessò delle loro spoglie e diede a coloro che avevano indovinato l’enigma i vestiti promessi; poi pieno di furore, si ritirò presso suo padre. Quanto all’espressione "loro spoglie", il commentatore medievale David Quimhi precisa che il bottino comprendeva i loro abiti, le loro armi e i loro pezzi di metallo prezioso. Sansone diede i vestiti di ricambio a coloro che avevano fornito la soluzione dell’enigma appresa mediante frode; egli ha dato in più delle camicie, anche se il versetto biblico (Jug 14,19) non ne fa menzione. Tuttavia, se egli non lasciò loro che i vestiti di ricambio, ciò era sufficiente per costoro, poiché la loro acquisizione era fraudolenta, nota il commentatore. Possiamo concludere da parte nostra che Sansone aveva costruito per lui le armature e i pezzi di metallo prezioso. Secondo l’autore dell’Esh mesareph, questi trenta valorosi uomini uccisi erano originari di Parwaim e si chiamò l’oro di questo bottino "oro di Parwaim”. Quest’oro degli "uomini forti", "degli eroi", era l’oro buono di Hevilat di cui si custodiva il ricordo grazie al racconto del paradiso (Gen 2,11-12). Lo spirito di Dio ha dato due volte a Sansone l’occasione di procurarsi quest’oro: una volta per via naturale, che nondimeno esigeva la sua forza ed il suo coraggio, ed un’altra volta per mezzo di un atto eroico disperato in cui quest’oro gli fu dato come per supplemento. Il colore di quest’oro, yeraqraq, soppianta il colore "giallo verdastro" semplice, yaroq, del leoncino. In gimatreya yaroq vale 310, come yeqar, la gloria; yeraqraq vale 610, l’equivalente della parola yéter che significa tra le altre cose, "eccellenza", "sovrabbondanza". Secondo l’agadah, quando il patriarca Giacobbe pronunciò la sua profezia davanti ai suoi figli, egli pensò dapprima che la salvezza di Israele venisse da Sansone. È per questa ragione che egli dice a proposito di Dan di cui Sansone era il discendente (Gen 49,18): Nella tua salvezza io spero, o Tetragramma. Ma subito egli ebbe una visione e percepì la fine poco gloriosa che attendeva Sansone. Allora, continuando la sua profezia, egli si voltò verso Gad e disse (Gen 49,19): Gad sarà assalito dai nemici, ma egli li assalirà a sua volta. Gli agadisti pensano che Giacobbe vide in quel momento il profeta Elia, che alcuni tra essi considerano come il discendente di Gad. Ciò che qui importa, è che Sansone è in un qualche modo una figura precorritrice della vocazione escatologica di Elia. Bisogna notare anche che con Sansone, il Danita, il serpente che segna la profezia su Dan entra nei simboli degli ultimi gradi della crisopea. Dei colori di gloria che celebrano la vittoria di Shaday, che sono enumerati nei versetti 14-15 del salmo 68, ne abbiamo già visti due, il bianco argentato ed il bianco-verde giallastro. Ci resta da trovare il senso alchemico della parola harus. I traduttori dei salmi optano a questo proposito per un "oro finissimo", e di esaminare il suo rapporto con il bianco puro, brillante che il salmista paragona alla neve che cade sul monte Salmon remoto in una luce abbagliante. Se ne tratta nella settima ed ultima visione degli ori della testa dorata: "Essendo realizzato ciò (vale a dire l’acquisizione dell’oro di Parwaim), l’oro sarà, in settimo luogo, paz ("agile, attivo"); mupaz ("reso attivo"); upaz ("proveniente da Upaz"); reso forte per colorare ed illuminare tutti i metalli perfetti. Esso è harus, questa cosa aguzza, penetrante che, secondo Job 41,22, deve essere estesa sul fango, vale a dire sulla sostanza che è imperfetta, che ha koah, la possibilità di diventare oro; giacché tit ("fango") e koah ("potenza") hanno il medesimo valore numerico. Ed egli farà bollire come una pentola (la profondità dell’abisso); la profondità del crogiuolo; il mare delle pesanti acque metalliche, egli lo trasformerà in un brucia-profumi; dietro di lui farà luccicare un sentiero (Job 41,23)". In questa traduzione, abbiamo interpretato il termine paz come "l’oro attivo, agile" per natura; il termine mupaz come "l’oro reso attivo", reso capace di comunicare quest’agile potenza; ed il termine upaz come "l’oro proveniente da Upaz", ma di cui non sappiamo se avesse la qualità di comunicare l’agile potenza, avendo semplicemente il colore degli ori di questa categoria. La parola harus è impiegata in questo testo come una sorta di soprannome dell’oro della settima contemplazione. Si potrebbe tradurlo con "il laborioso", "l’acuminato", "l’appuntito", "il rapido". In realtà, la radice trilettere het, résh, sadéy significa, quale verbo, haros: a) "tagliare, scavare, incidere"; b) "affilare, intagliare"; c) "decidere, decretare"; d) "muoversi, affrettarsi"; e)"appesantirsi, immergersi". Come sostantivo, harus: a) "taglio, incisione"; Come aggettivo: a) "laborioso, attivo" b) "tagliato, appuntito"; c) "acuminato, trafiggente". Per trovare le informazioni riguardanti l’attività trasformatrice di questo oro, il redattore alchimista evoca, aggiungendovi alcuni dettagli operativi, il capitolo 41 del Libro di Giobbe, soprattutto il passaggio in cui un oracolo di Tetragramma descrive Leviatano. "L’uomo di guerra", il Salvatore invincibile della settima tappa nella crisopea sarebbe questo serpente gigante del mare di cui Tetragramma dice a Giobbe (41,17-19): 17. Quand’esso si alza i più coraggiosi hanno paura, lo spavento li fa fallire. 18. Che lo si attacchi con la spada, la spada non resiste, né la lancia, né il giavellotto, né la freccia. 19. Il ferro gli pare paglia, il bronzo legno tarlato. Dopo questa presentazione del guerriero, l’oracolo lo descrive come il re di tutti i figli dei leoni alteri (41,22-26): 22. Sotto il suo ventre sono dei cocci acuminati, si direbbe un erpice (harus) che egli mena sul fango (tit). 23. Egli fa ribollire l’abisso come una caldaia, fa del mare un brucia -profumi 24. Egli lascia dopo di lui una scia di luce, l’abisso fa pensare ad un vegliardo canuto. 25. Egli non ha eguale sulla terra, è stato creato per non temere nulla. 26. Egli guarda in faccia tutto ciò che è elevato (gabhò ah), egli è re su tutti i figli dei leono alteri (shaha). Il versetto 22 ha una particolare importanza per il mito dell’oro. A proposito della parola heres, che i traduttori si sforzano di rendere con "coccio”, tanto che essi rendono l’espressione hidudéy heres con "cocci appuntiti", Rashi fa rilevare che a posto della parola heres (het, résh, sin) bisogna leggere piuttosto heres (het, résh, samekh) che significa "sole". Infatti, nel primo libro di Giobbe (9,7): Egli comanda al sole (heres) ed il sole non si leva più. Mediante questa sostituzione, l’espressione hidudey heres non significa più "cocci appuntiti" ma piuttosto "i raggi penetranti del sole". Secondo Rashi, si tratta delle pinne di Leviatano che sono paragonabili a delle spade appuntite, affilate, luccicanti, splendenti di biancore. Questa spiegazione della parola heres trasforma Leviatano in un animale cosmico che porta il sole sul suo ventre, si attorciglia nella sabbia sul bordo del mare che circonda la terra intera, fa ribollire il mare, inonda l’abisso della sua luce, conferendogli l’apparenza della bianca capigliatura di un vegliardo. Inoltre, sempre secondo Rashi, la parola harus non indica un "erpice”, quest’assemblaggio di ferri appuntiti che scava la mota, ma "l’oro harus" che le pinne di Leviatano spandono dappertutto quand’esso li mena sulla sabbia o sul fango. Da questo punto di vista, il versetto 22 può avere due interpretazioni secondo Rashi: con le sue pinne, Leviatano spande l’oro harus sul fango; oppure, Leviatano si falcia e scivola sul suo ventre e nel punto in cui il suo ventre tocca il suolo, il fango si trasforma in "oro harus". Con l’aiuto di questi significati grammaticalmente plausibili per il versetto 22 possiamo eventualmente interpretare i tre termini tecnici di questo oro: paz sarebbe la semenza d’oro che esce dalle pinne di Leviatano, mupaz sarebbe il fango trasformato in oro al contatto del ventre del mostro e, infine, upaz sarebbe un oro di questa regione prodotto al secondo grado, senza il diretto contatto di Leviatano. "Ciò che è elevato", gabhoah, designa in generale gli angeli. Per mostrare il funzionamento di un’organizzazione angelica gerarchizzata, si cita usualmente il versetto Qoh5,7: Al di sopra di un essere elevato veglia un altro essere elevato, ed altri esseri elevati vegliano su di essi. Questi "esseri elevati" e questi "figli dei leoni alteri" (shahas), gli alchimisti li conoscono come i cosmocrati, i preposti alle sfere celesti ed alle forze della natura i cui nomi, marchi ed invocazioni riempiono i libri magici. Alla fine di questo racconto poetico il redattore alchimista, che forse non è che il trasmettitore di una tradizione orale, pronuncia una piccola benedizione e, cosa curiosa, ci indica il vero obiettivo delle sue ricerche: "Benedetto sia il nome della gloria del suo regno nei secoli e per l’eternità. Queste cose io scrivo,piccolo mio, secondo l’insignificanza della mia coscienza, che tenta di trovare le cose segrete, per guarire le creature". In questo contesto la parola "creature" designa gli esseri umani. Ma una estensione della portata di questa parola agli esseri animati ed inanimati non ha nulla di straordinario presso un alchimista che stima essere per definizione il medico dei metalli. Egli continua la sua confessione e noi dobbiamo approfittare di questa occasione per conoscere le sue motivazioni: "Ma ciò che mi ha determinato a non sviare dalla via dritta e buona finché non avrò trovato la medicina migliore, è quel che è trasmesso nello Zohar, Hè azinu fol. 145c. 580. sul dovere del medico". Nelle nostre edizioni correnti dello Zohar, troviamo questo passaggio al t. III, fol. 299 a-b, che commenta i versetti Dt 32, 10-12 del cantico di Mosè (229): 10. Tetragramma l’ha trovato in una terra deserta, in una solitudine (tohu), in urla selvagge; egli l’ha circondato, si è preso cura di lui, l’ha custodito come la pupilla del suo occhi. 11. Simile all’aquila che stimola la sua covata, e volteggia al di sopra dei suoi piccoli, egli ha dispiegato le sue ali, l’ha preso, l’ha portato sulle sue piume; Tetragramma solo l’ha condotto, 12. Nessun dio straniero era con lui. Come aveva notato Scholem, questo è l’unico punto nell’Esh mesareph in cui il suo redattore fa appello esplicitamente ad un commento zoharico. Sfortunatamente, la lunga citazione in questione è stata tradotta assai male in latino, ed in assenza di un commentario gli argomenti che vi sono avanzati per mezzo di allusioni piuttosto che di affermazioni non sono stati compresi. In queste condizioni, è normale che queste idee siano rimaste senza eco presso i medici del diciassettesimo secolo, che nondimeno non erano ostili né all’erudizione ebraica né ai metodi della qabalah. |